giovedì 28 settembre 2023

Ron Rash

Proprio come in Un piede in paradiso c’è un’area che sta per sparire, ricoperta da un invaso (“Quella valle non sarà mai abbastanza sepolta per me”). Un segno di continuità ambientale, però siamo nel Tennessee, in un’area oscura e stregata, dove il simbolismo dell’acqua, che scenda dall’alto o emerga dal basso è dominante. La desolazione del prologo, dove viene pescato un teschio da un antico pozzo, con la ruggine che ha corroso tutto, lascia intuire che che in quei luoghi si è consumata più di una tragedia e che La terra d’ombra “è un posto di cui la gente dovrebbe avere paura, non una valle qualsiasi”. Accompagnandoci nel suo interno, Ron Rash orchestra le forme della wilderness, come se fauna e flora parlassero e suggerissero persino il cambio di stagioni, un flusso che diventa palese in un passaggio particolarmente evocativo: “Tutto indicava che sarebbe stato un duro inverno. I nidi degli scoiattoli appesi ai rami bassi e le larve ispide delle falene tigrate e anche il muschio più spesso sui tronchi degli alberi”. Lì vivono i fratelli Hank e Laurel, che cercano di emanciparsi dai limiti congeniti del territorio, della famiglia e della nazione, visto che Hank è un reduce della prima guerra mondiale. Ha perso un braccio in Europa, ma nonostante tutto ha ancora la forza di sperare in un futuro migliore. Lo esprime senza paure: “Sono stufo di dover superare le cose”, sta ricostruendo la fattoria ed è in procinto di sposarsi. Sulla sua valle pesa l’ombra delle superstizioni che “sono il prodotto di coincidenze o ignoranza” e anche uno strumento per mantenere le distanze dalla città. Le asperità della natura e gli echi della guerra rimbalzano sopra le loro teste finché alla porta non si presenta uno sconosciuto, che è muto e suona il flauto. Si chiama Walt ed è un mistero, ma nell’incrocio con Hank e Laurel, La terra d’ombra viene rischiarata dalla sua presenza. Diventa un valido aiuto per i lavori in campagna, compresa la realizzazione di un pozzo, raccontata in una descrizione epica, e sviluppa una delicata love story con Laurel. Il fatto che abbia un talento per la musica è uno dei tanti tasselli che Ron Rash dispone nel romanzo, ma che in prima istanza non rappresentano un insieme, che arriverà a vedersi soltanto nello sviluppo finale. Le canzoni cantate, Shady Grove e The False Knight, rappresentano delle chiare indicazioni, così come il momento conviviale di festa, condito dall’alcol illegale, sarà l’occasione per incrinare il fragile equilibrio. Senza trucchi o superflui meccanismi narrativi, ma con una voce diretta, densa e precisa Ron Rash focalizza alla perfezione ogni singolo protagonista nonché la spaccatura tra i cittadini nel sostegno alla guerra che implica una svolta nel corso della storia con l’invenzione del nemico a tutti i costi e la coltivazione della paranoia come sottoprodotti dello sforzo bellico. I richiami all’attualità che La terra d’ombra impone sono dovuti perché, come si legge nell’introduzione, “il nostro mondo ha abbondanti scorte di realtà” e la scrittura di Ron Rash, avvolge come un sudario, “senza compromessi” come ha detto Colum McCann e senza via di scampo, lasciando intravedere nei destini di Hank, Laurel e Walt un cupo presagio per tutti. Notevole.

