giovedì 23 ottobre 2014

Wallace Fowlie

Wallace Fowlie, docente universitario che ha intrattenuto rapporti e corrispondenze con Henry Miller, Jean Cocteau, René Char, André Gide e Anaïs Nin, quando ha cominciato ad accostare Jim Morrison a Rimbaud ha avuto l’umiltà di dire: “Sono felice di avere l’opportunità di aggiungere qualcosa alla vostra conoscenza di un grande poeata e cantante”. Il proposito di Wallace Fowlie, all’inizio delle conferenze e degli incontri le cui cronache sono poi confluite in Rimbaud e Jim Morrison, era altrettanto semplice e plateale: “Parlerò dei vagabondaggi di due poeti, della poesia, della musica e degli antichi miti che i poeti incarnano”. E’ proprio per quello che Rimbaud e Jim Morrison si pone in termini molto creativi sia nei confronti della poesia del primo che del rock’n’roll del secondo e non ha esitazioni a individuare quelle sottili, persistenti radici che nei secoli e nella storia hanno identificato “il poeta come ribelle”. E’ la definizione contenuta nel sottotitolo di Rimbaud e Jim Morrison ed è già molto espressiva nel delineare quelli che sono i tratti salienti del volto che Wallace Fowlie ottiene sovrapponendo il ritratto di Jim Morrison a quello di Rimbaud. Il legame, così come lo legge Wallace Fowlie, va ben oltre l’identificazione e la passione di Jim Morrison per Rimbaud, che Albert Camus definiva “il nostro più grande poeta della ribellione”. E’ la somma che va a identificare uno, due ribelli “contro i valori che normalmente ci preparano alla vita”. La differenza è nell’avverbio perché “il giovane ribelle vive in un mondo a parte” e se lo deve creare da solo, contro tutti. Così è stato per Rimbaud, così per Jim Morrison e i passaggi, attraverso la densa elaborazione di Wallace Fowlie arrivano infine a definire “il ribelle come artista”, sempre alla ricerca di una felicità sfuggente. Rimbaud e Jim Morrison non è soltanto un saggio, un’analisi letteraria e poetica sui legami tra due grandi ribelli, ognuno per il proprio tempo, ma anche la storia di uno studioso che ha varcato la soglia e ha attraversato la vasta terra di nessuno tra l’accademia e il rock’n’roll. Alcuni elementi sono andati via via aggiornandosi nelle ricerche successive, nelle biografie e nei documentari, ma la qualità dell’impianto dell’analisi di Wallace Fowlie rimane inalterata nella sua originalità e nella sua indipendenza dai fanatismi del rock’n’roll così come dalle regole dell’università. Wallace Fowlie evidenzia, anche sgusciando via dai panni del saggio e del professore, quella “mixed up confusion”, per dirla con un altro assiduo lettore di Rimbaud (Dylan) che comprende Jack Kerouac e il resto della Beat Generation, i Beatles e William Blake, il Living Theater e Walt Whitman ovvero quella miscela instabile e incandescente che è alla base di tutti i songwriting del rock’n’roll. Rimbaud e Jim Morrison la condensa, elaborando ogni riflessione possibile, dalle visioni di Rimbaud alle canzoni dei Doors. Nel dubbio, chiedere conferma a Patti Smith che, tra Rimbaud e Jim Morrison, si è inventata tutta una vita.

