mercoledì 28 dicembre 2016

Amanda Petrusich

Più che la storia di un disco, ovvero Pink Moon, è quella di un artista, di un ragazzo fragile e confuso, e malato, che si ritrovò a confrontarsi con i meccanismi tutt’altro che gentili e comprensivi del processo di creazione, e poi di commercializzazione della musica. I suoi dischi vendettero qualche migliaio di copie (oggi potrebbero bastare, allora erano del tutto risibili) ed ebbero una risonanza critica relativa, e non sempre entusiasta, per usare un eufemismo. “La sua storia è nelle canzoni. Più passa il tempo più sembrano parlarci di lui, e di nessun altro” ha detto Joe Boyd, il produttore, e con ogni probabilità la persona che è stata più vicina a Nick Drake e Amanda Petrusich ha cercato di condividere la passione per quella mezz’ora di musica, acustica, scheletrica (molto bella la ricostruzione del suo primo “incontro”) con altrettanti fans tra cui Lou Barlow (Dinosaur Jr., Sebadoh), Damien Jurado, Curt Kirkwood (Meat Puppets) Duncan Sheik, Robyn Hitchcock, ed è sua la migliore definizione: “Pink Moon è una lezione di umiltà”. La bellezza resta indefinibile, anche perché non fu del tutto compresa quando quel disco uscì, nel 1972. Qualche risposta in più su Nick Drake cresce pagina dopo pagina: la sua vita e la sua morte rimangono un mistero incompiuto, se si cercano risposte oltre le patologie, ma la sua riscoperta è ormai universale, soprattutto grazie a Milky Way, un raffinato spot della Wolkswagen che usava proprio Pink Moon, come colonna sonora, senza alcun commento aggiuntivo. Serve ancora una delucidazione di Joe Boyd che in Le biciclette bianche ricordava così quel preciso momento: “Quando la pubblicità della Wolkswagen arrivò sulle televisioni americane, esisteva già il culto di Nick Drake, di dischi se ne vendevano decine di migliaia all’anno e quello di Nick era, per i giovani cantanti, un bel nome da dire quando gli si chiedeva di citare le loro influenze. La musica di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi al pubblico quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di farne la propria”. E’ successo esattamente così ed è dove l’analisi di Amanda Petrusich comincia davvero perché, prendendosi l’onere di intervistare gli addetti ai lavori (dai copywriter ai registi), è andata a scandagliare, e fino in fondo, l’ambiguo rapporto tra musica e pubblicità. L’originalità della suo saggio su Pink Moon sta proprio lì ed è ben rappresentato nella definizione della musicologa Bethany Klein che Amanda Petrusich cita in modo assai opportuno: “Credo che la musica pop, intesa come arte, sia un fenomeno molto più complicato. Secondo un mito difficile da sfatare, per arte e musica il fine primario è quello estetico, ma ciò ovviamente non è sempre vero. Tuttavia, anche se finiamo per accettare l’idea che la musica pop sia essenzialmente un prodotto commerciale, essa ci fornisce, sia come individui che come società, qualcosa che gli altri prodotti commerciali non ci forniscono: un veicolo attraverso il quale esplorare emozioni, identità, significati”. Un ottimo lavoro, proprio perché riesce a riannodare Nick Drake all’attualità, senza scadere nell’agiografia, e andando a raccontare l’evoluzione di molte idiosincrasie, in particolare proprio quella che oppone il valore dell’integrità della musica al suo utilizzo nella pubblicità. Non funziona, ma quando funziona, è grande.

martedì 27 dicembre 2016

Tom Wolfe

Partendo dall’idea che il linguaggio è “una linea di demarcazione netta”, Tom Wolfe si diverte a incrinare le teorie conclamate di Charles Darwin e Noam Chomsky. Non si accontenta, non si adegua e non teme né abiure né faide: a lui interessa “non tanto cosa il linguaggio può fare, quanto piuttosto che cos’è”. Il regno della parola è fondato su questa distinzione e sia nei confronti dell’ipotesi evolutiva quanto per quella genetica, Tom Wolfe dispensa un’analisi ironica e avvincente. La ricostruzione degli albori della teoria evolutiva, che ne mette in risalto i limiti, e l’ambiente in cui è maturata, è a metà strada tra un thriller e una commedia, a tratti spassosa. Il rocambolesco susseguirsi di eventi e aneddoti che vedono Charles Darwin protagonista di una svolta per l’intera civiltà umana, viene buttato da Tom Wolfe con gran allegria butta per in aria per vedere poi come viene giù: “Nel 1837, Darwin era caduto senza accorgersene nella trappola del cosmogonismo, l’ossessione di trovare la sempre sfuggente teoria del tutto: un’idea o una narrazione in grado di spiegare come ogni cosa al mondo rientri in uno schema unico e chiaro”. Non essendoci spiegazioni condivisibili, concrete e indiscutibili sulle origini e sulle funzionalità del linguaggio, Tom Wolfe se la gode, ed è evidente, a smontare le strutture portanti delle ricerche di Darwin: “Come ogni cosmogonia, era un racconto serio e onesto che mirava a soddisfare l’insaziabile curiosità dell’uomo sulle proprie origini, su come era giunto a essere così diverso dagli animali intorno a lui. Ma restava un racconto. Non era una dimostrazione. In poche parole, era sincera ma semplice letteratura”. La sentenza di Tom Wolfe è inappellabile: “Sull’origine del linguaggio, anche Darwin, come tutti, brancolava nel buio”. A Noam Chomsky concede qualche vantaggio in più, ma non è meno inconoclasta. Avendo individuato “l’organo del linguaggio”, ovvero e in estrema sintesi, considerandolo innato, Noam Chomsky, “stava dando ai linguisti anche l’aria condizionata”. Una battuta che lo stesso Tom Wolfe spiega così: “Aveva fornito loro un sistema completo: struttura, anatomia e fisiologia del linguaggio. Rimaneva però lo sconcertante problema di capire cosa fosse il linguaggio: la creazione delle parole, i suoni specifici e come venivano messi insieme, la meccanica del più grande potere noto all’uomo”. Anni e anni di studi, centinaia di libri, dozzine di università impegnate a tempo pieno e Il regno della parola è ancora lì: esiste, eccome, ma è indefinito nella sua essenza ultima. Succede poi che Daniel Everett, già allievo e collega di Chosky, scopre una piccola e singolare tribù amazzonica, vive con loro e giunge alla conclusione che il linguaggio non è innato o, come riassume Tom Wolfe, “non si era evoluto da un bel niente: era un’opera umana, un artefatto. L’uomo, proprio come aveva selezionato i materiali naturali, il legno, i metalli, e li aveva messi insieme per costruire una scure, aveva preso i suoni naturali e li aveva combinati in codici che rappresentavano oggetti, azioni e, in ultima istanza, pensieri e calcoli, chiamando quei codici parole”. L’inevitabile, lunga diatriba tra Daniel Everett e Noam Chomsky, non dissimile (anzi, speculare) a quelle maturate attorno a Charles Darwin, si concluderà con l’ammissione da parte di un team guidato proprio dallo stesso Chomsky che “l’evoluzione della facoltà del linguaggio rimane in gran parte un enigma”. Fin troppo facile per Tom Wolfe mettere a nudo la pretenziosità delle contese scientifiche e accademiche, ma in fondo lo fa con un ghigno sornione perché sa che si tratta di astrazioni, in gran parte dimostrabili e accettate, ma che alla fonte poggiano sempre su “un’idea blasfema, mortalmente peccaminosa eppure eccitante, odorosa di fama e di rilucente di gloria”. Solo che a quel punto Il regno della parola ormai ha già pronti i fuochi d’artificio: “Era grandioso, ancorché in senso fallimentare, questo sfoggio universale, definitivo, assoluto e pluridecennale d’ignoranza riguardo la dote più importante dell’uomo”. L’ingorgo di aggettivi rende bene lo spirito di Tom Wolfe, che poi conclude in fretta, non solo sposando il concetto secondo Andy Clark per cui il linguaggio resta un “artefatto fondamentale”, ma da lì estrapolando persino una sua definizione: “E’ stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente, l’uomo, ha preso elementi della natura, i suoni, e li ha trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale: sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole. Non solo il linguaggio è un artefatto, ma è il primo artefatto”. La conclusione è lapidaria, non dovendo dimostrare nulla né all’accademia né ad altri, ma cade ancora lì, nel campo delle probabilità, dove Tom Wolfe ha fatto sbattere sia Darwin che Chomsky. La provocazione in sé, limpida, dettagliata e puntuale, era più che sufficiente.

