giovedì 28 maggio 2020

Tyler Keevil

Più che alla canzone di Townes Van Zandt, da cui i fratelli Harding, Timothy e Jake, prendono i soprannomi,  il romanzo del canadese Tyler Keevil deve la sua naturale struttura ai versi di due brani di Springsteen, Highway Patrolman e Atlantic City e, per inciso, a tutta l’atmosfera di Nebraska. La prima, citata in epigrafe, è più che sufficiente a introdurre e a illustrare la condizione della famiglia Harding che ha vissuto sempre un po’ ai margini di Vancouver, una città tra Canada e Stati Uniti sospesa tra terra e mare, con il cemento e l’acciaio che sfidano la wilderness. Gli Harding provano a condurre una vita onesta, ma è difficile: con un padre scomparso ben presto e una madre non del tutto allineata, Tim e Jake, gli equivalenti di Joe e Frankie in Highway Patrolman, vengono cresciuti dalla sorella Sandy, pronta a trasferirsi a Parigi verso un futuro radioso da ballerina. Il quadro familiare, nonostante le intemperanze di Jake, che ha una sua peculiare vocazione nell’andare a caccia di guai (trascinando con sé il fratello, naturalmente) regge fin quando Sandy non viene uccisa in un incidente. Da lì in una il susseguirsi degli eventi porteranno Jake in carcere, poi a essere debitore verso un gang di delinquenti che gli chiederanno di rubare un cavallo, Shenzao. Tyler Keevil ci mette un po’ a lasciar affiorare la trama di Poncho e Lefty intercalando spesso il fantasma di Sandy e le ombre del passato che inseguono i due fratelli, ma, nodo dopo nodo il racconto si intreccia in una rete che cattura il lettore e non lo molla più. Inevitabilmente, Jake chiederà aiuto a Tim, che nel frattempo aveva trovato un lavoro su un peschereccio, duro ma dignitoso, e si ritrova combattuto di fronte all’appello del fratello, che infine deciderà di assecondarlo perché “è sempre così. Difficilmente ci comportiamo in modo ragionevole o razionale, specialmente quando c’è di mezzo l’amore, e la famiglia”. La frase annuncia e nello stesso tempo lascia in sospeso molto di quello che succederà dopo perché Jake e Tim, dovendo portare il cavallo oltre la frontiera, negli Stati Uniti, s’imbarcano in un’odissea picaresca e tragicomica. Tra l’altro riusciranno a caricarlo a bordo della barca su cui lavorava Tim, sfidando una tempesta e un addio al nubilato (in una delle scene più esilaranti del romanzo). Il viaggio ha qualcosa di epico perché oltre alla frontiera geografica, Jake e Tim dovranno superare il confine che li divide con una caparbietà che, in effetti, riesce a portarli molto lontano. Dove arriveranno va scoperto leggendo Poncho e Lefty  perché i fratelli Harding impareranno, sul mare, sulla strada e nella lotta per la sopravvivenza, che il loro legame è l’unica possibilità che hanno. Questo, al di là dell’inevitabile scontro con la gang che li segue, vale soprattutto quando dovranno affrontare anche Maria, una ex di Jake, e la figlia Samantha. In una delle rare pause delle traversie di Poncho e Lefty balleranno tutti insieme sulle note di Atlantic City, di cui è inevitabile ricordare quel verso che dice “qui ci sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare intrappolati nella parte sbagliata”. Difficile immaginare che Tyler Keevil non ci abbia pensato, perché non è finita lì, e quel momento incide parecchio sull’evoluzione conclusiva della storia che è prodiga di colpi di scena. Tyler Keevil, un novello James Crumley che predilige le sfumature umane a quelle delle armi, conduce Poncho e Lefty senza esitazioni con il ritmo di una ballata che racconta di fughe e addii, conquiste e dolori, burrasche e tormente dando una nuova e imprevista dignità ai ladri di cavalli, uno dei mestieri più pericolosi e dannati di tutto il West. E, come succede spesso da quelle parti, i fratelli Harding saranno stati dei fuorilegge, sì, ma sono ancora dalla parte giusta. Consigliatissimo.

