mercoledì 31 agosto 2022

Joan Didion

Nella settimana successiva all’11 settembre, Joan Didion, viaggiando “in una sorta di coma protettivo” e cercando di rispettare come “una sonnambula un’agenda approntata quando pianificare era ancora possibile”, si trova a San Francisco a leggere in pubblico un saggio su New York, scritto nel 1967. Quando arriva alla parola “mortale”, non riesce a pronunciarla, e non soltanto per l’emozione, ma anche perché avvertiva una separazione netta rispetto alla realtà dell’11 settembre e tutto ciò che ne è seguito. La trasformazione è stata più acuta e più profonda e Joan Didion, da quella grande osservatrice che è stata, ha saputo accorgersene subito: “Scoprii che l’accaduto veniva rielaborato, oscurato, sistematicamente epurato di storia e perciò di significato, infine reso meno leggibile di quanto fosse sembrato la mattina in cui era avvenuto. Come se, da un giorno all’altro, l’evento insanabile fosse stato resto gestibile, ridotto al sentimentale, a talismani protettivi, totem, ghirlande d’aglio, pietismi ripetuti che alla fine sarebbero risultati altrettanto distruttivi dell’evento stesso”. Di fronte a questo processo di rimozione dell’analisi storica, in primis, e poi di ogni possibile visione alternativa, Joan Didion ha sviluppato in questi appunti “un dialogo in viaggio straordinariamente aperto, un incontro con un’America in apparenza immune alla saggezza convenzionale”. Dentro un dibattito pubblico ormai assoggettato alla nuova ridefinizione di un’identità, di un tempo e del futuro che doveva essere già scritto, matura la consapevolezza che “nel bene e nel male, c’era una teoria, o un’idea fissa”. La percezione di Joan Didion era giusta allora, e lo rimane ancora di più oggi. La “ripetizione compulsiva” della parola “eroe”, per esempio, “sarebbe diventata una consolidata tendenza a ignorare il significato dell’evento in favore di una celebrazione impenetrabile e livellante delle sue vittime, e di una fastidiosa e aggressiva idealizzazione dell’ignoranza storica”. È soltanto una delle tante parole d’ordine che compongono le idee fisse che hanno soggiogato l’America (e il mondo intero) come diretta e immediata conseguenza dell’11 settembre. Un concentrato di luoghi comuni utili soprattutto a rimuovere non solo ogni forma di dissenso, ma anche qualsiasi ipotesi di confronto rispetto alle versioni ufficiali e alla propaganda. Scrive infatti Joan Didion: “In questo paese siamo arrivati a tollerare molte opinioni fisse del genere, o devozioni nazionali, ciascuna con le proprie paratie di invettive e controinvettive, di eufemismi e affermazioni del tutto false, ciascuna con uno schermo pronto a scattare ogni volta che una discussione seria minaccia di comparire”. L’effetto immediato è stato che in nome della sicurezza e della cosiddetta “unità nazionale”, venivano spinte in avanti altre priorità governative, ovvero “il bisogno di ulteriori tagli alle tasse, la necessità di trivellare l’Artico, l’eliminazione sistematica di protezioni normative e sindacali, perfino i finanziamenti allo scudo missilistico”. Il riferimento alle spese militari non è casuale, dato che a Joan Didion non sfugge il fatto che “abbiamo visto, soprattutto, l’uso incessante dell’11 settembre per giustificare il ruolo dell’America nel mondo, che veniva rimodellato in modo da diventare quello di chi innesca e sovvenziona quella che praticamente è una guerra perpetua”. Ben presto, le propaggini di quelle idee fisse (e spesso senza alcun fondamento) hanno dato forma alle brutali aberrazioni della realtà, a partire dalla disastrosa invasione dell’Iraq. Di fronte a tali capovolgimenti storici, la constatazione di Joan Didion, che resta lucidissima anche in mezzo al caos, non è nemmeno di schierarsi, o di criticare, ma almeno di considerare “lo spettro delle possibilità di contraddizione”. Sarebbe il minimo.