sabato 24 dicembre 2016

Jim Harrison

L’espressione dei personaggi è il cuore delle storie di Jim Harrison e Vento di passioni, per via della metamorfosi in film di Leggende d’autunno (che resta il titolo originale della raccolta, poi modificato per ovvi motivi), è diventato il suo libro più fortunato, ma resta anche uno dei più espliciti e rappresentativi nel mostrare l’aderenza agli sviluppi delle sue creature. Nei racconti Jim Harrison è proprio uno storyteller nudo e crudo: lascia quel minimo indispensabile di spazio ai dialoghi (più che altro in Vendetta) e va a collegare le narrazioni con una voce diretta, come se fosse il commento a “una sorta di déjà vu permanente”. Una modalità che non chiede alter ego, intermediari o altri escamotage: Jim Harrison si limita ad allineare “i fatti puri e semplici, un concetto che usiamo volentieri quando cerchiamo di sfuggire alle paludi, in cui più o meno s’invischiano le nostre esistenze” e il lettore, più che affrontare le pagine, deve ascoltarle. Leggende d’autunno è un racconto che sfoggia una delle specialità ricorrenti nei menù di Jim Harrison, la saga familiare. Nello svolgere l’albero genealogico dei Ludlow, che occupa più di un secolo, serpeggia l’elemento della vendetta, e anche se “in fin dei conti la gente non ama farsi troppe domande, soprattutto quelle spinose che riguardano l’evidente assenza di un sistema equo di ricompense e di punizioni sulla terra”, per il protagonista, Tristan è un desiderio sufficiente e rivelatore. Leggende d’autunno ha la forma spudorata del soggetto cinematografico, senza un dialogo che sia uno, eppure in grado avvinghiare il lettore alla pagina, come l’anaconda comprata da Tristan si è attorcigliata all’albero maestro della sua nave e a cui hanno dovuto offrire un maialino per farla scendere, e questo aneddoto è Jim Harrison al cubo. A riprova che “uno stato di grazia non è mai solo” anche il secondo capitolo di Vento di passioni trova uno tra i più memorabili dei suoi personaggi tormentati dal passato, circondati e definiti dalle rispettive figure femminili, sempre sul confine tra un cambiamento e l’altro. Una situazione delicata e volubile perché, come direbbe Nordstrom alias L’uomo che rinunciò al suo nome, “la cosa più frustrante per un uomo che desidera cambiare la propria vita è l’improbabilità stessa del cambiamento”. Nordstrom che, in un’ideale galleria antologica dei suoi protagonisti, occuperebbe di sicuro una posizione centrale, balla da solo ascoltando i Dead e Otis Redding, è “un amante abbastanza esperto da preferire l’atto alla sua conclusione”, si divide tra la moglie (ormai ex) e la figlia, affrontando i resti spaventosi del mondo con un aplomb tutto suo, cucinando, stappando costose bottiglie di vino e pensando, un’attività non così scontata. A concludere l’ideale trilogia di Vento di passioni è Cochran, già pilota di un cacciabombardiere abbattuto nel Laos, che si trova in Messico “quasi divertito della propria circospezione, da quella volontà di sopravvivere a qualsiasi cosa fosse in grado di capire consapevolmente. Al momento non si sentiva nemmeno di rimpiangere il modo in cui aveva sprecato, una dopo l’altra, le varie occasioni che la vita gli aveva offerto. I rimpianti lo annoiavano e la sola energia che gli rimaneva quella notte era concentrata nello sforzo di capire come tutto ciò fosse potuto accadere: un’ambizione meccanica, a dir tanto”. Quello che c’è da sapere è tutto qui e lui, Nordstrom e Tristan sembrano lo stesso personaggio tradotto e sfumato da Jim Harrison in tre interpretazioni. Pur essendo molto differenti, i protagonisti di Vento di passioni si avvicendano su personalità con una notevole definizione, un carattere indomabile e nello stesso tempo portato all’introspezione e in fondo, degni esemplari del fatto che “ognuno desidera una parte di mistero nella propria vita, ma rari sono coloro che fanno qualcosa per meritarlo”. Da riscoprire.

mercoledì 21 dicembre 2016

James Ellroy

Un vortice di personaggi dentro una pozzanghera nera chiamata Los Angeles (l’inizio e la fine di tutto) che poi si allarga verso Chicago, Las Vegas, Miami, un’ombra chesi allunga la storia fosca degli Stati Uniti nei Caraibi dove pare abbiano trovato il cuore di tenebra e la linea d’ombra, insieme di quella che è (in effetti) un’idea distopica dell’America. Pur non essendo un romanzo storico, Il sangue è randagio collima e incastra fatti e cronache e se in quegli anni torbidi il leitmotiv era legato alla consapevolezza, leggendo James Ellroy si capisce che nessuno era consapevole di ciò che sta accadendo. E’ il 1968, la parola chiave è collusione e per favorire prima l’ascesa e poi la conferma di Nixon, prende forma una folle, convinta e ambigua volontà di assemblare piani, trame e operazioni segrete. Uno dopo l’altro, tutti confezionano, conservano, collezionano dossier per proteggersi, per attaccare, per difendersi e con la scusa che “per il dissenso c’è un prezzo da pagare”, li usano per contrastare le proteste contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili. Attorno a quelle attività illegali, prolifera un mondo parallelo, oscuro e spietato che si nutre dell’ipocrisia e della corruzione come elementi principali della miscela di una società predatoria e convinta fino al midollo che il razzismo, non soltanto verso i negri, ma con tutti, possa essere il collante di una nazione. Compresi gli oggetti stessi che sono al centro degli intrighi e delle macchinazioni di Il sangue è randagio: la distribuzione dell’eroina nei ghetti delle metropoli americane, gli interventi a Haiti e nella Repubblica Dominicana sono un parte considerevole dei gironi infernali in cui James Ellroy immerge il lettore, senza possibilità di appello. Una volta partito, Il sangue è randagio è impossibile fermarlo: nel suo vortice immaginifico, e nello stesso tempo ancorato alla realtà (peraltro ormai convalidata da tutte le analisi storiche) le contorsioni del potere, le sue assurdità, le sue maschere prendono le sembianze di spie addestrate al doppio e triplo gioco, infiltrati, informatori, delatori, spacciatori, mercenari, agenti, investigatori, femme fatale. L’elenco dei nomi è infinito e costituisce una sorta di romanzo nel romanzo perché ognuno è “l’anello di congiunzione tra causa ed effetto”, una connessione dove, il più delle volte, il risultato è la morte, ovvero l’omicidio, di qualcun altro. Le moltitudini di personaggi attraversano Il sangue è randagio come una piaga biblica, e cercando “di creare un’adeguata convergenza ed elaborare un’ipotesi credibile”. macinano, sbriciolano, devastano senza concedere nulla, senza correggere gli appetiti. La voracità è insaziabile, cannibale e suicida, ma anche cosciente del suo infausto destino, quando qualcuno ammette che “eravamo innocenti, allora. Adesso tutto il mondo ci odia”. Non è facile tenere testa a James Ellroy perché è animato da una ben strana generosità, nel senso che non risparmia niente, scruta nelle ombre, non cede mai alla tentazione di censurarsi e abbonda con i punti di vista anche se, in definitiva, quello che conta è soltanto uno, il suo. Non spiega, non racconta: trascina dentro un flusso inarrestabile,  tanto è vero che, un po’ per gli additivi, un po’ per i riti voodoo, nell’accellerazione finale Il sangue è randagio si inoltra in una Dimensione onirica, e si trasforma in un gorgo allucinante. E’ la citazione Hellhound On My Trail di Robert Johnson a spiegare che Il sangue è randagio è una corsa letale nella decadenza dove caos e ordine tendono a sovrapporsi, a confondersi, a scambiarsi di ruolo rivelando un ritratto magniloquente del potere, nelle sue manipolazioni delle persone, dei fatti, delle informazioni, della realtà e della storia. Il delirio delle macchinazioni è tale da assumere vita propria e più il turbinio di alcol, droghe, torture, omicidi, furti, fughe, notti insonni si fa minaccioso e più il ritmo diventa via via furioso, il linguaggio scarno e brutale, le frasi spezzate senza pietà. James Ellroy è come i suoi “killer-a-distanza-ravvicinata”. Scotenna il lettore.

lunedì 19 dicembre 2016

Rick Moody

Ci voleva il Nobel a Dylan per ricordarlo urbi et orbi, ma Rick Moody l’aveva già capito con Musica celestiale che “la letteratura, come la musica, vuole apertura, vuole esperienze, vuole presa di coscienza e emozioni, e vuole esprimere tutto questo con accuratezza e con dolcezza”. Una richiesta espressa in modo perfetto, anche quando i temi sono tra i più disparati: in Musica celestiale trovano posto le note scritte per i Wilco, il diario agrodolce di Due settimane al campo musicale, il capitolo dedicato a New York per la Rock’n’Roll High School di Little Steven, ovvero L’underground di New York 1965-1988, gli omaggi ai Pogues e ai Lounge Lizards. Anche se tesa a condividere “visione storica, immaginazione, brama culturale, e passioni e debolezze molto umane”, la dimensione è colloquiale, per cui il tono funziona sempre e la voce di Rick Moody, più che le sue analisi (che comunque sono accurate e documentate), risulta essere il collante ideale per rendere coerente e uniforme una composizione in realtà molto eterogenea. Contenuta da due estremi opposti e sovrapponibili: cool e underground sono le parole d’ordine che comprimono tutto quello che c’è dentro la Musica celestiale, i tempi e i rituali, le epifanie e le interpretazioni, gli alti e i bassi perché, come si premura di ricordare Rick Moody, “nella vita capita di toccare il cielo con un dito e di capire quanto sia importante quell’istante, ma poi ci si sveglia e ci si rende conto di avere ancora molta strada da fare. Oppure: tutte le cose giungono alla loro conclusione, specie la sensazione che la tua giovinezza sia stata memorabile; questa sensazione si affievolisce, gli occhi luminosi della giovinezza si velano di oscurità, tutto quel danzare attorno a certe colonne sonore di quegli anni finisce, e ti trovi a passare da un lavoro incompiuto a un altro e a cercare di tenere i creditori a bada. Arrivano più bollette che lettere d’amore”. La sfida ai luoghi comuni non è del tutto convincente, rimangono in sospeso La questione del declino o quella dei Piaceri inconfessabili, la musica come rifugio e come hobby, così come Rick Moody alterna fiction fiction e filosofia, narrativa e autobiografia, restando in bilico tra il racconto della sua esperienza e dell’esperienza in sé. Non a caso, I frammenti di Pete Townshend è forse il capitolo che rappresenta uno snodo, anche nella sua forma assemblata di più parti, perché Rick Moody sembra riflettersi, magari in modo involontario e spontaneo, nella tormentata personalità del chitarrista degli Who. Se non altro, Musica celestiale non cede alla tentazione di azzerare gli orologi o di cancellare una storia quando è chiaro che “questa musica del passato ci offre un rinnovato accesso alle nostre antiche percezioni e emozioni, e quindi con ogni probabilità c’è un che di intrinsecamente nostalgico nel piacere inconfessabile (benché ritenga la parola nostalgia inadeguata in questo contesto: sarebbe come dire che tutta l’opera di Proust ruota attorno alla nostalgia per un dolce). Ma se la musica riesce a dar voce a emozioni che altrimenti rimarrebbero inespresse, questa non è forse una ragione sufficiente per considerarla valida e importante?” Il senso più intimo e profonda della Musica celestiale è proprio nella risposta di Rick Moody quando dice che “la memoria è difettosa, costellata di errori, trasuda desiderio, eppure interagisce con la musica in modo duttile; come il jazz, la memoria è imprevedibile, e offre ai musicisti qualcosa su cui puntare, così come offre agli scrittori qualcosa su cui scrivere”. La definizione rimane quella, l’entusiasmo resta intatto ed esplicito quando viene così condensato e sollecitato: “Prendete il controllo del vostro splendido linguaggio. Mettete in funzione il vostro gergo alchemico. Rimescolate il vostro slang. Suonate i vostri innumerevoli fiati. Suonate bene. Suonate con sentimento”. L’esortazione, molto Beat Generation, in coda all’introduzione della Musica celestiale, è ambivalente e si può leggere anche al contrario visto che, come ribadisce Rick Moody, “la letteratura, pur manifestandosi sulla pagina, è un fenomeno acustico”. Ecco perché, tra l’altro, il Nobel è andato dove è andato.

