martedì 21 giugno 2011

Jack Kerouac

I sotterranei sono l’altra faccia di Sulla strada: è la costruzione di una “scena”, di un paesaggio (e poco importa se l’ambientazione originale a New York è stata trasferita per sommi motivi sulla West Coast), di un profilo etico ed estetico, per sua natura indefinibile, caleidoscopico, volubile e aleatorio. In sé, I sotterranei è uno dei primi possibili identikit della Beat Generation, a partire dai suggerimenti sul “metodo” da usare nella scrittura: “Non fate periodi che separino frasi-strutture già confuse arbitrariamente da falsi punti e virgola e da timide virgole per lo più inutili, ma servitevi di un energico spacco che separi il respiro retorico (come il musicista jazz prende fiato tra le varie frasi suonate). Gerry Mulligan, Billy Eckstine, Sarah Vaughan e l’infinito Charlie Parker: c’è molto jazz e c’è molto Jack (Kerouac) nei Sotterranei e “poiché il tempo è l’essenza della purezza del discorso, il linguaggio è un indisturbato flusso dalla mente di segrete idee-parole personali, un esprimere (come fanno i musicisti jazz) il soggetto dell’immagine”, lo scorrere delle parole non ha soluzioni di continuità, è una “forza vulcanica”, come la definisce Henry Miller, che attorno a una proibitiva storia d’amore celebra un suo particolarissimo senso del tempo. La percezione più accurata è, ancora una volta, di Fernanda Pivano: “Non esiste futuro, non esiste passato nel caos del suo mondo; esiste solo uno strano, istantaneo presente, inesplicabile e nemico, che solo la liberazione dalle dimensioni dello spazio e del tempo può far provvisoriamente superare. Gli elementi per superarle sono soprattutto fisiologici (come l’orgasmo) o mistici (come le visioni) o passionali (come il jazz) o artificiali (come la droga); ma da questo superamento può derivare una realtà poetica insieme a una realtà di vita. Evidentemente è una realtà destinata a durare soltanto per l’istante di liberazione offerto da quegli elementi: per Kerouac è destinato a durare soltanto per il momento dello scrivere”. Conta, certo, il fatto che tra I sotterranei e Sulla strada, Jack Kerouac abbia “violentato a tal punto la nostra immacolata prosa che essa non potrà più rifarsi una verginità”, come scriveva Henry Miller nell’introduzione, così come ha avuto un suo peso la sua forza dirompente che costrinse anche i soliti censori a riconoscere nei Sotterranei “un’opera d’arte”, ma quello che si impone più che un metodo o una posizione, è una nuova forma di vita. “Senti un po’ questo qui sta sveglio tutta la santa notte con le orecchie e con gli occhi. Una notte di mill’anni. Ascolta in grembo a sua madre, ascolta in culla, ascolta a scuola, ascolta nella sala borsa della vita dove si barattano sogni contro oro. E bada: è stufo di ascoltare. Vuole muoversi. Sbocciare. Ma tu glielo permetti?” e Jack Kerouac lo chiede senza paura al lettore così come a se stesso, consapevole che è proprio quello il momento in cui “l’affare di mettere i nostri sogni sulla carta” diventa la realtà, l’unica che conti. 

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