martedì 30 agosto 2022

Hernan Diaz

In una scena di Margin Call, un film del 2011, l’onnipotente John Tuld, interpretato da Jeremy Irons, ben appostato al ristorante in cima al palazzo, elenca le crisi finanziarie che hanno distinto il mercato azionario americano (e mondiale) e la lista comprende, come non potrebbe essere diversamente, anche il tracollo del 1929. Tra le apocalissi del capitalismo è quella che forse ha tracciato un modello di riferimento ed è l’ossessione di Andrew Bevel, e della moglie Helen, le figure centrali di Trust che vengono riscritte e rilette secondo una costruzione della realtà doppia e tripla e seguendo il principio per cui “il futuro irrompe in ogni momento, vuole rendersi attuale in ogni nostra decisione, cerca, per quanto possibile, di diventare passato. Questo è ciò che distingue il futuro dalla semplice fantasia. Il futuro accade”. È il motivo per cui Trust contiene un libro dentro l’altro: un gioco a incastri, farcito di chiavi di lettura che distinguendosi, si sommano. Il paradosso è funzionale alla costruzione del romanzo, anche se i trucchi vengono a galla e si notano, perché il limite congenito di Trust è evidente. Viene spiegato tutto e il tono, nonostante l’architettura, intrigante resta monocorde. O, meglio, ogni passaggio è costruito, fin troppo, senza una singola scintilla. Senza dubbio, Hernan Diaz ha una sua proprietà nella scrittura, costruisce un tassello dopo l’altro e riesce a dare forma a una struttura narrativa che contempla almeno quattro livelli di lettura: la storia della vita di Andrew Bevel secondo la sua stessa visione, quella apocrifa scritta da Harold Vanner, il punto di vista di Ida Partenza e quello della moglie Mildred. L’ordine è relativo, Trust resta impegnativo comunque lo si giri: fino a metà romanzo non c’è un dialogo che sia uno, e dove cominciano ad apparire sono riportati, e quindi di seconda mano. C’è una logica in questo, perché è assolutamente vero che “l’autorità e il denaro si circondano di silenzio, ed è possibile misurare la portata dell’ascendente di qualcuno dalla densità dell’assenza di suoni che lo avvolge”, ma lo stile rimane ancorato a frasi brevi, meccaniche, funzionali esclusivamente al ritmo e ai cambi di prospettiva. Solo la parte dedicata a Ida Pazienza (con il racconto della prova per diventare impiegata di Bevel come apice) e agli anarchici (almeno qualcuno si ricorda di loro) è un po’ più vitale, anche se l’atmosfera resta piuttosto fredda. Per esempio, viene nominato, en passant, il caso Sacco e Vanzetti, ma si perde nel contesto di altre mille associazioni. Del resto Trust è pervaso da un certo moralismo, come se non conoscessimo il rischio di una scommessa economica, sintetizzata nella battuta che “c’è un mondo migliore ma costa di più”. L’aspetto finanziario resta comunque una premessa fondante, l’ossessione per la crisi del 1929 e le sue conseguenze, uno degli apici del capitalismo (così come tutte quelle che sono seguite), sottintende un aspetto che va oltre la dimensione del mercato, quasi una ricerca (almeno per chi ci crede) di “una forma impersonale di bellezza”. Nell’ambizione di Trust la sfida non è solo quella: sapendo che “le aspettative e le richieste del lettore esistevano proprio per essere intenzionalmente confuse e sovvertite”, Hernan Diaz non nasconde i suoi intenti e lo schema è ben congegnato nel provare a spiazzare e a disorientare e a stupire, ma si rivela abbastanza prevedibile (sì, c’è  anche la sorpresa finale), senza particolari emozioni e nessuna novità di rilievo. Tra l’altro, in quella che dovrebbe essere una sequenza fondamentale, Andrew Bevel arriva a identificare la musica come interpretazione matematica (e magica) dei flussi monetari, ma questo lo diceva anche John Tuld in Margin Call.