martedì 13 dicembre 2016

Walt Whitman

Negli anni della guerra civile fino all’assassinio di Abraham Lincoln, Walt Whitman si offre volontario nell’accudire i feriti, i moribondi e i prigionieri. E’ l’amico che passa nelle corsie degli ospedali, è l’ideologo di una rivoluzione amputata dalla secessione, è il custode di una promessa, è la voce libera di una nazione che, in tutta la sua fragile costituzione, si trova ad affrontare uno “sconvolgimento vulcanico”. Le sue annotazioni sono febbrili, urgenti e ambivalenti. Da una parte, “un’occhiata alle infernali scene di guerra”, le inaudite sofferenze, i feriti e i morti protagonisti di “una tragedia così profonda che nessuna voce di poeta può mai aver cantato o raccontato. Da queste pagine si sollevano corpi veri, reali, che si muovono e respirano”. Sull’altra faccia della medaglia, Walt Whitman non resiste alla tentazione del racconto epico dei valorosi combattimenti corpo a corpo, di “un migliaio di imprese valorose, ciascuna delle quali meriterebbe d’essere ricordata in poesie in uno stile nuovo e più grande”. La partecipazione e il trasporto sono totali, incondizionati: Walt Whitman invoca, per tutti, “uno spirito tanto forte quanto dolce, come ce ne sono sempre stati, da che mondo è mondo” e si lascia trascinare dalla convulsione di quel momento riempiendo i suoi taccuini di “rapidi sguardi non sistematici gettati in quella vita, e negli interni foschi e lividi di quel periodo, che meritano di essere ricordati in futuro”. La speranza è riposta soltanto nell’incrollabile fiducia nell’ideale americano, messo a repentaglio da una guerra che “ha dimostrato umanità, e ha dimostrato pure cosa sia l’America e la modernità”. Lasciato il campo dell’assistenza, della compassione, delle storie di figli e madri distrutti per sempre, Walt Whitman legge il “destino manifesto” secondo un vocabolario in gran parte inedito. Spinto dall’esperienza diretta di atrocità inaudite, ammette con pubblico candore che “noi abbiamo bisogno di questa urticante lezione d’odio generale, e d’ora in poi non dovremo mai più dimenticarcene”. L’auspicio ha un valore assoluto: anche nelle condizioni frammentarie imposte dalle circostanze belliche alle pagine del suo diario, Walt Whitman non nasconde di aver compreso l’intima e profonda origine delle divisioni americane e si chiede “dopo tutto, cos’è ogni nazione, e che cos’è un essere umano, se non una lotta tra opposti elementi confliggenti e paradossali, e cosa sono questi stessi elementi se non parti importanti di quell’unica identità e del suo divenire?” La retorica della domanda rivela che la frattura è stata articolata, non era soltanto in orizzontale, tra gli stati unionisti e secessionisti, ma anche lungo una direttrice verticale, dentro l’identità stessa della nazione, del governo del popolo per il popolo, quando invece, proprio nel corso di quegli eventi sanguinosi e drammatici, “il singolo e l’insieme di sono rivelati superbamente all’altezza, l’organizzazione militare, il potere d’indirizzo, le sue direttive si sono invece rivelati rozzi e illegittimi, peggio che deficienti, offensivi e radicalmente sbagliati”. La separazione diventa palpabile quando Walt Whitman avendo sperimentato l’incertezza e l’ambiguità nelle retrovie politiche di Washington tratteggia in modo inconfondibile Abraham Lincoln “vestito interamente di nero, con guanti di capretto bianchi, e una giacca a coda di rondine, che riceveva le persone come se fosse obbligato farlo, stringeva le mani e sembrava proprio sconsolato, con l’aria di chi avrebbe volentieri dato qualsiasi cosa pur di trovarsi altrove”. E’ ancora più esplicito quando misura in prima persona l’inerzia e l’inefficienza dei governanti, anche di fronte al rischio concreto di una disfatta e al protrarsi di quattro anni in cui si sono concentrate “tempeste di vita e di morte, una miniera inesauribile di vita e di morte”. L’America del poeta resta una nobile illusione, dalla guerra ne è nata un’altra, e le annotazioni diventano via via lapidarie: ci saranno annali e ballate, teorie e ricostruzioni, ma la resa di Walt Whitman arriva quando chiede: “Ma riusciremo mai a sapere le storie delle cose reali?” Secoli dopo, la domanda è sempre lì, ancora più grande, ancora più evidente.

mercoledì 7 dicembre 2016

Denis Johnson

Mostri che ridono è il ritratto caotico e psichedelico dell’ incrocio in diagonale tra due donne e due uomini sullo sfondo di un’Africa sospesa tra gli echi ancestrali della sua natura e un futuro disperato di sfruttamento e devastazione. E’ proprio in questo humus estremo e contraddittorio che si forma la struttura del legame tra Michael Adriko e Roland Nair, che a sua volta è complessa e molecolare. Sono compagni d’armi (o lo sono stati altrove e in altri tempi), sono amici (se lo sono ancora), sono i due vertici di un ipotetico rombo con Davidia Saint Claire e Tina che però resta a distanza, anche se a tutti gli effetti è uno dei terminali emotivi di Mostri che ridono. Michael Adriko chiede a Roland Nair di accompagnarlo al suo matrimonio, o meglio a far conoscere Davidia Saint Claire alla sua famiglia, o quello che ne resta, nel cuore dell’Africa tropicale. Roland Nair accetta l’invito, ma ha anche altri motivi per seguirlo, non tutti lineari o comprensibili. Lo stesso Michael Adriko, che in teoria dovrebbe rispondere al comando delle forze speciali americane, è “assente senza motivo”, il termine burocratico per definire un disertore soltanto che nella sua versione, così come la spiega al suo (ipotetico) testimone di nozze, “la diserzione è una moneta. La giri, e dall’altra parte c’è la lealtà”. Nella sostanza, Mostri che ridono è un’eccentrica spy story del ventunesimo secolo, e ventunesimo secolo vuol dire quello che è successo dopo l’11 settembre 2001, ovvero come lascia scivolare Denis Johnson tra le righe, da quando “correre dietro a miti e favole è diventato un affare serio. Un’industria. E anche redditizia”. Mostri che ridono torna a ricordarci che quell’apocalisse ha rivelato che “la realtà non è un fatto”, ormai “è un’impressione, una convinzione”, e tutto è possibile, perché non è vero. Nell’attraversare le linee d’ombra africane sia Roland Nair che Michael Adriko restano prigionieri più volte, una condizione che li rivela ostaggi del proprio passato, di se stessi. Eppure non sembrano soltanto immuni, ma neanche impensieriti, forse perché “un soldato non deve mai pensare”, e loro sono guerrieri incalliti, disillusi, stanchi e cinici. Sanno che “la causa della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo”, è “la desensibilizzazione. L’indifferenza dell’esecutore”. L’hanno provata, più volte, e non saranno mai eroi, un po’ perché sono incognite nel sottobosco delle menzogne, un po’ perché tra fiumi di alcol ammettono che “il coraggio non esiste. E’ una questione di addestramento”. Vale anche per una lunga teoria di figure secondarie, Bruno Horst, Mohammed Kallon, Hamid, Spaulding, Kruger, portatori di minacce indistinte, ognuno con la propria missione, prima di tutte, cercare di decifrare “l’anarchia. La follia. Le cose che crollano”. Sì, la storia al centro di Mostri che ridono è quella di un’amicizia suprema, una sfida a forze incontrollabili, a dimensioni divine e/o magiche e nello stesso tempo all’ineluttabilità degli elementi (la terra, la pioggia, gli animali, gli uomini e le donne). Ancora di più, le contorsioni di Michael Adriko e Roland Nair mettono in risalto i conflitti, gli intrighi e i disastri dello sfruttamento delle risorse, della devastazione di tutto, della brutalità e, in fondo, sono l’emblema della constatazione che “sono pazzi, sono ciechi, sono sventati, e se ne infischiano tutti, dal primo all’ultimo”. L’identificazione formale delle possibilità, delle probabilità e dei motivi dei viaggi si riduce a “oro o idrocarburi”, l’Africa resta un bersaglio, una terra di conquista, una zona di guerra. L’evidente omaggio di Denis Johnson a Joseph Conrad lascia una vaga sensazione di incompiutezza, che d’altra potrebbe essere l’indizio della genesi di una saga, ma Mostri che ridono è più che sufficiente a mostrare quali inferni si spalancano quando l’unica differenza possibile è tra preda e predatore, una distinzione che non ha più nulla di umano.