Barry Gifford, Lawrence Lee

Nell’introduzione al Jack’s Book, Barry Gifford declama: “L’America fa delle richieste bizzarre ai suoi scrittori di narrativa. L’arte da sola non basta. Ci aspettiamo che ci offrano modelli sociali: è un’aspettativa così radicata da farci spesso giudicare le loro vite invece delle loro opere. Se dichiarano di appartenere a un movimento formale oppure vengono raggruppati in una generazione, noi siamo contenti perché questo semplifica l’uso che intendiamo farne. Se ci fanno il favore di offrirci un manifesto, questo viene applicato con la forza di un contratto”. È un bel punto della situazione: niente e nessuno come Kerouac si può riconoscere di più in questo processo e la sua personalità viene ricomposta attraverso “una grande conversazione transcontinentale, completa di interruzioni, contraddizioni, vecchi rancori e ricordi vividi che nell’insieme offrano una lettura dell’uomo attraverso le persone con le quali ha scelto di popolare le sue opere”. Kerouac è “un genio del ricordo”, capace di trascrivere ogni singolo istante e di adeguare di volta in volta la realtà ai suoi sforzi narrativi. John Clellon Holmes ricorda che “era affascinato dall’intonaco che cadeva a pezzi, dalle insegne al neon che sfrigolavano e dai derelitti che russavano nei portoni” e questa prospettiva verso i bassifondi e i sotterranei ha portato Gary Snyder a sostenere che “Jack era, in un certo senso, un mitografo dell’America del ventesimo secolo”. Assecondando le voci di quella che è, a tutti gli effetti, una storia orale, Barry Gifford e Lawrence Lee hanno la premura di sottolineare il valore letterario di Kerouac, ma ricordano anche che “l’uomo ha avuto la capacità di far muovere gli altri”. Diceva Thomas McGuane: “Kerouac mi ha messo in moto con la mia chiave personale verso l’autostrada”. È così che. attraverso un sincero fantasma il Jack’s Book, spalanca la cornucopia della Beat Generation: il racconto è avvolgente e, pur mantenendosi saldamente attaccato ai dati vitali di Kerouac, supera i confini della biografia e si mette in luce come un ritratto polimorfo della Beat Generation, nell’essenza dei suoi inizi, e nei momenti più gloriosi e drammatici. Nella ricostruzione del Jack’s Book non c’è glorificazione, agiografia, trionfalismo. Si percepisce il senso dell’avventura, o come diceva Allen Ginsberg: “l’idea di un cambiamento storico apocalittico”, che condivide l’omicidio di David Kammerer come la scintilla cupa che accende una luce sulla Beat Generation. Le mutazioni successive, rapide, spumeggianti, non indolori di quell’oggetto non identificato le riassume ancora Gary Snyder: “In qualche modo la Beat Generation è un insieme di tutti i modelli e i miti di libertà disponibili in America che erano esistiti fino a quel momento, vale a dire: Whitman, John Muir, Thoreau e il vagabondo americano. Li mettemmo insieme e li allargammo e diventò un motivo letterario, e poi vi aggiungemmo un po’ di buddismo”. Allen Ginsberg ricorda che erano tutti “vagabondi notturni intelligenti” e quello che si percepisce nello svolgersi del Jack’s Book è che i padri fondatori della Beat Generation erano, come esseri umani, dei lunatici outsider, e, se non fosse per la scrittura (a cui erano devoti, e non tutti) sarebbero stati soltanto dei disperati, Neal Cassady su tutti. Avidi di vita, alla spasmodica ricerca di quello che John Clellon Holmes chiamava “il fine ultimo delle cose”, gli amici si dimostrarono impotenti di fronte alla decadenza di Jack Kerouac, lasciato solo con tutto un mondo dall’altra parte del confine. Il crepuscolo è rappresentato con l’angoscia di un finale triste e solitario, ovvero “la storia di un uomo incapace di affrontare il proprio successo, incapace di mettere su una famiglia propria, di trovare pace, di prendersi cura della propria arte”. Non è stato l’unico e come dice Luanne Anderson: “Era stato un viaggio così felice, ma naturalmente nessuno aveva pensato al domani”. Il coro non potrebbe essere più unanime, per quanto, come diceva Allen Ginsberg: “Tutti mentono e ne esce fuori la verità”. Il senso raccolto da Barry Gifford e Lawrence Lee potrebbe essere proprio quello e Jack’s Book è un bagaglio prezioso che serve per partire verso innumerevoli direzioni alla scoperta e riscoperta di scrittori, letture, fughe e di un assoluto senso di libertà, ormai andato perduto.