mercoledì 24 agosto 2022

Aaron Klopstein

Succede tutto nel Lower East Side dove ebrei, italiani, sudamericani popolano una realtà cosmopolita che brulica di attività lecite e (più spesso) non, di vita e di miseria. È fondamentale inquadrare il luogo dove approda Louis Berenstein, un outsider che si trascina da un passato complesso ed è avvolto in una nebbia etilica, anche quando capisce che “in quel posto tutti parevano avere una gran voglia di intavolare una conversazione. Eppure, gli avevano assicurato che a New York era possibile scomparire, rendersi invisibili”. Per lui è una sorta di limbo perché se è vero, come è vero, che “il denaro fa diventare americani”, i perdenti, avendosi giocato le proprie radici, si ritrovano lì apolidi ed emarginati, Louis Berenstein per primo: deve nascondere un’esistenza di fallimenti e l’oscurità pare l’ultimo (e l’unico) rifugio possibile, ma negli androni e nei corridoi dei palazzi “sembra che tutti qui abbiano bisogno di compagnia e tutti cerchino qualcuno”. Così incrocia artisti e funamboli, una trapezista e un lanciatore di coltelli, femme fatale di passaggio, derelitti e cuori infranti. Sono incontri fugaci, che durano lo spazio di una sigaretta o del un fondo di una bottiglia (“Non c’è niente di più intimo dell’alcol e della disperazione”) e si consumano tra rimpianti e rimorsi (“Noi non siamo mai alla pari con i nostri buoni propositi”). Il peso della sconfitta che si avverte in “tutti quegli individui, quei personaggi senza senso che stava incontrando adesso, forse non esistevano nemmeno” è soltanto il primo livello che deve affrontare Louis Berenstein. In uno dei tanti dialoghi, abilmente punteggiati da Aaron Klopstein, confessa: “Credo che il problema sia più ampio e riguardi proprio me e le visioni, sa? Faccio già fatica con la realtà”. Dentro un ambiente circoscritto e claustrofobico, le strane processioni di individui che ruotano attorno al passaggio obbligato (e simbolico) di un ascensore, assumono via via forme più evanescenti, lasciando trasparire tutta la fragilità umana. Come se fossero invisibili, gli animali notturni di Aaron Klopstein sono figure molto particolari e inafferrabili, persino per lo stesso Louis Berenstein: “Li sognava tutti quanti come spiriti. Si ritrovava sempre a inseguirli da qualche parte e c’erano ogni volta fenicotteri fosforescenti che lo fermavano. Quei personaggi erano come macchie sfuggenti che la realtà onirica del sogno gli impediva di afferrare”. Per Aaron Klopstein  “l’albergo dell’immaginazione” ospita disperati di ogni genere, ma è determinante l’atmosfera delle luci e delle ombre, della “malinconia” e della solitudine, come in quadro di Edward Hopper, proiettata in una dimensione che contiene un paradiso e un inferno, che, il più delle volte, si ritrovano nello stesso microcosmo, mentre il via vai di incontri e riflessi in chiaroscuro tende nello stesso tempo a ipnotizzare e a disorientare tanto Louis Berenstein, così come il lettore. Diceva Aaron Klopstein che “scrivere non è che l’ultimo atto del processo creativo di uno scrittore, nonché il meno importante” e le immagini che si sviluppano prima di diventare parole si moltiplicano in forme fluttuanti perché, lì nel Lower East Side, restano “sogni rimasti nascosti per troppo tempo, sogni che si erano perduti, smarriti seguendo lontani richiami, tamburi di guerra, il dio Marte delle illusioni”. Nel fitto addensarsi delle suggestioni pennellate da Aaron Klopstein, prende forma una certezza, ovvero che “la vita è come un romanzo, in fondo. Una mescolanza di frottole e realtà”, e va bene anche così, all’insegna di una purissima tradizione americana di belli e dannati delle ore piccole che da Scott Fitzgerald a Tom Waits non conosce soluzione di continuità.