domenica 4 dicembre 2016

Hart Crane

Daniel Mark Epstein chiama i versi di Hart Crane “assalti alla logica” ed è una definizione ben allineata a quella di Waldo Frank che a sua volta li inquadrava in “una superba espressione del caos”. Non c'è alcun dubbio che la poesia di Hart Crane sia un Giardino astratto, popolato da immagini e associazioni forti ed eccentriche che mettono in rilievo le parole, le levigano e le lasciano libere di mutare “cavalcando spontaneità che formano le loro orbite indipendenti”, come dice un verso in Le mele della domenica mattina. Le forme sono sempre ingombranti (Harold Bloom parla di “complessità”, e per dirlo lui), ma l’insistenza del ritmo è feroce, non lascia scampo, è tambureggiante, ed è piena di svolte, come avviene in Chaplinesque. Se all'inizio, “noi docilmente ci adattiamo, contenti di quelle fortuite consolazioni che il vento depone in tasche sfondate e troppo grandi”, poi il poeta e la sua poesia ci conducono a un livello superiore dove “il gioco impone compiacenti sorrisi; ma noi abbiamo visto la luna in vicoli solitari fare di un bidone vuoto dei rifiuti un fulgido graal di risate, e fra tutti i suoni della gaiezza e della ricerca, abbiamo sentito un gattino nella desolazione”. Se si segue con attenzione la cadenza, è facile intuire la stessa avvolgente natura del jazz che Hart Crane riassumeva nella meravigliosa percezione degli “ipnotismi di ottone”, poi particolareggiati in “mille piccoli sobbalzi ci bilanciano in mezzo a minacciosi soprassalti di melodia, ombre bianche scivolano sul pavimento, disseminate come carte aperte da una mano fiacca; ritmiche ellissi ci portano al galoppo in un qualche luogo con un gallo insolente”. Le destinazioni finali restano sempre un'incognita e un discorso a parte meritano i Viaggi compresi alla fine di White Buildings. Sono uno dei momenti più alti ed evoluti della poesia di Hart Crane, che qui si intreccia inevitabilmente con la sua umanità, come ricorda Harold Bloom: “I Viaggi sono poesie di intenso appagamento erotico ambientate nel Mar dei Caraibi, dove Hart Crane aveva trascorso le estati insieme alla nonna, sull’isola dei Pini, sin da quando aveva quindici anni. Proprio in queste acque il poeta, ormai trentaduenne, di ritorno a a New York dopo essersi mantenuto per lungo tempo a Città del Messico con la borsa di studio Guggenheim, cadde in depressione e si annegò”. Per questo i versi del secondo movimento, quando Hart Crane dice che “il sonno, la morte, il desiderio, sono racchiusi all’istante in un fiore che galleggia”, sempre secondo Harold Bloom hanno “l’autorevolezza di una profezia”. Questa proiezione, la visione dentro e oltre il tempo, è una proprietà che appartiene a tutta la poesia di Hart Crane e se serve un punto di riferimento, tra tutte le liriche di White Buildings, forse lo si può scovare in Leggenda: “Silenziose come si crede uno specchio, le realtà affondano nel silenzio vicino. Non sono pronto al pentimento; né a misurare rimpianti. Perché la falena non piega nulla più che la fiamma, ancora implorante. E tremuli, fra i bianchi fiocchi cadenti, sono i baci, l’unica verità che vale tutto. Questo va appreso, questo scindere e questo bruciare, ma solo quelli che ancora si consumano”. Follia e ragione possono aspettare in un angolo, il tempo, almeno qui, è dettato dal mistero della musica e della poesia.

giovedì 1 dicembre 2016

Flannery O'Connor

Al di là dei racconti selezionati con La schiena di Parker (e tra gli altri alcuni classici come Un brav’uomo è difficile da trovareIl fiumeLa vita che salvi può essere la tua o Non si può essere più poveri che da morti), questa selezione ha il pregio di annoverare alcuni frammenti di notevole valore tratti da Il territorio del diavolo e soprattutto una piccola campionatura delle lettere di Flannery O’Connor che rivelano un rigore nella formazione delle riflessioni poi espresse con un tono tagliente. La predisposizione a separare (a incidere) nettamente a dividere gli aspetti più superficiali della scrittura (dell’arte in generale) sono evidenti in Natura e scopo della narrativa dove Flannery O’Connor si dimostra una grande teorica e trova sempre il modo di puntualizzare la sua visione senza paura di prendere posizione, per esempio sparando ad alzo zero sulla didattica perché “vogliamo l’abilità ma, da sola, è mortale. Necessaria è la visione che l’accompagna e non la otterrete da un corso di scrittura”. Il territorio della narrativa è sempre “qualcosa da desiderare”, e questo vale anche per tutti: “C’è qualcosa in noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto di redenzione, al fine di offrire a chi cade la possibilità di risorgere. Il lettore di oggi, anche giustamente, cerca questo processo, ma ne ha dimenticato il prezzo. Il suo senso del male è diluito o manca completamente, e così ha dimenticato il prezzo del riscatto. Quando legge un romanzo vuole il tormento dei sensi o l’elevazione dello spirito. Vuole essere trasportato all’istante in una finta dannazione o in una finta innocenza”. Nessuno sconto né ai principianti, né all’accademia: “Ovunque vada mi chiedono se, secondo me, le università soffocano gli scrittori. Il mio parere è che non ne soffocano abbastanza. Con un buon insegnante più di un best-seller si sarebbe potuto prevenire”. La distanza è ancora più evidente nelle lettere dove Flannery O'Connor mostra una verve impagabile. Essendo già autocritica a sufficienza, di fronte a un'analisi tutta imperniata sugli aspetti gotici della sua scrittura risponde:“Mi fa sorridere vedere le mie storie descritte come storie dell’orrore perché il recensore ha sempre un senso dell’orrore sbagliato”. Più in là, in un'altra corrispondenza sembra, rincarando la dose in modo ruspante e senza inibizioni: “Il senso morale è stato geneticamente estirpato da certe categorie di popolazione così come geneticamente sono state fatte nascere galline senza ali per ricavarne più carne. La nostra è una generazione di galline senza ali che suppongono sia stato quello che Nietzsche intendeva dire quando disse che Dio era morto”. Non le sfugge nulla: nel campo della fede (cattolica), un tema su cui non teme di spendersi con generosità riesce a inventarsi un'acrobazia linguistica al limite del paradosso (se non oltre) quando dice: “Trovo ragionevole credere, sebbene queste credenze siano al di là della ragione”. Quella di Flannery O'Connor è una voce inconfondibile e la sua unicità è tale che, fatte salve le diverse prospettive, non si intravedono differenze tra il tono dei racconti, dei saggi o delle lettere, a conferma dell'idea che “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentar di scrivere narrativa”, e così sia.

lunedì 28 novembre 2016

Mark Strand

Quando Un poeta legge un pittore la domanda è: “Come mai troviamo così difficile dare un senso a quello che vediamo?”, e il tentativo di rispondere in Edward Hopper, è in una disgressione geometrica, filosofica e, soltanto alla fine, narrativa. Mark Strand distingue trapezi, piani, e linee facendo notare come “l’uso reiterato di alcune figure geometriche, che hanno un’influenza diretta sulla reazione che l’osservatore probabilmente avrà” è una prassi  con cui “una geometria pittorica stimola un’azione opposta a quella che la narrazione dispone”. In questa contraddizione di termini c’è gran parte del fascino della pittura di Edward Hopper, perché come nota Mark Strand osservando uno dei suoi dipinti più famosi, Nighthawks, “un punto di fuga non è soltanto il luogo in cui s’incontrano linee convergenti, è anche il luogo in cui noi cessiamo di essere, la fine di ciascuno dei nostri viaggi individuali”. Anche nei soggetti ricorrenti in Edward Hopper, “le strade e le ferrovie, i luoghi di passaggio e quelli di sosta temporanea, in termini più generali, i luoghi del viaggio”, la dimensione è ambivalente e Mark Strand sa intravedere in quel  “mondo colto al volto, di passaggio”, “immobile” nella sua essenzialità, una visione “senza di noi; non solo un luogo che ci esclude, ma un luogo svuotato di noi stessi”. E’ davvero lì, nell’istante ricavato tra la luce e le ombre, che la grandezza del poeta e del pittore s’incontrano e quei “momenti del mondo reale, di cui noi tutti abbiamo esperienza, sembrano per mistero trasportati fuori dal tempo. Ad esempio il mondo visto di sfuggita da un treno, o da un’auto in corsa, rivelerà la scheggia di una storia che forse cercheremo, o forse no, di completare, ma i cui echi suggestivi ci commuoveranno comunque, rendendoci consapevoli della natura frammentaria, fuggitiva persino, delle nostre vite”. I frammenti di stanze, finestre, corpi e paesaggi e tutto quello che resta sospeso lasciano aperte molte ipotesi per l’osservatore, e Mark Strand ricorda come “quello che sentiamo sarà soltanto nostro. La negazione del viaggio, insieme al nostro senso di perdita e alla nostra assenza transitoria, prospererà”. Eppure, la narrazione dei quadri è rispettosa, limitata alle impressioni e alle forme, senza l’aggiunta di particolari speculazioni, deduzioni o divagazioni. L’arte di Edward Hopper rimane “un universo a sé stante in cui il suo mistero rimane intatto”, è il suo riflesso a colpirci, così come “il silenzio che accompagna il nostro guardare sembra accrescerci. Ci turba. Vogliamo andare oltre. E qualcosa ci spinge a farlo, nell'attimo stesso in cui qualcos’altro ci costringe a restare fermi. Ci pesa addosso come solitudine. La distanza tra noi e ogni altra cosa aumenta”. Quella racchiusa nelle due dimensioni della pittura di Edward Hopper è “una lacuna ombreggiata non tanto dagli eventi di una vita vissuta quanto piuttosto dal tempo prima della vita e dal tempo susseguente”, ovvero un momento magico protratto nel tempo e di cui “noi siamo i privilegiati testimoni”. L’effetto porta alla dimensione superiore, dove la considerazione inevitabile tocca “il problema dei nostri rapporti con il tempo: cosa ce ne facciamo del tempo e cosa il tempo a noi?” Se la domanda iniziale toccata più il pittore, quella conclusiva è di pertinenza del poeta: se in Edward Hopper intravede quella “struttura formale in grado di contribuire a normalizzare l’arcano come elemento inspiegabile delle nostre vite”, la risposta  tocca ancora a chi guarda, incantato, perché, “noi pure desideravamo qualcosa oltre il mondo a noi noto, oltre noi stessi, oltre quanto sapevamo immaginare, qualcosa in cui nondimeno potessimo riconoscerci”. Questa è l’arte, questa è la poesia.