martedì 26 settembre 2023

Robert Frost

L’abbondanza della poesia di Robert Frost nasce da una continua serie di contrasti che trovano una loro sorprendente armonica. Si tratta proprio di Fuoco e ghiaccio: “C’è chi dice che il mondo finirà con fuoco e chi col ghiaccio. Per ciò che ho assaporato io del desiderio sto con chi tiene per il fuoco. Ma dovesse perire per due volte so di saper dell’odio a sufficienza da dire che a distruggere anche il ghiaccio va bene e basterebbe”. Una contrapposizione che si avvale di un’architettura fluttuante: il soggetto enigmatico e indefinito, il suono delle parole che diventano immagini e da lì sequenze ritmiche rilevanti come se effettivamente la poesia fosse un battito del cuore che “oscura la mente”, una sorta di estasi che cresce di verso in verso nella coabitazione con la pioggia, le stelle (dove non vive la razza umana), il vento, pascoli e foreste, notti invernali, attese e crepuscoli, sorrisi e sogni. Trovare un paio di leitmotiv attorno ai quali ruota tutta questa monumentale e bellissima antologia di Robert Frost non è difficile. Il bosco è il luogo prediletto, come se fosse un santuario laico e prodigioso. Lo dice senza esitazioni in Riluttanza: “In giro per i campi e per i boschi e oltre le mura sono andato; ho salito i colli con vista, guardato il mondo, e son disceso; sono tornato per la via maestra ed ecco, è finita”. Lo ripete in Sosta vicino a un bosco in una sera di neve con alcuni dei suoi versi più famosi e citati: “Buio e profondo è il bosco, bello da morire, ma io ho promesse da mantenere e miglia da fare prima di dormire e miglia da fare prima di dormire”. Sono gli alberi che “danno da pensare” e la poesia di Robert Frost è una specie di fotosintesi clorofilliana del linguaggio: uno strato è evidente, semplice, lineare, come la chioma di un ciliegio scossa dalla brezza. Nella sua formazione è invece una continua sfida che va verso l’alto, il basso, il buio e la luce, comunque in cerca di un confronto, di una differenza e, nello stesso tempo, di un nesso. Quale magia sottintende la poesia di Robert Frost va cercato tra “gli interstizi delle cose socchiuse” dove il visibile diventa invisibile, e viceversa, grazie a una selva di parole che si mostrano, si nascondono, fioriscono in continuazione. Come scrive in Il monte: “L’acqua secondo me non cambia mica. Lo sappiamo, noi due, che è calda a confronto col freddo e fredda a confronto col caldo. Ma il bello sta nel modo in cui lo dici”. Se gli alberi delimitano in qualche modo il campo e lo circoscrivono nelle pieghe rurali, lungo “il solco intravisto nell’erba”, come suggerisce in Il casolare nero, è protagonista il movimento, nei versi altrettanto rinomati di La strada non presa (“Due strade divergevano in un bosco e io, io ho preso quella meno battuta e questo ha fatto tutta la differenza”) e in quelli di La catasta di legna: “La vista, linee d’alberi sottili, troppo simili per marcare o dare nome a un posto e dir per certo che ero qui o altrove: ero solo lontano da casa”. È un tragitto singolare, senza tregua, celebrato in Betulle: “Non vorrei che il destino fraintendendomi esaudisca a metà il desiderio e mi strappi via per sempre. La terra è il posto giusto per amare: non so dove sarebbe meglio andare”. La destinazione, pur essendo limitata, contiene tutti gli elementi di un’infinita dicotomia che Robert Frost prova a ricomporre ogni volta, accettandola per gradi: prima considerando che è “quasi meglio la sconfitta, vista per quel che è, delle vittorie del dubbio nella vita con tutto il chiacchiericcio che occorre per capirle” (Una minaccia a vuoto) e poi precisando, in via definitiva, che “amiamo quel che amiamo per ciò che è” (Il rio Hyla). Questo è quanto, poi nell’intervallo tra Fuoco e ghiaccio rimane l’accorato appello in Due vagabondi nella stagione del fango: “Ma si arrenda chi vuole alla scissione, io vivo per unire passione e vocazione come i due occhi che si fondono in una vista unica. Soltanto se amore e bisogno sono tutt’uno e il lavoro mette in gioco l’esistenza si sarà fatto quello che va fatto al cospetto del cielo e del futuro”. È quasi una conclusione filosofica che si adegua alla differenza percepita da Robert Frost tra poesia e politica, ovvero tra sentimento e risentimento, che dovrebbe essere insegnata a scuola, fin dalla prima infanzia.

