martedì 5 maggio 2020

Michael Herr

Per Michael Herr, la collaborazione con Stanley Kubrick è diventata un’amicizia fatta di lunghissime conversazioni telefoniche, che costituiscono la materia prima di questo libro. Gli argomenti delle chiacchierate spaziano dalla letteratura ai ruoli degli attori fino alla definizione degli impegni cinematografici. Il dialogo è costante e serrato, ma in realtà Michael Herr è più che altro un ascoltatore. Ricorda che tutto è cominciato quando Stanley Kubrick “stava pensando di fare un film di guerra, in quel periodo, ma non sapeva su quale guerra, e in effetti, adesso che ne parlava, non era nemmeno così sicuro di voler fare un film di guerra”. Ma, dopo aver lavorato ad Apocalypse Now, Michael Herr aveva concluso che “il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali”. Per essere più preciso: “Quanto ai miei sogni, quelli che persi laggiù si sarebbero fatti strada più tardi, avrei dovuto saperlo, certe cose, è naturale, si limitano a seguirti finché non hanno attecchito. Sarebbe giunta la notte in cui sarebbero stati vividi e persistenti, la notte d’inizio di una lunga catena, allora avrei ricordato e mi sarei svegliato con il dubbio di non essere mai stato per davvero in nessuno di quei luoghi”. Lo riteneva un capitolo chiuso, ma Stanley Kubrick lo coinvolse nella realizzazione di Full Metal Jacket e da lì pensava di aver trovato l’ennesimo complice nell’inseguire le sue visioni. In effetti, gli propose di collaborare a “un lavaggio e un risciaquo” della sceneggiatura di Eyes Wide Shut, ma Michael Herr sapeva bene che la dedizione del regista era estrema e incondizionata e non voleva ricascarci, anche perché “l’isolamento di un artista non ha niente a che vedere con le circostante concrete, in ogni caso, con il fatto che svolga il suo lavoro in maniera più o meno esposta agli sguardi altrui. È invece una questione di ritmo, di intuizione, di sperimentazione, e di quel particolare genere di silenzio a cui non si giunge più tanto facilmente di questi tempi, e a cui non si giunge affatto se non si lotta per averlo”. Però restava un legame costruito su quelle discussioni a senso unico che alla fine Michael Herr utilizzò con un montaggio molto pratico per ricordarlo. Ne è uscito un ritratto insolito, libero dai luoghi comuni che circondavano la personalità di Stanley Kubrick. Per esempio, Michael Herr ricorda che “amava lo show business, l’industria, il movimento che osservava giorno e notte dal suo ponte di comando; tutti quegli attori e registi, tutti quei progetti, tutta la muta energia che circolava incessantemente negli studios e la campagna mediatica che faceva seguito a ogni nuovo prodotto; adorava essere una parte di tutto questo restando nella sua straordinaria posizione defilata, e come giocatore non si considerava migliore o peggiore, più in alto o più in basso di nessun altro, erano in gioco tutti insieme, e giocavano per il mercato e per l’arte, un’arte enorme e costosa con opere concepite per il botteghino o, come mi è capitato a volte di pensare nel suo caso, film d’autore con aspettative da blockbuster”. Ma gli usi e i costumi del cinema erano solo una parte di una visione, persino gli attori, “erano essenzialmente immagini, come le donne bionde per Alfred Hitchcock”, da collocare in un quadro d’insieme che non era solo la gestazione di un film. Secondo Michael Herr, Stanley Kubrick “conosceva la tecnica bene come chiunque altro al mondo, meglio di molti veri artigiani, ma gli interessava padroneggiarla perché serviva ai suoi scopi, nello stesso modo in cui gli scrittori cercano di imparare la loro lingua in qualche maniera che la renda per loro funzionale, e anche più che funzionale”. Un punto di vista che merita di essere scoperto e riscoperto, magari insieme a una rilettura di Dispacci.

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