La teoria di fondo, ovvero che ognuno di noi è un po’ artista è mutuata direttamente da Andy Warhol: Rick Rubin ne sposa la filosofia e cerca di tradurla espandendo il concetto in tutte le direzioni, partendo dall’idea che “non c’è niente in arte che tutti non siano in grado di capire”. È la tesi che costituisce la spina dorsale divulgativa dove L’atto creativo, secondo Rick Rubin, trova il terreno per attecchire. Lo sviluppo implica un senso di responsabilità condiviso, che viene declamato subito, a scanso di equivoci: “Come artisti, puntiamo a vivere in modo da vedere lo straordinario che si cela anche nelle cose apparentemente più ordinarie. Poi sfidiamo noi stessi a condividere ciò che vediamo, così da permettere anche ad altri di cogliere un barlume di questa straordinaria bellezza”. Il tono è californiano, mistico e realistico, entusiasta e funzionale nello stesso tempo: le suggestioni riguardano i rapporti del genio con la natura e l’infanzia, il metodo (“La disciplina non è una mancanza di libertà; è una relazione armoniosa con il tempo”) e le sconfitte (“Il fallimento è l’informazione che ti serve per raggiungere il luogo dove sei diretto”), l’estasi e il contesto, le speranze e le implicazioni, i limiti e le possibilità e sono comprensive anche di una discreta moltitudine di luoghi comuni (“L’arte è una circolazione di idee fatte di energia”). Se è per quello, alla generosa prolusione di Rick Rubin è utile fare un po’ la tara: considerandola come una chiacchierata (colta, stravagante, leggera) sul senso dell’arte riesce persino a essere utile e forse è quello l’unico vero obiettivo, per quanto non dichiarato. È un dialogo a tu per tu con il lettore e con il prossimo, potenziale artista: le variabili sono innumerevoli e Rick Rubin cerca di ridurre il potenziale rapporto verso L’atto creativo con una serie di impressioni (lo schema è unico e ribadito ogni volta) probabilmente per semplificare o perché Rick Rubin è un produttore discografico, un ruolo defilato rispetto all’artista vero e proprio, e non uno scrittore, per cui ha comunque l’urgenza di farsi capire. La forma e lo stile risultano quindi piuttosto stringenti, colloquiali, visto che L’atto creativo secondo Rick Rubin è qualcosa di molto libero, che, più di tutto, appartiene in via esclusiva alla sfera individuale. In questa direzione, la formulazione di Rick Rubin è costante e, avviso importante agli addetti ai lavori, non contiene proprio suggerimenti pratici nello specifico, come impostare un session di incisione o come affrontare un contratto. Di più, curiosamente, Rick Rubin non cita tra gli artisti che utilizza come esempio quelli con cui ha lavorato (salvo un breve passaggio per Eminem) sarà per un eccesso di discrezione o per non sviare l’attenzione. Offre invece un vasta gamma di indicazioni generali e particolari sul senso dell’arte e dell’essere artista che riflettono nel complesso l’essenza che L’atto creativo esprime. Le variazioni sul tema toccano un po’ tutta la sfera della percezione, dell’ispirazione, del talento e della sua applicazione. Si tratta di “un modo di percepire. Un esercizio di attenzione. Praticato affinando la nostra sensibilità per riuscire a captare anche le note più sottili. Cercando di capire che cosa ci attrae e che cosa ci respinge. Notando quali sfumature di emozioni sorgono, e dove ci portano”. Alla fine i voli pindarici di Rick Rubin costituiscono una specie di breviario della creatività e va preso per quello che è: se non altro ha il dono del garbo e della spontaneità verso il lettore, senza particolari ambizioni e nessuna pretenziosità perché “la vera opera dell’artista è un modo di essere nel mondo”. Andy Warhol sarebbe d’accordo.
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