martedì 19 settembre 2023

Ira B. Nadel

Leonard Cohen che volta le spalle alla telecamera mentre Sonny Rollins suona un assolo in Who By Fire riassume in un’immagine il senso di una vita dedicata alla ricerca della bellezza. Come diceva il collega e mentore di Leonard Cohen, Irving Layton,“il genio sta nel vedere le cose esattamente come stanno”, e per crescere in compagnia Leonard Cohen si è dedicato da García Lorca, Ray Charles e Hank Williams. Seguendo il medesimo istinto la lettura biografica di Ira B. Nadel ripercorre soprattutto le opere e non nasconde i lati più in ombra di Leonard Cohen, anche se cerca di mitigarne gli effetti: l’abuso di droghe, l’evanescenza dei legami sentimentali, la depressione strisciante, i viaggi continui, la vita a Idra, il ritiro zen, i disastri economici, le turbolenze costanti. Lo svolgimento è un po’ meccanico, anche se puntiglioso nel riportare tutti gli anfratti famigliari, le controversie e la personalità combattuta di Leonard Cohen che ammette: “Sono molto più a mio agio con me stesso, anche se a ispirarmi sono sempre conflitti che non so se saprò mai risolvere”. L’elenco delle opere, le canzoni, le poesie, i romanzi, i diari (compresi gli scampoli di un’autobiografia inedita) è funzionale al racconto senza particolari spunti. Sarà per quello che spicca, ancora una volta, la voce di Leonard Cohen che riassume così i suoi tormenti: “Non penso che gli esseri umani siano così unici e distinguibili l’uno dall’altro e che, tra tutti i viventi, esista solo uno speciale e perfetto amante per ogni speciale e perfetta amata così che possano esser premuti e fatti combaciare insieme come pezzi di un puzzle Ogni persona che decidiamo di amare ci conduce su un diverso sentiero dell’amore, ci cambia e noi cambiamo lei mentre ci muoviamo insieme, e l’amore offre una gran varietà di sentieri, come qualsiasi paesaggio”. L’imbarazzo della scelta non dura all’infinito ed è interessante scoprire le considerazioni di un Leonard Cohen ormai diventato molto più saggio: “Strano per me trovarmi del tutto privo di desiderio. Mi costringe a dover ricominciare tutto da capo, a trovare una nuova struttura a cui appoggiarmi. Non avere desideri. È una specie di amnesia. Mi lascia con troppo tempo a disposizione e mi spinge alla metafisica. Non avevo mai pensato che il desiderio fosse così fragile”. Vale la pena districarsi nel vortice delle peripezie esistenziali per tornare alla bellezza della scrittura che per Leonard Cohen si rivela, una volta di più, una forma di autodifesa: “Ognuno ha i suoi guai. Scrivere è la mia occupazione e la uso per curare i miei guai. Quando mi sento soddisfatto dal mio lavoro parlo di vocazione, altrimenti lo chiamo mestiere”. Tra le numerose testimonianze riportate da Ira B. Nadel merita di essere ricordato il parere di Jennifer Warnes, una delle più felici interpreti delle canzoni di Leonard Cohen: “La facilità di linguaggio, la consapevolezza del suo ruolo in ambito culturale e il rispetto verso la tradizione letteraria fanno sì che Leonard, grazie al semplice uso di rime interne o alle qualità eterne del linguaggio, scriva canzoni capaci di catturare l’anima già solo per la struttura dei testi”. Quando tocca a lui sgrovigliare i segreti del songwriting accenna a rivelazioni che restano molto distanti: “Il mio modo di procedere consiste nel denudare una canzone e cercare di capirne il senso durante la scrittura. Ogni canzone comincia con il consueto anelito di liberazione, di salvezza interiore, che è un bel modo di corrodere lo spirito. All’inizio del processo, non è per nulla chiaro di cosa tratti la canzone”. È una percezione che si può adattare a “una vita” consumata dall’arte, in gran parte inafferrabile nei suoi motivi più intimi e profondi. In effetti, Leonard Cohen ha detto: “Non sono mai uscito da me stesso”, e si capiscono così anche le difficoltà dei biografi in cerca della verità.