martedì 21 ottobre 2014

Lewis Shiner

Il circondario delle Desolate città del cuore è un ambiente molto suggestivo perché è un romanzo hendrixiano, avvolto in una nebbia magica e psichedelica,  ma nello stesso tempo è anche incollato a particolari molto realistici. I riti ancestrali e tribali, i viaggi archeologici e i trip allucinogeni si specchiano e si scontrano con le vicende della guerriglia messicana e l’arrivo dei mercenari americani, che somigliano parecchio ai contras in azione in quegli anni. Siamo nel 1986, in piena era Reagan e nella giungla messicana in mezzo a una guerra dai contorni indefiniti perché “con i fucili tutte le idee sono uguali”. Le due forme di narrazione adottate da Lewis Shiner, quella più visionaria e onirica e quella più attinente alla cronaca, si accavallano seguendo un andamento sinusoidale. Le Desolate città del cuore prendono forma così, con il sovrapporsi di diversi tempi e realtà, il formarsi di strati che scivolano uno sopra l’altro si intravede nel racconto di Lewis Shiner, ma se si percepisce il movimento di un terremoto (e qui ce ne sono dall’inizio alla fine) non è detto che sia chiaro il disegno generale o la geografia in particolare. L’incastro triangolare tra Thomas e Eddie Yates e Lindsey, i tre protagonisti, non è ben focalizzato ed è evidente, se persino Lewis Shiner si sente in dovere di precisare che “c’era molta storia tra loro, molta tensione, c’erano molte possibilità”. Forse troppe: dei fratelli Yates, Thomas, è quello più solido, esperto, conoscitore della civiltà maya, mentre Eddie, il chitarrista scapestrato con il pallino delle esplorazioni caleidoscopiche è sempre in cerca di guai. Le ricerche del primo si scontrano con i viaggi del secondo e con il carattere volubile di Lindsey. Tutti e tre poi si ritrovano nel gorgo confuso degli eventi, celebrazioni mistiche e feroci combattimenti. Quasi a bilanciare l’eccesso di movimento, per il corollario ai personaggi principali Lewis Shiner attinge ai cliché e quindi c’è il cinico ufficiale americano, (Marsalis), l’antieroe con la sua scorta di dignità, (Oscar, il pilota dell’elicottero), la ribelle fino alla morte (Carla), per non dire poi dei maya che, insieme a Hendrix, contribuiscono a spostare i cardini delle porte della percezione. Il legame hendrixiano con la fantascienza è noto: Lewis Shiner lo espande, aggiungendogli una punta di esotica avventura e una diversione politica che, tra le righe, sembra essere il segnale più convinto. L’indeterminatezza dipende dal fatto che Desolate città del cuore, pur tenendo conto di alcune incoerenze e prendendo atto che non ha particolari ambizioni stilistiche, è un piacevole racconto che si sporge quel tanto che basta nel fantastico ma, nella sua essenza piuttosto rocambolesca, pare rimanere indefinito. Come se Lewis Shiner, a furia di aggiungere ingredienti su ingredienti, e tutti piuttosto saporiti, alla fine si sia lasciato prendere la mano, rimanendo imprigionato, come i suoi personaggi, nell’intricata mappa delle Desolate città del cuore.

lunedì 13 ottobre 2014

Arthur Hoyle

In una delle appendici della sua documentatissima biografia, Arthur Hoyle elenca un bel numero di università americane a cui ha scritto per capire se Henry Miller è ancora consigliato, letto, studiato, adottato. Le risposte sono state limitate, come se l’ostracismo nei suoi confronti si fosse soltanto evoluto in una forma di indifferenza, più subdola ed elaborata, perché non consente il ricorso alla corte suprema. L’unico a tentare un’analisi e insieme un riconoscimento è stato Tobias Wolff: “Miller ha avuto in un influsso così grande che è quasi impensabile che i suoi libri non vengano insegnati, ma la realtà è che purtroppo credo sia così, almeno per quanto ne so qui a Stanford. Forse non è poi una cosa tanto negativa: scoprire Miller è scoprirsi in preda alla disubbidienza, alla sovversione, alla franchezza sfacciata e irrispettosa e alla comicità rivoluzionaria. E’ possibile coltivare questi sentimenti con il beneplacito delle sobrie autorità istituzionali? Non sarebbe una specie di antisovversione? E’ solo un’idea”. I motivi dell’esclusione li raduna lo stesso Arthur Hoyle e sono già una parte pesante della sua storia: “Miller criticò con veemenza l’America e ne ridicolizzò i costumi sessuali, ma lo fece dalla posizione di un uomo profondamente innamorato dell’idea di America, il quale sentiva che tale idea, incarnata in Whitman, fosse stata tradita dagli imperanti interessi politici ed economici. L’America ha reagito sulla difensiva e continua a farlo; se non ti piace il messaggio, distruggi il messaggero”. Il suo ritratto è molto efficace proprio perché ripropone legami e intersezioni letterarie dell’epoca attraversata da Henry Miller, dalle sue fortune critiche ai viaggi, non esclusi tutti gli aspetti polemici, sia nel contesto europeo, ovvero parigino, sia in quello americano, con particolare riguardo alla vita di Big Sur. La ricchezza e la varietà dei dettagli, i continui richiami alla voce di Henry Miller, l’attenzione alla scrittura, allo stile e, molto meno (vale a dire lo stretto necessario), agli aspetti personali e alle sfumature più pruriginose, rendono la biografia scorrevole e coerente con la realtà della sua esistenza, compressa nell’idea che “l’arte di vivere implica un atto di creazione”. I matrimoni, le difficoltà economiche, la lunga battaglia contro la censura (“Ho la sensazione che nulla verrebbe considerato osceno se gli uomini vivessero fino in fondo i loro desideri più segreti”), la sua natura graffiante (“Che paese meraviglioso l’America. Ti fotte a ogni passo”) e la ricostruzione di Arthur Hoyle combaciano con l’intimo dettato di Henry Miller: “L’intera mia vita si spiega e allunga in una mattina non rotta né infranta. Scrivo dal nulla ogni giorno. Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io, tra le costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e plasmare nuovi mondi”. Una biografia adatta per conoscerlo e per conoscerlo meglio, per leggerlo e per rileggerlo perché, come diceva Lawrence Durrell, “quello che ci offre è una conquista indiretta, trovare noi stessi tra le sue pagine”.

