L’abbondanza della poesia di Robert Frost nasce da una continua serie di contrasti che trovano una loro sorprendente armonica. Si tratta proprio di Fuoco e ghiaccio: “C’è chi dice che il mondo finirà con fuoco e chi col ghiaccio. Per ciò che ho assaporato io del desiderio sto con chi tiene per il fuoco. Ma dovesse perire per due volte so di saper dell’odio a sufficienza da dire che a distruggere anche il ghiaccio va bene e basterebbe”. Una contrapposizione che si avvale di un’architettura fluttuante: il soggetto enigmatico e indefinito, il suono delle parole che diventano immagini e da lì sequenze ritmiche rilevanti come se effettivamente la poesia fosse un battito del cuore che “oscura la mente”, una sorta di estasi che cresce di verso in verso nella coabitazione con la pioggia, le stelle (dove non vive la razza umana), il vento, pascoli e foreste, notti invernali, attese e crepuscoli, sorrisi e sogni. Trovare un paio di leitmotiv attorno ai quali ruota tutta questa monumentale e bellissima antologia di Robert Frost non è difficile. Il bosco è il luogo prediletto, come se fosse un santuario laico e prodigioso. Lo dice senza esitazioni in Riluttanza: “In giro per i campi e per i boschi e oltre le mura sono andato; ho salito i colli con vista, guardato il mondo, e son disceso; sono tornato per la via maestra ed ecco, è finita”. Lo ripete in Sosta vicino a un bosco in una sera di neve con alcuni dei suoi versi più famosi e citati: “Buio e profondo è il bosco, bello da morire, ma io ho promesse da mantenere e miglia da fare prima di dormire e miglia da fare prima di dormire”. Sono gli alberi che “danno da pensare” e la poesia di Robert Frost è una specie di fotosintesi clorofilliana del linguaggio: uno strato è evidente, semplice, lineare, come la chioma di un ciliegio scossa dalla brezza. Nella sua formazione è invece una continua sfida che va verso l’alto, il basso, il buio e la luce, comunque in cerca di un confronto, di una differenza e, nello stesso tempo, di un nesso. Quale magia sottintende la poesia di Robert Frost va cercato tra “gli interstizi delle cose socchiuse” dove il visibile diventa invisibile, e viceversa, grazie a una selva di parole che si mostrano, si nascondono, fioriscono in continuazione. Come scrive in Il monte: “L’acqua secondo me non cambia mica. Lo sappiamo, noi due, che è calda a confronto col freddo e fredda a confronto col caldo. Ma il bello sta nel modo in cui lo dici”. Se gli alberi delimitano in qualche modo il campo e lo circoscrivono nelle pieghe rurali, lungo “il solco intravisto nell’erba”, come suggerisce in Il casolare nero, è protagonista il movimento, nei versi altrettanto rinomati di La strada non presa (“Due strade divergevano in un bosco e io, io ho preso quella meno battuta e questo ha fatto tutta la differenza”) e in quelli di La catasta di legna: “La vista, linee d’alberi sottili, troppo simili per marcare o dare nome a un posto e dir per certo che ero qui o altrove: ero solo lontano da casa”. È un tragitto singolare, senza tregua, celebrato in Betulle: “Non vorrei che il destino fraintendendomi esaudisca a metà il desiderio e mi strappi via per sempre. La terra è il posto giusto per amare: non so dove sarebbe meglio andare”. La destinazione, pur essendo limitata, contiene tutti gli elementi di un’infinita dicotomia che Robert Frost prova a ricomporre ogni volta, accettandola per gradi: prima considerando che è “quasi meglio la sconfitta, vista per quel che è, delle vittorie del dubbio nella vita con tutto il chiacchiericcio che occorre per capirle” (Una minaccia a vuoto) e poi precisando, in via definitiva, che “amiamo quel che amiamo per ciò che è” (Il rio Hyla). Questo è quanto, poi nell’intervallo tra Fuoco e ghiaccio rimane l’accorato appello in Due vagabondi nella stagione del fango: “Ma si arrenda chi vuole alla scissione, io vivo per unire passione e vocazione come i due occhi che si fondono in una vista unica. Soltanto se amore e bisogno sono tutt’uno e il lavoro mette in gioco l’esistenza si sarà fatto quello che va fatto al cospetto del cielo e del futuro”. È quasi una conclusione filosofica che si adegua alla differenza percepita da Robert Frost tra poesia e politica, ovvero tra sentimento e risentimento, che dovrebbe essere insegnata a scuola, fin dalla prima infanzia.
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