martedì 26 maggio 2020

John Steinbeck

Incaricato di redarre una serie di articoli destinati a testimoniare le condizioni di vita dei lavoratori migranti, nel 1936 John Steinbeck intraprende una serie di viaggi tra le baraccopoli spontanee e i campi federali che sono cresciuti come funghi nelle valli californiane. La prima impressione riportata è che “le nostre strade pullulano di lavoratori migranti, un gruppo di raccoglitori di nomadi, colpiti dalla povertà e spinti dalla fame e dallo spettro della fame a vagare di campo in campo, di raccolto in raccolto, su e giù per lo stato”. Arrivano in gran parte dall’Oklahoma e da altre aree del Midwest in fuga dalle Dust Bowl, le tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti tra il 1931 e il 1939. Bisogna ricordare che, allora come oggi, gli eventi atmosferici furono soltanto l’effetto finale di un esecrabile rapporto con la terra sfruttata fino a prosciugarne ogni qualità. Nello stesso modo l’esodo ha scoperchiato i limiti dell’industrializzazione dell’agricoltura in California. Come nota Steinbeck, all’inizio, “il viaggiatore di passaggio a cui capita di assistere agli spostamenti dei migranti sulle strade principali, li trova misteriosi, perché d’improvviso le carreggiate si riempiono di bagnarole scoperte cariche di bambini e di biancheria sudicia, di utensili da cucina anneriti dal fuoco”. Ben presto, diventa evidente che per le colture intensive “i migranti sono necessari, e sono odiati”, una condizione paradossale che, come intuisce bene John Steinbeck, è potenzialmente esplosiva: “Possono diventare il miglior tipo di cittadini oppure un esercito spinto a prendersi ciò che gli serve dalla sofferenza e dall’odio. Il trattamento che sarà loro riservato in futuro determinerà la direzione che saranno costretti a imboccare”. Nella maggior parte dei casi resteranno confinati in accampamenti maleodoranti e malati, assediati dall’indifferenza e dalle compagini militaresche più o meno legali, ovvero, per dirla con Steinbeck, “un sistema terroristico che sarebbe inaudito persino nei paesi fascisti”. Più avanti, il governo fornirà strutture più adeguate, con un minimo di servizi igienici, e soluzioni abitative dignitose, ma l’essenza rimane quella confessata da un giovane lavoratore a Steinbeck: “Quando hanno bisogno di noi, ci chiamano migranti, e quando abbiamo finito il raccolto, diventiamo vagabondi e dobbiamo toglierci dai piedi”. I reportage non si limitano a descrivere la vita ai limiti della sussistenza dei fuggiaschi delle Dust Bowl, ma seguendo il loro dramma affrontano anche i risvolti razziali delle migrazioni perché “ai grandi coltivatori la manodopera messicana offriva ben altri vantaggi rispetto alla semplice convenienza economica. Quando non era necessaria, poteva essere trattata come spazzatura. Questi lavoratori potevano vedersi negare qualunque cura in caso di malattia e invalidità, e per di più, se opponevano resistenza a causa dei salari bassi e delle terribili condizioni di vita, potevano essere rimpatriati in Messico a spese del governo”. Ancora peggio per il lavoratori cinesi impiegati nella costruzione delle ferrovie che divennero il “pericolo giallo” con l’entrata in guerra del Giappone, senza riuscire a distinguere quel minimo necessario, dato che le forme razziste di segregazione ed esclusione si nutrono di ignoranza. Le osservazioni di Steinbeck sono puntuali, tanto da arrivare a proporre una soluzione ragionevole più che condivisibile: “In queste comunità si dovrebbe incoraggiare lo spirito di collaborazione e di mutua assistenza, in modo che con l’autogestione e con un rinnovato senso di responsabilità sociale queste persone possano tornare a essere dei cittadini a pieno titolo. La spesa per questi progetti dovrebbe essere sostenuta dal governo federale, da quello statale e dalle contee, in modo che le comunità che richiedono il maggior numero di lavoratori stagionali siano tenute a contribuire al loro benessere. Il costo di un’impresa del genere non sarebbe molto maggiore di quello speso oggi in gas lacrimogeni, mitragliatrici, munizioni e vicesceriffi”. Non succederà, ma I nomadi forniranno le inesauribili fonti d’ispirazione a cui attingerà per Furore.