mercoledì 23 novembre 2016

Ta-Nehisi Coates

L’idea di Un conto ancora aperto nasce dalla convinzione che alla fonte del razzismo ci sia la speculazione economica e che, con il trascorrere dei decenni e poi dei secoli, causa ed effetto (la speculazione e il razzismo) siano diventati intercambiabili. E’ il motivo per cui Un conto ancora aperto prende le distanze con molta chiarezza dall’illusoria possibilità di riconciliazione senza risarcimento. Una posizione che è implicita già nello svolgimento del sottotitolo. Quando Ta-Nehisi Coates si chiede Quanto valgono duecentocinquant’anni di schiavitù?, non è per niente una domanda retorica. La quantificazione del danno, riconosciuta come diritto a partire da John Locke, è un argomento che ha solide fondamenta. Il furto è concreto e continuato nel tempo, attraverso formule più subdole, raffinate e meno esplicite della schiavitù, ma pur sempre efficaci, e a senso unico. Non solo: come succede nel primo caso raccontato da Ta-Nehisi Coates, quello di Clyde Ross, la distorsione e l’assenza dei diritti lo spingono al punto di rendersi conto che “non viveva sotto lo sguardo bendato della giustizia, ma sotto l’oppressione di un regime che aveva elevato la rapina armata a principio di governo”. Le osservazioni sono radicali perché la condizione è estrema: la depredazione e la conseguente distruzione di un popolo generano una percezione sfasata perché, spiega Ta-Nehisi Coates, “in realtà, in America c’è la bizzarra e profonda convinzione che se pugnali un nero dieci volte smetterà di sanguinare e inizierà a guarire appena mollerai il coltello. Siamo convinti che il predominio bianco appartenga a un passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo cancellare soltanto distogliendo lo sguardo”. E’ evidente che c’è proprio Un conto ancora aperto e lo sforzo maggiore compiuto da Ta-Nehisi Coates è insieme un grido di dolore e di allarme perché “non possiamo fuggire dalla nostra storia. Tutte le soluzioni che abbiamo sperimentato per risolvere grandi problemi come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, il diritto alla casa e le diseguaglianze economiche, pagano il prezzo di ciò che non si vuole ammettere”. Ta-Nehisi Coates parte da casi espliciti ed esemplari prima di avvalersi degli strumenti statistici, che sono sempre fluttuanti e hanno bisogno di una giusta collocazione, ma Un conto ancora aperto non deve difendere una teoria, una ricostruzione, un’opinione: il danno compiuto è conclamato, perché gli esseri umani ridotti in schiavitù sono stati trattati e organizzati come merci. Ricorda lo storico David W. Blight: “Nel 1860 gli schiavi come bene patrimoniale valevano più di tutte le produzioni manifatturiere, più dell’intera rete ferroviaria e dell’intera capacità produttiva di tutti gli Stati Uniti messi insieme. Gli schiavi erano di gran lunga il bene di proprietà più importante dell’intera economia americana”. Questo vuol dire un’immane sofferenza perché trattare uomini e donne come parti di ricambio vuol dire distruggere le comunità e “separare una famiglia di schiavi equivaleva di fatto a un assassinio. Ecco dove affondano le loro radici la ricchezza e la democrazia americane: nella lucrosa distruzione del bene più importante a cui ogni individuo possa aspirare, la famiglia. Questa distruzione non è stata un elemento incidentale nell’ascesa dell’America: l’ha facilitata. Attraverso la creazione di una società di schiavi l’America ha potuto gettare le basi economiche per il suo grande esperimento democratico”. Riconoscere l’esigenza di un risarcimento sarebbe (il condizionale è d’obbligo) un decisivo cambio di prospettiva, anche se il saldo finale, per la civiltà tutta, resta negativo. 

domenica 20 novembre 2016

Herman Melville

Pur essendo molto distanti dall’epopea di Moby Dick, perché sono episodi che appartengono al suo periodo giovane e selvaggio, i Frammenti di uno scrittoio sono rappresentativi di uno stile destinato a diventare unico. Non soltanto con l’esuberante carica per cui D. H. Lawrence dirà che “in effetti Melville è un tantino sentenzioso, e così cosciente e anche teso a convincere se stesso” o per le citazioni di Shakespeare, Milton, Byron, Scott, Coleridge ostentate nei due racconti. In prospettiva, i Frammenti di uno scrittoio sembrano germi primordiali in cui Melville asseconda il motto di Friedrich Schiller (“Sii fedele ai sogni della tua giovinezza”) e lo traduce in una narrazione spumeggiante, per quanto ancora grezza e acerba. La dimensione onirica tout court delle “lungaggini” di Melville è palpabile, richiamata spesso nelle descrizioni che sono floride e voluttuose: “Candelieri di disegno estremamente fantasioso, pendenti dall’alto soffitto con funi d’argento, diffondevano su questa scena voluttuosa una luce morbida e temperata, e trasmettevano all’insieme quella bellezza di sogno che vuol essere vista per essere pienamente apprezzata. Specchi di grandezza inusuale, moltiplicando in tutte le direzioni i bellissimi oggetti, illudevano l’occhio con le immagini riflesse e ingannavano la visione con un lungo scorcio”. Una caratteristica che poi resterà, ampliata e centellinata con maggior precisione, tanto è vero che D. H. Lawrence dirà ancora che “il Melville migliore scrive in una specie di sogno soggettivo, cosicché gli eventi che gli ci narra hanno una strettissima relazione con la sua anima e la sua vita profonda”. La vita è sogno ed è suono e i Frammenti da uno scrittoio mettono già in risalto la natura tambureggiante della scrittura, che poi John Freeman definirà così: “Una delle maggiori qualità di questo genio è il suo orecchio per il ritmo. Melville aderisce alla superba tradizione degli scrittori anglosassoni: la tradizione di una prosa scritta per l’orecchio più che per l’occhio”. Questo è già evidente fin dagli scritti giovanili come emerge nel primo dei due Frammenti da uno scrittoio quando Melville dice: “Sento che le mie capacità sono inadeguate alla bisogna; proverò tuttavia a cimentare la mia mano sull’argomento sebbene, da inesperto pittore qual sono, temo che riuscirò solo a scandalizzare le grazie che sto tentando di rappresentare”. La promessa, si sa, sarà mantenuta, vagabondando tra le frasi con un coraggio per e nella prosa che lo spingerà a scelte radicali nella vita. Alla fine, anche nei Frammenti da uno scrittoio si trova, come scriveva Gianni Celati “il procedere a tentoni delle parole verso questi deserti, luoghi di voci e richiami dell’anima, con la grazia del grafomane e del manierista, ma anche sempre con questo lancinante senso di un’apertura in tutte le direzioni, che non arriva da nessuna parte”. Un mese dopo Herman Melville salperà e da lì in poi il sogno diventerà un’ossessione, per lui e per tutti: “Cavatevi gli occhi per cercarla, ragazzi: guardate bene se vedete acqua bianca: se vedete anche solo una bolla, segnalate”. Siamo sempre in mare aperto, la caccia continua.

mercoledì 16 novembre 2016

Andy Warhol

Amore, bellezza, fama, lavoro, tempo, morte, economia, atmosfera, successo, arte: La filosofia di Andy Warhol è il vademecum per comprendere la particolarissima ottica con cui vivisezionava la realtà, rileggendola e trasformandola, o almeno cercando una bellezza nei frammenti di vita, nelle brevi tregue tra un’incombenza e l’altra, convinto che “ognuno ha il suo proprio tempo e luogo per accendersi”. E’ proprio nelle logiche di Andy Warhol dare un senso ad aspetti insignificanti, almeno in apparenza, della vita quotidiana con un’attenzione di è nitida, continua, serrata. Quasi un diario di bordo, molto scrupoloso nei dettagli casalinghi, nell’osservazione della routine, con l’idea che, comunque, “alla fine l’intera giornata sarà un film”. La filosofia di Andy Warhol è tutta definita dalle immagini cinematografiche e televisive, come se fossero (e lo sono, ovviamente) traduttori simultanei della realtà, sfruttati però in modo creativo, o almeno con la consapevolezza “che una volta viste le emozioni da una certa angolazione non le si possa più considerare reali”. La percezione di Andy Warhol è solo per il momento, una visione del tempo fondata sul futuro e su un’immaginazione frigida (come direbbe il diretto interessato), concentrata, precisa e proprio per tutti questi motivi, geniale. Andy Warhol racconta la sua normalità, che è fatta delle ossessioni di un artista, dei suoi rituali, delle misure che prende alla sua vita, dei tempi che asseconda. La filosofia è mutevole, come l’umore. Solo le ossessioni che restano costanti e coerenti ed è ancora attualissima la sua dimestichezza nel generalizzare, con ironia e leggerezza snodi esistenziali complessi, che Andy Warhol traduce in aforismi brevissimi e pungenti. Il pop è proprio questo. Quando scrive che “alcune persone pensano che la violenza sia sexy, ma io non me ne sono mai accorto”, lo dice da sopravvissuto visto che soltanto qualche anno prima. Valerie Solanas gli aveva sparato contro tre colpi di pistola. Nello stesso modo riassume in pochissime parole il mistero gaudioso e doloroso del cosiddetto sogno americano spiegando come “l’America è veramente bella. Ma sarebbe ancora più bella se tutti avessero i soldi per vivere”, che poi in realtà si concentra e si sviluppa nell’idea del lavoro e del diventare qualcuno. A quel punto La filosofia di Andy Warhol è a un bivio, ma non rinuncia alla sfida, non è nella sua natura. Andy Warhol rimane un bizzarro “self made man”, un uomo di successo, che ha vissuto il suo ruolo sempre con un distacco regale: “Credo di avere una concezione molto approssimativa del lavoro, perché è mia convinzione che vivere sia già di per sé un grosso lavoro, che non si ha sempre voglia di fare. Nascere è un po’ come essere rapiti. E poi venduti come schiavi. La gente non fa altro che lavorare. Il meccanismo è sempre in moto”. D’altra parte La filosofia di Andy Warhol ha ragione di esistere in quanto riflesso e personificazione delle proiezioni, delle contraddizioni e delle fantasie del ventesimo secolo. La fama non è solo il celeberrimo “quarto d’ora”. C’è molto di più nello stardom system e nessuno è stato così chiaro come Andy Warhol nel comprenderlo: “Oggigiorno sei considerato anche se sei un imbroglione. Puoi scrivere libri, andare in televisione, concedere interviste: sei una grande celebrità e nessuno ti disprezza anche se sei un imbroglione. Sei sempre una star. Questo avviene perché la gente ha bisogno delle star più che di ogni altra cosa”. Poi, come scriveva nei suoi diari, “se volete sapere tutto su Andy Warhol, guardate semplicemente alla superficie dei miei dipinti e delle mie pellicole ed eccomi, lì sono io. Non c’è nient’altro oltre a questo”. Resta unico, non riproducibile, e forse questo è il vero paradosso che racconta La filosofia di Andy Warhol.