martedì 9 agosto 2022

James L. Dickerson

Nell’intricata relazione tra Elvis e il colonnello Parker, spunta, alla fine e all’improvviso, un terzo incomodo, Blanchard Tual che, secondo James L. Dickerson, era “uno sconosciuto avvocato di Memphis troppo coraggioso o troppo stupido per comprendere l’enormità delle sue azioni”. Questo perché attorno al re del rock’n’roll e al suo enigmatico manager si sono avviluppati interessi enormi all’interno di una rete di connessioni che comprendeva l’industria discografica, Hollywood e la criminalità organizzata, fino alla presidenza degli Stati Uniti, è non è facile capire cosa e chi era peggio. Ecco, forse la storia di Elvis e il colonnello andrebbe letta un po’ a ritroso, partendo proprio dal lavoro che fece Blanchard Tual per dipanare quella matassa e tutelare l’eredità. La costruzione di un impero, in sé enorme e fragile, comincia nella preistoria dello show business, quando il colonnello Parker attraversava l’America da una fiera all’altra con variopinti cast di “nani, donne barbute, contorsionisti, trapezisti, tiratori esperti, lanciatori di coltelli, esibizioni di animali come gorilla, serpenti e leoni, e giochi di prestigio di ogni tipo. Chiunque proponesse un numero poteva fare della fiera casa sua. L’importante era che fosse strano, per un verso o per l’altro, o che si basasse su un qualche imbroglio, impossibile da indovinare”. I misteri sulla sua identità non gli impedirono di passare da quelle carovane a gestire le carriere di artisti come Eddy Arnold e Hank Snow, prima di arrivare alla liaison con “il cantante nucleare”, ovvero Elvis in persona. Con lui, il ruolo del manager ossessivo e avido, ma anche molto abile, divenne un cliché con tutti gli intrighi, le macchinazioni, le stratificazioni dei contratti e dei compensi, i retroscena e gli accordi che, con il passare del tempo, trasformarono Elvis in un prigioniero del rock’n’roll, fino alla sua decadenza. Senza dubbio il colonnello Parker era “un genio della manipolazione”, ma James L. Dickerson con uno stile molto lineare, quasi fosse un romanzo, riesce a illustrare molto bene le principali direttive che influenzarono il legame tra Elvis e il colonnello. Una componente determinante è l’intreccio tra politica, spettacolo, e le parti più oscure dell’America, dalle società segrete che lottavano contro l’integrazione alle correnti mafiose da New Orleans fino al capolinea di Las Vegas. Tutto documentato dall’imponente dossier che l’FBI ha dedicato a Elvis e a cui James L. Dickerson ha attinto in abbondanza per la sua ricostruzione: non c’è tutto, perché tra tentativi di truffa (compreso quello, criptico e contorto, relativo all’acquisto di uno dei tanti jet privati), minacce di morte, citazioni, accuse e ritorsioni servirebbe un’enciclopedia, ma il riassunto è efficace e scorrevole. È anche un ritratto dell’America nella seconda metà del ventesimo secolo con tutte le tensioni e le effervescenze, con Elvis tra Johnny Cash e i Beatles, forse incastrato dalla sua ingenuità più che dalla natura ambigua del colonnello Parker che “fece un lavoro magistrale enfatizzando le paure”. Da imbonitore e venditore, ha saputo creare attorno a Elvis quell’aura che gli ha permesso di piazzarlo in dozzine di film insulsi così come di spremerlo da Memphis fino alle Hawaii all’infinito, accumulando e sperperando interi patrimoni. In effetti, il cinismo negli affari ha dato i suoi frutti, compresi quelli più amari. In molti gli hanno rimproverato di aver sottovalutato (o volutamente ignorato) i problemi di dipendenza di Elvis e di non avergli concesso respiro dal punto di vista artistico, tutto abbondantemente descritto da James L. Dickerson fino alla sua morte e alle controversie legali ed economiche che, ben lontane dai lustri e dalle paillettes, svelarono l’amara realtà dei rapporti con il colonnello Parker. Senza alcun giudizio morale, perché resta una figura insondabile, il cui destino, come in una grande e corale tragedia americana, è stato segnato dall’apparizione di un personaggio del tutto secondario. I fantasmi diventato miti, i sopravvissuti dettano legge: oggi, Blanchard Tual è socio in uno studio legale che, manco a dirlo, si occupa di gestire patrimoni.