domenica 24 maggio 2020

Denis Johnson

In una delle sue preziose lezioni John Gardner spiegava che “lo scrittore non deve solo essere capace di comprendere le persone diverse da lui, ma deve subirne il fascino. Deve avere sufficiente stima di sé da non sentirsi minacciato dalla diversità, sufficiente calore umano e comprensione, sufficiente interesse per l’imparzialità di cui ha bisogno per apprezzare persone diverse da lui, e infine deve avere, secondo la mia opinione, una sufficiente fiducia nella positività della vita, tale da poter non solo tollerare ma anche celebrare un mondo di diversità, conflitti, contrasti”. È una definizione che introduce alla perfezione La generosità della balena, dove Denis Johnson affronta esistenze che si sono spinte ai margini, o vi sono state relegate. È come vedere i protagonisti di Jesus’s Son vent’anni dopo: c’è una sofferenza condivisa fra tutti i personaggi dei racconti, come se avessero un debito primordiale da rispettare, come se non conoscessero le regole di un gioco a cui sono costretti giocare o come se il loro destino fosse sabotato. Denis Johnson sa interpretarli con una superba padronanza del linguaggio, dei tempi, dell’organizzazione delle trame e con un una particolare sensibilità per soluzioni insolite e spiazzanti. Le immagini sono crude, taglienti, essenziali, ma il quadro psicologico dei protagonisti è completo e accurato, tanto che sembrano orientarsi senza alcun aiuto nei labirinti in cui sono finiti e dove “il flusso della vita si ingarbuglia e si sgarbuglia in un istante, come lo schiocco di un nastro teso”. La sequenza dei racconti è una raffica di esperienze durissime: un epistolario a senso unico da una comunità terapeutica costituisce la struttura di Lo Starlight sulla Idaho, mentre la confessione di Bob lo strangolatore spalanca le porte di vite spezzate dal carcere e dalle droghe. Se l’eroina era il leitmotiv in Jesu’s Son, qui dominano le allucinazioni dell’LSD e la decadenza alcolica di Darcy Miller, lo scrittore al centro di Trionfo sulla morte. Abbandonato a se stesso in un ranch in mezzo al Texas, era l’autore di un brillante romanzo, Sempre l’uomo sbagliato, titolo che ricorda come i personaggi di Denis Johnson abbiano tutti un nome e ne usino un altro. Un altro poeta in affanno, Marcus Ahearn, ci conduce invece nel gioco di specchi di Doppelgänger, poltergeist. Il racconto comincia, di fatto, l’8 gennaio 2001, quando Mark (Ahearn) riesuma la bara del fratello di Elvis e prosegue da Graceland a New York inseguendo l’idea secondo cui il colonnello Parker avrebbe ucciso Elvis quando è tornato dal servizio di leva. Tutta una mitologia e un’antologia di luoghi comuni che Denis Johnson rielabora sullo sfondo dell’apocalisse: associare Elvis e l’11 settembre ha quel tanto di perfido nel rielaborare le teorie del complotto e qui va ricordato ancora una volta quello che scriveva Don DeLillo in Rumore bianco, ovvero che “tutti gli intrighi tendono alla morte. È la loro natura. Intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi, intrighi nei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci accostiamo alla morte. È come un contratto che devono firmare tutti, chi intriga come coloro che sono i bersagli dell’intrigo”. L’unico personaggio che pare districarsi in questa ragnatela di questi racconti è Bill Whitman. In La generosità della balena che convive con “la persistenza dei vecchi rimpianti, i nuovi rimpianti, gli insuccessi che riescono a ripresentarsi in forme sempre originali” e c’è qualcosa nel cognome da tenere d’occhio, perché quella di Denis Johnson, nell’insieme, è “una fotografia di rovine americane”. Scomoda, ma necessaria.