lunedì 7 novembre 2016

Don DeLillo

Zero K è la radice quadrata di una love story, “un assurdo moto di amore” che alimenta una reazione a catena di visioni, una sfida che infine si trasforma in “una sontuosa finzione”. L’atmosfera onirica, precisa, gelida, sublime ed estrema imposta da Don DeLillo “lascia che la lingua rifletta la ricerca di metodi sempre più oscuri, fino ad arrivare a livelli subatomici” e concede soltanto una scelta al lettore, che può decidere se Zero K è “un sogno ben disciplinato” o la follia di un incubo “ai margini estremi del plausibile”, e un po’ oltre. La storia si condensa attorno alla decisione di Ross Lockhart alias Nicholas Satterswaite e della (seconda) moglie Artis di ibernarsi, nella speranza di ovviare alle malattie e per estensione per nascondersi e per rimettersi al tempo seguendo “una promessa che gode di maggiori garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni organizzate di questo mondo”. L’elemento criogenico, l’ambientazione scientifica, i dilemmi filosofici, circostanze, congetture, conseguenze riportano a La stella di Ratner ma nello svolgersi della sostanza di Zero K “in termini puramente umani, stiamo parlando di un uomo che non se la sente di vivere senza la sua donna”. Dovrebbe essere semplice, solo che “quando vediamo qualcosa a noi arriva solo una parte di informazioni, una sensazione, un’idea vaga di quello che realmente si può vedere” e “sono solo indizi. Il resto è una nostra invenzione, il nostro modo di ricostruire ciò che è reale”. Marito, moglie (non-madre), padre e figlio che si incontrano in un non-luogo chiamato, con un’ironia impercettibile, Convergence, a confabulare tra loro e con misteriosi interlocutori di non-vite e, di riflesso, di non-morti. Tutto diventa dialogo, tono “prima e terza persona insieme”, contraddizione, paradosso e una voce che confessa: “Cerco di sapere chi sono. Ma sono quello che dico e non è quasi niente. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai”. E’ la lingua ad aprire “una distorsione della luce”, quella che, nella scrittura pulsante di Don DeLillo, ha una frequenza ritmica serrata, sincopata, pari e dispari contemporaneamente. Il titolo, beffardo, lascia la porta aperta all’invenzione di un non-romanzo, alla sensazione continua di essere “caduti fuori dalla storia”, alla possibilità di scoprire che il narratore “ogni tanto improvvisa, gonfia le storie, le allarga, le porta al limite in un modo che può anche mettere alla prova le cose in cui credi” e comunque, fino in fondo, Zero K è una professione di fede per “le parole intatte”, che non sono così facili da ritrovare, e per estensione per la letteratura come prova, rituale, esperienza. L’unico (e forse, l’ultimo) modo per accorgersi che, come dice Don DeLillo parafrasando Sant’Agostino, “il tempo è multiplo, il tempo è simultaneo. Questo momento succede, è successo, succederà”, e sono soltanto le “piccole cose che definiscono ciò che siamo”, quelle che pesano o valgono Zero K, e che rivelano “quanto siamo fragili, non è vero?”, e la vera trama è tutta nella domanda. Resta la descrizione di un lungo crepuscolo su Manhattan che cala come il perfetto sipario sul finale di un romanzo straordinario. 

venerdì 4 novembre 2016

Brian Turner

Prima di diventare un raffinato romanziere, Arturo Pérez-Reverte è stato a lungo un inviato al fronte e nel 1988 è stato profetico quando scrisse: “In realtà non vi invidio le guerre che vivrete tra venti o trent’anni”. Eccoci qui, con un elenco aggiornato di continuo” delle possibilità e dei modi di morire, come scrive Brian Turner, combattendo in guerre che ormai sono così vecchie, così morte”. La definizione, che invece è di Don DeLillo, si adatta alla perfezione alla forma di La mia vita è una paese stranieromettendo in conto sette anni come “parte dell’inventario dell’esercito americano”, Brian Turner riunisce “poche frasi legate insieme nella sommaria descrizione di una vita passata in guerra. Lo schieramento in battaglia. Il filo della vita di una guerra”. All’inizio sono “frammenti. Lampi di luce. Nient’altro che parti”, poi un tripudio di fucili, volti camuffati e intenzioni oscure” finché La mia vita è un paese straniero non comincia a germogliare in “uno spazio interiore, uno spazio che non apparteneva né all’esercito né alla comunità militare in cui prestavo servizio”. La convivenza tra le liriche e le armi, pur radicata nella storia dell’umanità, si è fatta schizofrenica (come tutto il resto, a dir la verità) perché “la guerra vera è in televisione”. La visione è cambiata per la prospettiva, dato che “a ben vedere, la vera macchina da presa siamo noi”, e di conseguenza nella consapevolezza della tragica essenza della guerra dove, spiega con rara profondità Brian Turner, è tutto percepito, in qualche modo, come una vastità di spazi, dove l’architettura della civiltà non interviene, l’ambiente del consorzio umano è chissà come assente o sospeso. Uno spazio in cui le regole sono sottosopra. Teatro di guerra, lo chiamano alcuni. Lo spazio in cui la guerra si svincola dalle strutturate regole degli umani per dibattersi nel mondo naturale, nell’idea di bellezza, in tutto ciò che su questa terra vi è forse di più simile a una perfezione inviolabile”. Ecco, all’inizio, la domanda è: “Sono questi i principi che ci hanno portato qui?”, e non c’è nulla di retorico o di eroico, nel chiederselo, perché la risposta è superata dagli eventi: armi che vedono e colpiscono ovunque, uomini e donne e bambini usati come scudi, bersagli, bombe umane, atrocità e crudeltà che si inanellano seguendo un’involuzione senza fondo. Quello che rimane è solo un’altra domanda: “Come fa uno a lasciarsi alle spalle una guerra, quale che sia, e a riprendere il cammino della vita che gli resta?”Brian Turner dice in modo molto coraggioso quello che tutti sussurrano sottovoce e che si intuisce nei ricordi collezionati nei memoir di Chris Kyle, Ben Fountain, Phil Klay, David Tell o Siobahn Fallon che hanno vissuto e osservato le moderne guerre americane da vicino, e da diverse angolazioni. L’unica verità che sopravvive è che l’operazione del rientro “richiede anni e anni”, ma nessuno torna veramente. Brian Turner parte da una constatazione più complessa, avendo percepito fin dal giorno dell’arruolamento, “a un livello profondissimo e immutabile, che sarei partito e mai tornato”. Non è tutto perché un pezzo dopo l’altro La mia è un paese straniero si costruisce e si rivela nel titolo (e lo completa) quando Brian Turner dice: “Forse il punto non è tanto che è difficile tornare a casa, quanto che a casa non c’è spazio per tutto quello che devo portarci. L’America, smisurata ed estesa da un oceano all’altro, non ha abbastanza spazio per contenere la guerra che ognuno dei suoi soldati porta a casa. E anche se ne avesse, non vorrebbe”. Scomodo, urgente, necessario.

martedì 25 ottobre 2016

Elliott Chaze

La canzone che sottolinea dall’inizio alla fine Il mio angelo ha le ali nere ha una storia particolare perché è If You Got The Money, Honey, I Got The Time, un classico di Lefty Frizzell, scritta con il suo manager, Jim Beck. Registrata dallo storico produttore della Columbia, Don Law, la canzone venne pubblicata il 14 settembre 1950 e rimase per tre settimane al primo posto nelle classifiche country & western (poi ci tornò nel 1976 nell’interpretazione di Willie Nelson). Tim e Virginia l’ascoltano dalla radio di una stanza d’albergo dove s’incontrano. Lui è appena uscito di galera e “la canzone e le parole facevano un effetto strano cantate da lei, con la freschezza di una ragazzina, ma con la voce appena smozzicata di una signora”. Nasce in quel momento una liaison pericolosa e instabile: Tim, come tutti i delinquenti che si rispettino, ha un piano per un ultimo colpo e vede in Virginia la complice ideale. Un po’ perché sa guidare, e un po’ perché “si può dire quello che si vuole, ma in realtà le persone affamate di denaro, quelle voracemente affamate, sono una categoria a parte”. Lei è una femme fatale incontrollabile e risoluta, l’incarnazione vivente del ritornello della canzone di Lefty Frizzell: se tu hai i soldi, dolcezza, io ho tempo. Al centro dei pensieri e dell’azione c’è sempre la rapina da un milione di dollari con tutti i cliché del caso, allineati con rara maestria da Elliott Chaze. E’ un colpo ingegnoso, studiato per non lasciare nessuna traccia, e, come nelle migliori tradizioni, è stato elaborato in carcere, con un compagno di cella, Jeepie, un fantasma che sembra seguire ogni movimento di Tim. Da lì in poi si rischia di rivelare particolari importanti, che toglierebbero la sorpresa al ritmo serrato, sincopato e senza un attimo di tregua di Elliott Chaze. Uno stile molto evoluto rispetto ai dettami (pulp) dell’epoca (siamo nel 1953). Intanto l’ambientazione, almeno nella prima parte, è insolita per un noir, con tutti quei riflessi bucolici nella wilderness, l’acqua chiara e gelida del torrente, la luce del tramonto e la volta stellata di notte. Un paesaggio idilliaco in netto contrasto con le motivazioni oscure che hanno portato lì, sui pendii del Colorado, Virginia e Tim che li legano a quel luogo fino alla fine della storia. La differenza è nitida e sottolineata dalla scrittura di Elliott Chaze che si presta con generosità a illustrare ogni scena, sia che Tim e Virginia si trovino circondati dalla natura, sia che vengano ritratti in cornici più anguste, come il posto nella fabbrica di lamiere per Tim. I luoghi scorrono veloci: anche quando preparano il colpo in un quartiere sonnolento di Denver, dove l’attività principale è innaffiare il giardino o scrutare i movimenti dei vicini, la fuga è soltanto rimandata. E’ il vero elemento trascinante di Il mio angelo ha le ali nere: Tim e Virginia scappano anche dal proprio nome e Elliott Chaze non distoglie mai l’obiettivo e non perde occasione per evidenziare il senso unico a cui sono obbligati perché “nessuno è immune dal pensare”. La vita da fuggiaschi ha i suoi alti e bassi: Tim e Virginia si spostano lungo strade deserte o nella movimentata vita notturna di New Orleans, ma qualcosa li costringe a tornare a guardare nell’oscurità di un pozzo, dove il destino, inevitabile e tragico, li sta aspettando. Il resto è l’abilità (non indifferente) di Elliott Chaze nel servire il contorno, lasciando suonare ancora una volta If You Got The Money, Honey, I Got The Time, anche se ormai, dolcezza, non ci sono più né i soldi né il tempo. Un classico, nerissimo e spietato.