mercoledì 8 ottobre 2014

Elizabeth Bishop

Frutto dell’osservazione e dell’ossessione per i minuscoli dettagli della vita quotidiana le poesie di Miracolo a colazione interpretano un’attitudine che ha espliciti riferimenti nella pittura di Seurat o nelle visioni di Blake. E’ quella che Elizabeth Bishop chiama una “concentrazione perfettamente inutile, dimentica di sé”, capace di incorniciare nei versi frammenti di dialogo, schegge di percezione, scorci di paesaggio tradotti in elementi di linguaggio caratteristici e riconoscibili. La lettura di un refuso su quotidian è ispirazione più che abbondante per L’Uomo-Falena e le basta aprire gli occhi per raccontare l’alba e il risveglio in Anafora: “Con quante cerimonie il giorno ha inizio, con gli uccelli, le campane e le sirene di una fabbrica;  i nostri occhi si aprono su cieli d’oro bianco, su muri così fulgidi che ci chiediamo per un attimo: da dove viene l’energia, la musica? Per quale ineffabile creatura sfuggitaci era destinato il giorno? Ed ecco che appare per assumere natura terrena là per là, cadendo preda di lunghi intrighi, acquistando memoria e una mortale mortale spossatezza”. Pur avendo una particolare grazia nel disporre le parole, con un gusto molto sensibile per le immagini, Elizabeth Bishop lascia spesso la porta aperta a squarci onirici che irrompono sulle sue istantanee domestiche, quasi inoffensive, spezzandone la sequenza e così creando un ritmo stravagante, fatto di stop and go, di rapide interruzioni, svolte, repentini cambi di direzione, fino a “non sentire null’altro che un treno che passa, deve passare, come la tensione; nulla”. A volte criptica ed enigmatica, a tratti incantevole e gentile, la sua poesia rimane sempre scomoda perché c’è un altrove costante in Miracolo a colazione che diventa un orizzonte percepibile attraverso L’iceberg immaginario, (“Meglio per noi l’iceberg della nave, pur segnando il termine del viaggio”), Ai magazzini del pesce, (“E’ come immaginiamo il sapere: oscuro, salso, limpido, animato, da attingere in tutta libertà alla dura e fredda bocca del mondo, le mammelle di rocca a cui ricorrere, mai a corto, e storico qual è il nostro sapere non fa che scorrere e non è più scorto”), Cap Breton (“La nebbia rarefatta segue le bianche mutazioni del suo sogno”) e la sezione conclusiva di Quattro poesie, dove Elizabeth Bishop scrive che “Il mondo è una foschia. E poi il mondo è minuto, vasto e limpido. E alta o bassa la marea”. Le descrizioni dei paesaggi marini sono le componenti di Miracolo a colazione che ritornano con maggiore continuità e intensità. Elizabeth Bishop le mette spesso in risalto, attingendo dalla sua tormentata biografia, trascorsa tra le coste del Brasile e le baie atlantiche del New England, e raccogliendo e disponendo le parole come se fossero conchiglie sulla spiaggia, una domenica mattina. L’arte è sempre quella, dice in un’altra poesia, ed “è evidente: l’arte di perdere fin troppo presto s’impara, e sembra (scrivilo!) un disastro”. L’apparenza e la dolcezza delle sfumature non inganna: Miracolo a colazione è una burrasca che ondeggia sorniona, ma alla fine giunge a destinazione con tutta la sua forza.