domenica 17 maggio 2020

E. M. Corder

C’è una luce cupa e livida su Clairton (“abitanti trentaseimilacinquecento”), una cittadina blue collar ai piedi dei monti Allegheni. Una festa di matrimonio, una battuta di caccia, torrenti impetuosi di birra sono tutto ciò che condividono Michael, Stan, Nick, Steven, Angela e Linda, prima che la guerra del Vietnam imponga il suo pedaggio anche a Clairton. All’inizio Il cacciatore si propaga a flash con scene strazianti (Linda e il padre) e tesissime (Michael e Stan alle prese con gli stivali), mescolando in un caos alcolico, l’esuberanza delle amicizie e la malinconia delle solitudini. La scrittura di E. M. Corder è schematica, a suo modo impietosa nel raccontare l’ineluttabilità di una storia che mette in evidenza i luoghi comuni americani: il patriottismo, in primo luogo, una certa cultura macho, i limiti di cittadine cresciute intorno alle industrie (con nessun attrattiva, se non un bar e un bowling), la rigidità del clima e l’impervia bellezza della wilderness. È “la durezza dei sopravvissuti” a tenere insieme un paese che vive del lavoro in fonderia, un mostro che ingoia e sputa acciaio con mille operai. Una vita onesta e durissima, ma dalle prospettive limitate, che vengono riassunte così da Nick: “La questione è tutta qui. Io credo di amare questo dannato paese”. La frase è ambivalente ed è la fonte di ispirazione primaria per la partenza da volontari di Michael, Steven e dello stesso Nick per il Vietnam, che si spiega solo con l’assecondare quei modelli e quelle tradizioni che impongono e reiterano un modello di vita, quasi per inerzia. Il Vietnam è una frattura, centrale e fondamentale per Il cacciatore, dove Steven, forse il più fragile degli amici, dice “noi non siamo fatti per questo posto”. La distanza si fa abissale, ma nelle vicende dei tre protagonisti comincia a prendere forma il racconto anche perché come diceva Michael Herr in Dispacci “dopotutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone”. Questo si rivela particolarmente vero per Il cacciatore, dove i percorsi personali di Michael, Nick e Steven si snodano in direzioni diverse. Solo la figura di Linda resta come un elemento di continuità nella frattura che divide i tre amici, uniti e, nello stesso tempo, separati dalla guerra. La durezza del racconto, molto frammentario, si riflette nella ricostruzione molto parziale della guerra. A parte l’identificazione truculenta dei vietnamiti, che scade nella caricatura, ma è funzionale a una delle scene più avvincenti del romanzo, non c’è dubbio che la storia abbia un suo lirismo e che la tensione sia costante, in particolare nelle fasi conclusive, quando il ritorno sembra mostrare la cittadina di Clairton sotto un’altra luce. È come se mancasse qualcosa, più che qualcuno, ma è facile sbagliarsi e così Michael, l’unico che è rientrato intero, decide di tornare in Vietnam in cerca di Nick, ma “Saigon stava per cadere. La guerra era alla fine. L’America era tesa, ansiosa ed emozionata. L’esercito un caos. In momenti simili, un uomo che si sappia barcamenare, può ottenere ciò che vuole, se è deciso a tutto”. Nella sua decadenza, il finale è tragico e kitsch e si concentra nella figura secondaria di Julien Grinda. Il faccendiere, mentre imperversano i combattimenti senza quartiere, osa dire che “quando un uomo dice no alla champagne dice no alla vita”. È l’emblema della sconfitta, più della roulette russa e degli elicotteri in fuga dall’ambasciata americana, ma sarà un altro, mesto brindisi nella taverna di Clairton a condensare tutta l’amarezza e la dignità che Il cacciatore condensa in sé.