venerdì 21 ottobre 2016

Joni Mitchell

“Le stagioni cambiano ogni giorno. Qualche volta è primavera, qualche volta è niente. Un poeta può cantare, sì, ci prova, prova sempre” cantava invece lei, Joni Mitchell, in Sisotowell Lane. “Una brava ragazza hippie e rock’n’roll” nella definizione di Barney Hoskins, un po’ riduttiva in realtà, visto che l’incanto di Joni Mitchell è la profondità della sua immersione negli abissi dell’amore. Nessuno ha scritto con la sua sensibilità, con la sua intensità e con la sua ricchezza di immagini l’inarticolato linguaggio del cuore, anche quando le storie d’amore sono destinate a sfaldarsi o a concludersi, anche quando l’amore coincide con la felicità (non sempre) o soltanto quando tutte quelle cose selvagge cominciano a correre veloci. Se in effetti il suo songwriting è, come scrisse una delle sue prime biografe Leonore Fleischer, una composizione che ritrae “la fragile natura del cuore e le complesse strade che prende nella sua ricerca di un altro cuore”, la declinazione non è stata univoca. Joni Mitchell è sempre stata salda e ferma nell’accordarsi alle proprietà di un linguaggio mutevole, preservando tutti i filamenti autobiografici, anche i più intimi e lancinanti, come ammetteva lei stessa: “Il dolore ha molto poco a che fare con l’ambiente. Puoi essere seduto nel più bel posto del mondo e non riuscire a vedere niente per il dolore. Nella mia vita ho affrontato molti miei demoni. Un sacco erano davvero stupidi, ma per me sono estremamente reali. Non mi sento colpevole per il mio successo o per il mio stile di vita”. La traduzione, cercandola dentro una canzone, la si trova in Talk To Me: “La mia mente cattura immagini, guida ancora i miei passi di danza anche se è coperta di piaghe”. Questa connotazione era già chiara a Lester Bangs, che sentiva in Joni Mitchell voce e canzoni “per i dolori occasionali e per le poche estasi della tua situazione privata e circoscritta”. Se la sua intenzione è stata quella di “fare musica abbastanza libera da poterla ballare”, con quell’istintivo senso per il ritmo non è riuscita soltanto a “comporre colonne sonore per i momenti di così tante persone”, come ha scritto Lisa Kennedy, ma ha saputo immaginarne i dettagli e le sfumature, attraverso una visione poliedrica dell’arte di raccontare l’amore, i suoi effetti collaterali e le sue controindicazioni. L’aspetto intimista e riflessivo che ricorre nei suoi temi non deve trarre in inganno, il tono è sempre affilato perché Joni Mitchell è “una donna di cuore e di mente” come si presentava nella sua stessa definizione e ancora nel 1996, pur coerente con un innato spirito libero e ribelle, e senza rimpianti, diceva: “Non sono io che sono diventata pessimista, io sono soltanto un testimone. Los Angeles è al centro del cambiamento. Adesso è una città pericolosa in cui vivere. In California, quando scrivevo le mie prime canzoni, c’era un clima del tutto diverso, la gente guidava in modo educato, la sera non si chiudevano a chiave le porte. Se tu mettevi la freccia a sinistra, la gente diceva: ma prego, vada pure. Adesso è una città dove guidano come pazzi. Se metti la freccia, credono che tu voglia superarli, e nessuno a Los Angeles si fa superare, da nessuno”. L’unica gioia in città resta sempre quel folle grido d’amore nascosto tra le pieghe delle sue canzoni e, fosse anche solo per quello, meriterebbe il Nobel pure lei.

lunedì 3 ottobre 2016

Ta-Nehisi Coates

Cresciuto tra le gang di Baltimora, dove “la strada trasforma qualsiasi giorno normale in una serie di domande difficili”, Ta-Nehisi Coates si ritrova, adulto e genitore, a fronteggiare il terrore come prima, unica e urgente forma di risposta alle necessità della vita quotidiana. La deportazione, la schiavitù, la segregazione pesano per secoli e secoli e, anche se è vero che “il furto del tempo non si misura in termini di intere esistenze, ma di momenti”, le radici sono avvelenate per sempre. Allora il padre si rivolge al figlio, quindicenne, che deve diventare “un cittadino di questo mondo terrificante e splendido” con una lunga lettera e gli dice, come premessa: “Non hai ancora dovuto fare i conti con i miti in cui credi, devi ancora scoprire l’imbroglio che ci circonda”. La dimensione del legame impone un tono accorato e Ta-Nehisi Coates non si esime, ma essendo cresciuto nella trincea della sua pelle americana Tra me e il mondo è diretto, estremo, impietoso. Nella condizione di un popolo confinato nei ghetti, costretto a misurarsi con i limiti imposti dall’odio e dall’avidità, dall’ignoranza e dall’indifferenza è naturale vedere una proiezione del futuro perché “la distanza è intenzionale come lo è una legge, e l’oblio che ne segue. La distanza consente la selezione mirata tra i derubati e i predoni, i contadini e i padroni della terra, i cannibali e il cibo”. La linea è nitida, senza un cedimento, senza forme consolatorie, nemmeno per rivendicare un’appartenenza, nemmeno per salvare le apparenze, che ormai si sbriciolano ogni giorno di più. Ta-Nehisi Coates sembra gridarlo, mentre lo scrive in Tra me e il mondo: “La banalità della violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà. Non si può sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per i propri errori umani”. La lettura è istintiva e immediata, nonostante la complessità delle considerazioni di Ta-Nehisi Coates perché la sua lucidità è un grido d’allarme, anche senza volerlo: la tensione si scioglie soltanto quando ricorda la libertà di un viaggio a Parigi, dove, nonostante l’invalicabile differenza linguistica, si è potuto muovere alleggerito dall’angoscia di essere identificato solo per il colore del suo corpo. Il perno, a cui ruotano intorno tutte le frasi di Tra me e il mondo, è, di fatto, la sospensione più o meno occulta di un diritto inalienabile quale è l’habeas corpus. Ta-Nehisi Coates è soltanto un reporter, non è un avvocato e nemmeno un giudice della corte suprema, ma è proprio quello il solco scavato perché “gli americani hanno letteralmente divinizzato la democrazia, eppure di tanto in tanto l’hanno sfidata e oltraggiata, sebbene non se ne rendano del tutto conto. Ma la democrazia è un dio misericordioso, e le eresie dell’America, la tortura, il saccheggio, lo schiavismo, sono così comuni negli individui e nelle nazioni che nessuno può considerarsene immune” Se c’è una speranza è la consapevolezza che “forse la lotta è tutto ciò che abbiamo perché il dio della storia è ateo, e nulla del suo mondo è perché così deve essere”. Non ci sono sconti, né al figlio, né a nessun altro. Anche davanti a Ground Zero, l’epicentro del futuro, Ta-Nehisi Coates ricorda che laggiù, a Manhattan, c’era il mercato degli schiavi di New York e uomini e donne venivano venduti all’asta.

giovedì 29 settembre 2016

Bruce Springsteen

Più che l’inevitabile memoir di una rock’n’roll star, più che il racconto autobiografico di un ragazzo della provincia americana “blinded by the light”, Born To Run è un complesso, pensieroso e articolato trattato di resa di Bruce Springsteen con se stesso e con i suoi demoni. Avendo passato una parte importante della vita prigioniero di un sogno e tutto il resto ostaggio di quello che ha creato, Springsteen si è sforzato di comprendere e poi accettare che “per quanto lo desideri, e per quanto mi sforzi, non riesco proprio a venire a patti con le cose come sono”. La soluzione, in concerto, dove è più a suo agio, è una sorta di rito collettivo che produce un’energia gioiosa capace di far rimbalzare tuoni e fulmini. Nelle cinquecento pagine di un libro diventa più difficile, anche perché è vero che “le storie vanno rivendicate: con il duro lavoro e il talento ne nobiliti l’ispirazione, ti sforzi di raccontarle al meglio, dichiari il tuo debito e la tua gratitudine verso di esse. Ambiguità, contraddizioni e complessità delle scelte di accompagnano nella scrittura come nella vita, e tu impari a conviverci, ad assecondare il bisogno di instaurare un dialogo con ciò che ritieni importante”. Essendo costruito attorno all’irrisolto rapporto con il padre e per estensione all’infanzia nel New Jersey, la prima parte di Born To Run resta la più densa ed efficace dal punto di vista narrativo. Gli esordi sono ricchi di volti, di storie, di spunti e il racconto di Springsteen è ironico, picaresco, spesso romantico, anche se il tono non supera mai il perimetro di quello che pare, a tutti gli effetti, un confessionale a porte aperte. L’inversione comincia a metà corsa dove Springsteen confessa di combattere da anni contro la depressione che, a ben leggere tra le righe, è causa e insieme effetto di un’irrisolta crisi d’identità. Il disagio serpeggia, “la ricerca di un senso e di un futuro” dentro una faglia identitaria molto movimentata, comprende, oltre ai conflitti personali, quelli tra realtà e illusione, e, non di meno, i dubbi legati all’essere americano. In effetti, come sostiene Springsteen “per sapere cosa significa essere americani dobbiamo scoprire cosa significava un tempo: solo rispondendo a queste due domande saremo in grado di immaginare cosa potrebbe significare”. E’ più facile che diventi presidente degli Stati Uniti che uno scrittore tout court: se Born To Run non è il grande romanzo americano, Springsteen era e resta un grande storyteller. La seconda parte, soprattutto nelle ultime fasi, è più frammentaria, quasi meccanica nello svolgere i brevi capitoli. Gli aneddoti non trovano sbocchi in una trama più articolata, il linguaggio non si sviluppa e Born To Run risulta, alla fine, un greatest hits di storie che ruotano attorno al nucleo della contrapposizione tra l’età adulta e l’eterna adolescenza del rock’n’roll, una guerra psicologica senza fine, con l’ombra della depressione in agguato. Il contorno è la musica ed è ancora una contraddizione perché quella invece è la sostanza, il cuore di tutta la sua autobiografia, ma Born To Run è un tentativo di rimuovere e ricollocare, aprirsi e nascondersi, sempre con il timore di essere un enorme bluff e che all’orizzonte non ci sia “nessun sogno, nessun futuro, nessuna storia”. Ci sarà un motivo se “credibile” è una delle parole che tornano più spesso. L’altra è “adorabile” e insieme formano un ritornello che riappare con una frequenza regolare perché nel tentativo, anche un po’ goffo, di rendersi accettabile, Springsteen intravede sempre qualcosa di meraviglioso, e vuole bene a tutti (ma proprio a tutti) perché si sforza di riflettersi negli altri, e di voler bene a se stesso. Con la chitarra a tracolla, il trucco funziona (eccome). Dentro le pagine di un libro è credibile, adorabile. La seconda più della prima.