giovedì 7 settembre 2023

Rick Rubin

La teoria di fondo, ovvero che ognuno di noi è un po’ artista è mutuata direttamente da Andy  Warhol: Rick Rubin ne sposa la filosofia e cerca di tradurla espandendo il concetto in tutte le direzioni, partendo dall’idea che “non c’è niente in arte che tutti non siano in grado di capire”. È la tesi che costituisce la spina dorsale divulgativa dove L’atto creativo, secondo Rick Rubin, trova il terreno per attecchire. Lo sviluppo implica un senso di responsabilità condiviso, che viene declamato subito, a scanso di equivoci: “Come artisti, puntiamo a vivere in modo da vedere lo straordinario che si cela anche nelle cose apparentemente più ordinarie. Poi sfidiamo noi stessi a condividere ciò che vediamo, così da permettere anche ad altri di cogliere un barlume di questa straordinaria bellezza”. Il tono è californiano, mistico e realistico, entusiasta e funzionale nello stesso tempo: le suggestioni riguardano i rapporti del genio con la natura e l’infanzia, il metodo (“La disciplina non è una mancanza di libertà; è una relazione armoniosa con il tempo”) e le sconfitte (“Il fallimento è l’informazione che ti serve per raggiungere il luogo dove sei diretto”), l’estasi e il contesto, le speranze e le implicazioni, i limiti e le possibilità e sono comprensive anche di una discreta moltitudine di luoghi comuni (“L’arte è una circolazione di idee fatte di energia”). Se è per quello, alla generosa prolusione di Rick Rubin è utile fare un po’ la tara: considerandola come una chiacchierata (colta, stravagante, leggera) sul senso dell’arte riesce persino a essere utile e forse è quello l’unico vero obiettivo, per quanto non dichiarato. È un dialogo a tu per tu con il lettore e con il prossimo, potenziale artista: le variabili sono innumerevoli e Rick Rubin cerca di ridurre il potenziale rapporto verso L’atto creativo con una serie di impressioni (lo schema è unico e ribadito ogni volta) probabilmente per semplificare o perché Rick Rubin è un produttore discografico, un ruolo defilato rispetto all’artista vero e proprio, e non uno scrittore, per cui ha comunque l’urgenza di farsi capire. La forma e lo stile risultano quindi piuttosto stringenti, colloquiali, visto che L’atto creativo secondo Rick Rubin è qualcosa di molto libero, che, più di tutto, appartiene in via esclusiva alla sfera individuale. In questa direzione, la formulazione di Rick Rubin è costante e, avviso importante agli addetti ai lavori, non contiene proprio suggerimenti pratici nello specifico, come impostare un session di incisione o come affrontare un contratto. Di più, curiosamente, Rick Rubin non cita tra gli artisti che utilizza come esempio quelli con cui ha lavorato (salvo un breve passaggio per Eminem) sarà per un eccesso di discrezione o per non sviare l’attenzione. Offre invece un vasta gamma di indicazioni generali e particolari sul senso dell’arte e dell’essere artista che riflettono nel complesso l’essenza che L’atto creativo esprime. Le variazioni sul tema toccano un po’ tutta la sfera della percezione, dell’ispirazione, del talento e della sua applicazione. Si tratta di “un modo di percepire. Un esercizio di attenzione. Praticato affinando la nostra sensibilità per riuscire a captare anche le note più sottili. Cercando di capire che cosa ci attrae e che cosa ci respinge. Notando quali sfumature di emozioni sorgono, e dove ci portano”. Alla fine i voli pindarici di Rick Rubin costituiscono una specie di breviario della creatività e va preso per quello che è: se non altro ha il dono del garbo e della spontaneità verso il lettore, senza particolari ambizioni e nessuna  pretenziosità perché “la vera opera dell’artista è un modo di essere nel mondo”. Andy Warhol sarebbe d’accordo.