martedì 5 maggio 2020

Michael Herr

Per Michael Herr, la collaborazione con Stanley Kubrick è diventata un’amicizia fatta di lunghissime conversazioni telefoniche, che costituiscono la materia prima di questo libro. Gli argomenti delle chiacchierate spaziano dalla letteratura ai ruoli degli attori fino alla definizione degli impegni cinematografici. Il dialogo è costante e serrato, ma in realtà Michael Herr è più che altro un ascoltatore. Ricorda che tutto è cominciato quando Stanley Kubrick “stava pensando di fare un film di guerra, in quel periodo, ma non sapeva su quale guerra, e in effetti, adesso che ne parlava, non era nemmeno così sicuro di voler fare un film di guerra”. Ma, dopo aver lavorato ad Apocalypse Now, Michael Herr aveva concluso che “il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali”. Per essere più preciso: “Quanto ai miei sogni, quelli che persi laggiù si sarebbero fatti strada più tardi, avrei dovuto saperlo, certe cose, è naturale, si limitano a seguirti finché non hanno attecchito. Sarebbe giunta la notte in cui sarebbero stati vividi e persistenti, la notte d’inizio di una lunga catena, allora avrei ricordato e mi sarei svegliato con il dubbio di non essere mai stato per davvero in nessuno di quei luoghi”. Lo riteneva un capitolo chiuso, ma Stanley Kubrick lo coinvolse nella realizzazione di Full Metal Jacket e da lì pensava di aver trovato l’ennesimo complice nell’inseguire le sue visioni. In effetti, gli propose di collaborare a “un lavaggio e un risciaquo” della sceneggiatura di Eyes Wide Shut, ma Michael Herr sapeva bene che la dedizione del regista era estrema e incondizionata e non voleva ricascarci, anche perché “l’isolamento di un artista non ha niente a che vedere con le circostante concrete, in ogni caso, con il fatto che svolga il suo lavoro in maniera più o meno esposta agli sguardi altrui. È invece una questione di ritmo, di intuizione, di sperimentazione, e di quel particolare genere di silenzio a cui non si giunge più tanto facilmente di questi tempi, e a cui non si giunge affatto se non si lotta per averlo”. Però restava un legame costruito su quelle discussioni a senso unico che alla fine Michael Herr utilizzò con un montaggio molto pratico per ricordarlo. Ne è uscito un ritratto insolito, libero dai luoghi comuni che circondavano la personalità di Stanley Kubrick. Per esempio, Michael Herr ricorda che “amava lo show business, l’industria, il movimento che osservava giorno e notte dal suo ponte di comando; tutti quegli attori e registi, tutti quei progetti, tutta la muta energia che circolava incessantemente negli studios e la campagna mediatica che faceva seguito a ogni nuovo prodotto; adorava essere una parte di tutto questo restando nella sua straordinaria posizione defilata, e come giocatore non si considerava migliore o peggiore, più in alto o più in basso di nessun altro, erano in gioco tutti insieme, e giocavano per il mercato e per l’arte, un’arte enorme e costosa con opere concepite per il botteghino o, come mi è capitato a volte di pensare nel suo caso, film d’autore con aspettative da blockbuster”. Ma gli usi e i costumi del cinema erano solo una parte di una visione, persino gli attori, “erano essenzialmente immagini, come le donne bionde per Alfred Hitchcock”, da collocare in un quadro d’insieme che non era solo la gestazione di un film. Secondo Michael Herr, Stanley Kubrick “conosceva la tecnica bene come chiunque altro al mondo, meglio di molti veri artigiani, ma gli interessava padroneggiarla perché serviva ai suoi scopi, nello stesso modo in cui gli scrittori cercano di imparare la loro lingua in qualche maniera che la renda per loro funzionale, e anche più che funzionale”. Un punto di vista che merita di essere scoperto e riscoperto, magari insieme a una rilettura di Dispacci.