venerdì 3 ottobre 2014

Tobias Wolff

A tutti gli effetti, La nostra storia comincia è un’antologia che copre gran parte della narrativa di Tobias Wolff, sia in termini temporali, visto che attraversa trent’anni della sua storia, sia rispetto alla gamma specifica dei temi dei racconti. Si va dal breve piccolo ritratto di vita suburbana in La porta accanto, un concentrato urticante di Richard Yates, John Cheever e Raymond Carver, fino agli spettri delle guerre americane in Usignolo e Gioia del soldato, dove ritorna l’ombra del Vietnam, già indagata da Tobias Wolff con Nell’esercito del faraone (un capolavoro). Il vero leitmotiv che lega la varietà di La nostra storia comincia è la scrittura, nitida, precisa, toccante. Nell’arco di poche pagine Tobias Wolff costruisce ambiente, personaggi, dialoghi (sempre notevoli), dettagli. Il ritmo è costante, altissimo e teso grazie alle triangolazioni matematiche che imprigionano i personaggi. In Cacciatori nella neve i tre protagonisti sono già in conflitto alla partenza della loro battuta di caccia e le condizioni climatiche estreme ne esasperano le tensioni. Un racconto crudo e abbagliante, come i riflessi sulla neve che li circonda (anche se altrove Tobias Wolff scrive che “la neve è sopravvalutata”). La stessa definizione geometrica è altrettanto chiara in Il fratello ricco e in Leviatano, perché, nonostante si tratti di una doppia coppia, i protagonisti alla fine sono un trio. Un’ossessione ribadita con Quella stanza, che comincia con quattro personaggi e finisce con tre, di cui uno assente fino al colpo di scena, comunque limitato “sorridere e sperare di voltare pagina”. Anche Il beneficio del dubbio, tra i racconti più recenti, è ancora una triangolazione (tra Mallon, Kadare e Miri, un borseggiatore) ambientata a Roma e così Il suo cane dove, caso piuttosto insolito, uno dei vertici è un animale con i suoi pensieri. Viene lasciato molto in sospeso nei racconti di Tobias Wolff che detta il necessario, lo strettamente indispensabile a concludere la narrazione, a identificare un tratto ben delimitato di emozioni e situazioni. La nostra storia comincia è pieno di “gente che non vorresti incontrare fuori dalle pagine di un libro”, personaggi sempre in bilico, traballanti nel loro precario equilibrio perché “sappiamo amare, sí, ma ce ne dimentichiamo di continuo”.  Sono coppie separate, in crisi, insicure, tradimenti, deviazioni di percorso, legami che si sfaldano perché “la mappa non rispecchiava la geografia, poco da fare”. Anche nei racconti più rarefatti, come Bacio vero, Tobias Wolff mostra di saper modellare la vita attraverso la letteratura (o viceversa) senza manipolare troppo quel fondo di realtà e limitandosi a seguirne l’evoluzione, che in fondo a La nostra storia comincia ha descritto così: “La verità è che non ho mai considerato sacri i miei racconti. Nella misura in cui restano vivi ai miei occhi, resta inalterato anche il mio interesse a esprimere al meglio quella vita. Una pratica che risponde ai bisogni di una certa irrequietezza estetica, ma allo stesso tempo una forma di cortesia, mi pare”. Una narratore di gran classe.