mercoledì 6 settembre 2023

Michael Punke

“Con ottanta uomini potrei sottomettere l’intera nazione Sioux” sosteneva il capitano dell’esercito americano William J. Fetterman sullo sfondo delle guerre per il territorio, ovvero per la colonizzazione del West. La sua arroganza venne ripagata, ma proprio al contrario: il 21 dicembre 1866, lui e il suo contingente vennero attirati in un agguato orchestrato da Cavallo Pazzo e decimati in una battaglia feroce. Questo l’evento storico su cui Michael Punke ricama Il crinale che è un luogo, prima di tutto, una formazione rocciosa che domina il paesaggio ed è il punto di partenza e d’arrivo di quella che Philipp Meyer chiama “la versione corretta” dei fatti. L’attrito tra verità e memoria consiglia cautela, però è evidente che la struttura su cui poggia Il crinale ha delle solidissime basi. Michael Punke elabora gli elementi storici con molta attenzione, aderendo agli aspetti concreti e documentati con partecipazione e, a tratti, anche con deferenza. Quello che Il crinale può aggiungere è un insieme di prospettive che riportano le cronache dell’epoca all’interno di un quadro più preciso. La rapacità del governo americano, mai scemata e spinta dalla concezione di una nazione continentale e sorretta dalla deviazione filosofica del “destino manifesto”, è raccontata da Michael Punke in un romanzo avvincente che però non perde mai di vista la complessità della situazione geopolitica e umana. Seguendo una bella serie di personaggi, ognuno con la propria sfumatura ben determinata, Michael Punke fa scoprire tutti quei dettagli che costituiscono una sorta di preparazione, da una parte e dall’altra, al grande scontro finale. Un meccanismo classico, dal punto di vista narrativo, che però gli permette di raccontare le debolezze degli uomini, l’alcol di contrabbando, la corruzione nell’esercito, le divisioni e le alleanze tra gli indiani. La devastazione della valle per costruire il forte è una scena che rende vivida la vita che Il crinale sottintende ed è utile il doppio diario di Frances Grummond, un resoconto parallelo per andare a scoprire le difficoltà femminili e le macchinazioni e gli inganni della corsa verso il West. Sul versante opposto, Il crinale scandaglia con proprietà anche la multiforme cultura indiana, concentrandosi in gran parte attorno alla figura di Cavallo Pazzo e alla sua leadership. Ne celebra l’ascesa tra le tribù, che si sviluppa in gran parte dell’azione conclusiva, che ha momenti lirici e atroci nello stesso tempo e lo porta a concludere che “il resto del mondo era così disgregato che ormai non dava più nulla per scontato”. La trama è lineare, anche se sottoposta al cambio dei punti di vista, con scansioni abbastanza regolari, e la lezione di Larry McMurtry, ricordato anche nell’appendice, è stata raccolta e per certi versi semplificata, ma la scrittura non è meno coinvolgente, perché offre l’opportunità ai protagonisti di far sentire la propria voce, come farà il trombettiere Metzger quando dice: “Ne aveva le tasche piene di combattere gli indiani, anzi, non aveva più voglia di combattere nessuno. Quando ci pensava, si stupiva di essere riuscito a restare vivo così a lungo. Da adesso non avrebbe più lasciato queste cose al fato. Era liberatorio immaginare una vita nuova e diversa”. Per completare il quadro, che rende Il crinale appassionante come un western di gran classe e ricco quanto un’enciclopedia, va ricordato che, rispetto alla battaglia di Fetterman, c’era stato un precedente, nello spietato massacro di Sand Creek, e ci sarà un seguito a Little Bighorn dove il generale Custer e la sua cavalleria andranno incontro alla disfatta e alla morte. Cavallo Pazzo sarà ancora il protagonista, ma da lì in poi la sorte dell’America e degli indiani sarà segnata dall’orribile realtà del loro genocidio.