lunedì 19 settembre 2016

Joseph Heller

Quando Tim O’Brien sostiene che “in una storia di guerra c’è un senso connaturato all’importanza di vita e di morte, che altrimenti uno scrittore dovrebbe costruire in altro modo”, definisce un perimetro molto preciso, per certi versi persino ineluttabile. L’elemento bellico è una distorsione permanente, dove è impossibile domandarsi se “è realtà o un ricordo del passato”, come scriveva Josip Osti in Il libro dei morti di Sarajevo. Solo così si capisce il contorno della bellezza sottintesa da Comma 22: “Ero l’eroe di un film”, dice Joseph Heller. E’ una connotazione importante, per capire, in prospettiva, come si è snoda la sua attualità, che è quella di un classico, e non è soltanto perché la guerra è onnipresente nei secoli dei secoli. Ricordava E. L. Doctorow: “Quando Comma 22 venne pubblicato la gente sosteneva: beh, la seconda guerra mondiale non era certo così, ma quando ci trovammo impantanati nel Vietnam quel libro divenne una specie di manuale per la coscienza dell'epoca. Si sostiene che la letteratura non sia capace di cambiare niente, ma è certamente in grado di influenza la consapevolezza di una generazione”. Lo è diventato perché attraverso Yossarian, il protagonista di Comma 22, Joseph Heller è stato ben più che esplicito nel raccontare cos’è la guerra: “Ogni nuova giornata rappresentava una nuova pericolosa missione contro la mortalità”. Le storie degli avieri americani nei cieli italiani sono narrate in modo lapidario, grezzo, senza alcuna correzione di rotta: “Clevinger era morto. Ecco il difetto principale della sua filosofia della vita. Diciotto aeroplani s’erano abbassati attraverso una nuvola bianca e splendente poco lontano dalla costa dell’isola d’Elba, mentre tornavano un pomeriggio dalla missioncella settimanale a Parma; dalla nuvola ne uscirono diciassette. Nessuna traccia fu mai trovata dell’altro, non nell’aria, e neppure sulla superficie liscia dell’acqua verde di sotto. Neanche un frammento di aeroplano”. Questa è la sfida quotidiana e non c’è via di uscita perché la burocrazia e la disciplina sono altrettanto spietate, come è ribadito dal Comma 22, ovvero “chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. In effetti la follia è un’altra e “quando arrivò il momento in cui il colonnello Cathcart aumentò il numero delle missioni di volo prescritte a cinquantacinque, il sergente Towser cominciò a sospettare che forse ogni persona che indossava un’uniforme fosse affetta da pazzia”. Joseph Heller non si esime dall’affondare nelle radici con cui è alimentata la retorica perché quando non basta la patria, c’è sempre il richiamo alla gloria, come spiega il colonnello Korn: “Sai, questa può essere una soluzione: gloriarsi di qualcosa di cui dovremmo sentire vergogna. E’ un trucco che sembra riesca sempre”. Per quanto si cerchi di mascherare l’effettiva consistenza della guerra, la conclusione è sempre l’inevitabile sovrapposizione con la morte, che Comma 22 celebra con un’amarezza infinita: “C’era un tempo in cui provavo grande soddisfazione quando riuscivo a salvare la vita di qualcuno. Ora mi chiedo che dannato senso può avere, dal momento che devono tutti morire una volta o l’altra”. Sulla scia di Comma 22, l’avrebbe ribadito Rodolfo Fogwill in Scene di una battaglia sotterranea, alla fine è il destino, non la guerra, quello di cui stiamo parlando. Obbligatorio, oggi più che mai.

martedì 6 settembre 2016

Ann Beattie

Le Gelide scene d’inverno di Ann Beattie inquadrano, all’inizio del 1975, la precarietà degli anni americani della sconfitta e della caduta, quando tutti sembravano reduci, o dalla guerra, o da Woodstock. Questa dimensione pubblica si riflette nel disorientamento privato dei personaggi, a partire da Charles, il protagonista, che è ossessionato da Laura, nel frattempo prigioniera del matrimonio con Jim alias il bue (proprio così). Ogni rapporto è un’elisse che ne comprime un altro e nelle Gelide scene d’inverno non c’è spazio di manovra perché un insieme di solitudini non basta a rappresentare una comunità. I tentativi di comunicazione sono tanto insistiti e ripetuti quanto destinati al fallimento e le reiterazioni di Ann Beattie funzionano come colpi di frusta e giri di boa. Non soltanto ribadiscono intere frasi, ma portano il periodo, di conseguenza il dialogo e quindi tutte le Gelide scene d’inverno al livello successivo. Eppure, nonostante lo sguardo ravvicinato, quasi intimo, come se Ann Beattie fosse proprio lì, in mezzo a ogni singola discussione, “l’atmosfera è così impersonale” e sono soltanto le canzoni a ristabilire un po’ di calore. Gelide scene d’inverno è punteggiato in tutti i passaggi più importanti da Janis Joplin, Bob Dylan, Elton John, Billie Holiday George Harrison, Rod Stewart. Per quantità e qualità la colonna sonora ha un valore determinante non soltanto perché “le canzoni non sono mai a sproposito. Qualunque disco si stia ascoltando, le parole si possono sempre applicare alla realtà”, ma soprattutto perché sottolinea e intervalla un romanzo costruito quasi per intero sui dialoghi. Altrimenti Ann Beattie è lapidaria, essenziale, fotografica. Un esempio: “Charles raggiunge Susan alla porta, escono e si avviano alla macchina. Charles nota che gli uccelli hanno finito tutto il mangime e che dovrà mettergliene ancora. C’è da aspettarselo: uno mette fuori il mangime, scompare, ne mette dell’altro, scompare, e così via”. Anche l’uso del presente è spiazzante: Gelide scene d’inverno è una lastra di cristallo, trasparente in superficie, piena di schegge nei suoi angoli più remoti, e comunque senza alcun filtro o protezione. Come ha ammesso la stessa Ann Beattie nella prefazione: “Avevo sviluppato una passione per le storie che si potevano leggere fra le righe e per le narrazioni che risultavano fuorvianti, a volte per una scelta deliberata dello scrittore, a volte semplicemente perché i personaggi non dicevano la verità”. Gelide scene d’inverno resta complesso per il carattere coraggioso, a tratti anche sperimentale e innovativo, delle scelte di Ann Beattie e più che leggerlo, va studiato. Con un po’ d’attenzione, si capirà che è molto doloroso nel riflettere l’amarezza di un’era, in fondo riassunta in una battuta di Charles: “Certo che mi sento solo. Perché continui a ricordarmelo?” La domanda, nel gioco di specchi delle Gelide scene d’inverno, sembra persino rivolta ad Ann Beattie e la risposta, visto che tutti stanno aspettando il nuovo album di Dylan, rimane abbandonata nel vento. 

giovedì 1 settembre 2016

Mike Davis

Un personaggio descritto nelle note all’inizio della Breve storia dell’autobomba è esemplare per comprendere l’evoluzione di un’arma “di una crudeltà e di una ferocia senza precedenti”. Si tratta di Gundar Yitzhaki, ritenuto l’inventore delle bombe a orologeria e rimasto a lungo un anonimo e spietato artificiere. Facendosi esplodere per errore, nel 1939, ai soldati britannici che lo trovarono dilaniato da un suo stesso ordigno, rivelò così la propria identità: “Il mio nome è morte”. C’è tutta la Breve storia dell’autobomba in quelle ultime parole a piè di pagina. Si tratta di “un’arma universale di distruzione di massa”, la peggiore e la più terribile, la cui diffusione si è propagata come un virus malefico e le cui “conseguenze” esulano di gran lunga gli aspetti bellici. La puntualissima e sintetica ricostruzione di Mike Davis, che parte dall’attentato a Wall Street dell’anarchico italiano Mario Buda nel 1920 e arriva a oggi, è fluida, con il tono avvincente di un romanzo e insieme una serie di valutazioni che spiegano in modo efficace l’intrinseca essenza di quel “manifesto scritto con il sangue degli altri”. La definizione del regista Régis Debray è indispensabile per leggere oltre i risultati devastanti e tragici dell’autobomba. Da un punto di vista strategico, secondo Charles Krauthammer è “il nucleare della guerriglia urbana” e il contesto, o il teatro, per usare un termine più tecnico, porta all’inevitabile conclusione che il suo utilizzo sia “moralmente e tatticamente impermeabile”. Il “sabotaggio urbano” non distingue tra vittime civili e militari, anzi: nel corso della Breve storia dell’autobomba è evidente che gli attentati, le stragi, il terrore sono insieme la causa e l’effetto, l’ordine e il caos, l’inizio e la fine. Come scrive con notevole lucidità Mike Davis, i promotori delle autobombe danno “l’impressione di essere guidati simultaneamente da una disperazione apocalittica e da una speranza utopica”. Questo vale a tutte le latitudini e longitudini, con un’accelerazione preoccupante sul finire del secolo breve perché “gli attacchi dinamitardi degli anni novanta furono una sorta di processo darwiniano che accelerò l’evoluzione dell’autobomba come motore di panico urbano. Il principio era piuttosto semplice: se le esplosioni sono promiscue, e coinvolgono anche i soft targets, porteranno sicuramente a scoprire nuove zone di vulnerabilità. Il nichilismo, se sistematico, funziona sempre”. Su questo non c’è esitazione, sui risultati storici, l’analisi andrebbe ampliata e rivista. Milt Bearden la riassume in “due amare lezioni che non bisogna dimenticare: prima di tutto nessuna nazione che ha lanciato un’offensiva contro una nazione sovrana ha mai vinto; in secondo luogo, ogni rivolta basata sul nazionalismo contro un’occupazione straniera ha sempre la meglio”. Ci sono molte altre implicazioni da valutare perché poi bisogna vedere come “la forma segue la paura”, perché la Breve storia dell’autobomba rivela “una corsia privilegiata per implementare sistemi di sorveglianza orwelliani e usurpare le libertà civili dei cittadini” ed è, nell’insieme, una lettura (necessaria) che non lascia molta speranza per il genere umano.