giovedì 31 ottobre 2013

David Foster Wallace

Tra i primissimi tentativi di comprendere la cultura hip-hop e in particolare il rap, che ne è la voce, l’excursus di David Foster Wallace e Mark Costello si basava in modo esclusivo, o quasi, sulla spinta della curiosità, senza appoggiarsi su punti di vista determinati o affrettate conclusioni. Essendo un tema delicato e complesso, DFW si è affidato all’intuito e alla percezione, corroborate da un sublime bagaglio di conoscenze e di parole che gli faceva sostenere in prima battuta: “E’ a livello di un bregma fondamentale della cultura pop, dove certe dicotomie come quelle fra arte e politica, mezzo di comunicazione e messaggio, centro e periferia, si congiungono e devono coabitare, che si incaglia ogni tentativo di giudizio estetico obiettivo sul rap compiuto da un ingranaggio del sistema bianco, anche col massimo entusiasmo. Dato che il rap si autodefinisce creato da e per un gruppo che noi, in quantro cultura bianca postreaganiana, consideriamo altro, è un tipo di musica da cui tendiamo automaticamente a isolare ed eliminare alcune fastidiose complessità, come l’unicità delle esperienze, dei gusti, delle convinzioni, dei modelli, dei valori e degli obiettivi di ogni singolo artista, allo scopo di raggiungere la definizione ampia e superficiale che ci viene imposta dalla rubrica voce rappresentativa di una cultura aliena e minacciosa”. Più che illustrare il rap ai bianchi, David Foster Wallace cerca di spiegarselo a se stesso e lo fa vagando tra istantanee sociologiche (“Il rap è un distillato unico dell’energia e dell’orrore della realtà contemporanea urbana degli Stati Uniti”) e lampi di filosofia, soprattutto quando enuncia che quella del rap è “una visione profondamente cupa: un presente in forma di distopia da cui non può emergere alcun futuro, neppure costruito dalla fantasia”. Opinioni e posizioni discutibili e, potendo, aggiornabili, anche in virtù del fatto che Il rap spiegato ai bianchi risale al 1990, ovvero all’inizio di tutto. Resta la sensazione che DFW abbia sfiorato le estremità più importanti del rap e del suo senso ultimo. Da una parte, in particolare quella bianca, c’è l’eterno fascino dell’épater le bourgeois, promuovendo in misura eguale quell’ingenua e mitica caccia alla purezza che da sempre alimenta l’immaginario pop e altrettanta, complementare inquietudine. Dall’altra c’è la comprensione, molto precisa, dei meccanismi linguistici del rap che David Foster Wallace sintetizzava così in una brillante definizione: “La cazzuta genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del suo mondo, tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violento nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita, ha trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte d’avanguardia. Va persa la consolazione, ma si guadagna un nuovo tipo di mimesi, ruvida e spietata: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del cesso”. Lungimirante.

martedì 29 ottobre 2013

William Burroughs

Forse il titolo può indurre in inganno perché La scrittura creativa di William Burroughs non è quella strana materia che provano a insegnare in tanti corsi e in tante scuole dalle fondamenta tutto sommato discutibili. Questa succinta raccolta di saggi, per quanto ristretta e striminzita, colleziona alcuni dei passaggi principali e insindacabili delle visioni di William Burroughs che, proprio come prima e sacrosanta discriminante, dichiara che “prima di tutto, ho riconosciuto lo scrivere come un’operazione magica” e di conseguenza “nel mondo della magia niente accade a meno che qualcuno voglia che accada, usi la volontà per farlo accadere, e ci sono certe formule magiche per incanalare e dirigere la volontà”. Burroughs non procede in modo lineare perché “la coscienza è cut-up; la vita è un cut-up” e le sue analisi sul linguaggio, sulle parole di cui siamo composti, si sovrappongono all’idea, al modello, alla silhouette della figura dello scrittore, esseri che “cercano di creare un universo in cui hanno vissuto e dove dovrebbero vivere”. La distinzione, che è molto chiara e nitida, ritorna con una frequenza sinusoidale nelle tesi e nelle ipotesi che William Burroughs dipana nei suoi saggi: se “l’immagine e la parola sono gli strumenti del controllo”, ed è difficile sostenere una teoria differente, se “la parola scritta è un’immagine” e se “piantano spilli nell’immagine di qualcuno e poi mostrano quell’immagine a milioni di persone”, La scrittura creativa è una forma di resistenza, una mappa per aprirsi vie di fuga, un manuale di sopravvivenza, e nemmeno in senso tanto metaforico. Lo era già quando questi articoli uscirono per la prima volta, tra il 1975 e il 1977, vista la conclusione, abbastanza esplicita, da cui Burroughs partiva e a cui di conseguenza tornava con convinzione: “Più la gente sa, meglio è. E’ venuto il tempo di sbattere tutti questi segreti sul tavolo. Armi segrete, dottrine segrete, tutto. Sono meno pericolose nelle mani del pubblico che nelle mani dei servizi segreti e dei militari. La conoscenza appartiene a chi la sa usare”. Chissà cosa avrebbe detto e/o scritto adesso: Burroughs sosteneva che “ogni estensione tecnologica esteriorizzata produce un effetto di ambientazione collettiva” e non solo aveva intuito bene l’infinito guado in cui sarebbero finite le parole e le immagini, aveva capito anche che “per uscire da questa impasse sarebbe auspicabile che sperimentassimo dei metodi di comunicazione alternativa”. Ecco a cosa serve davvero La scrittura creativa, intesa come questa piccola  antologia di riflessioni di un genio e come espressione felice per identificare un’arte di cui William Burroughs ha saputo cogliere e rendere lo spirito rivoluzionario avendo compreso che “ciascuno scrittore si crea il suo universo. Quando comprate un libro voi comprate un biglietto per viaggiare nel tempo dello scrittore”. Neanche a dirlo, il ticket vale per la sola andata, che magari è basta e avanza, ma con un po’ di cut-up le destinazioni diventano infinite.

giovedì 24 ottobre 2013

Thomas Pynchon

E’ pop, è acido, è surf. Spuntano come funghi i Beach Boys, i Byrds di Eight Mile High, Roy Orbison e, va da sé, l’alter ego rock’n’roll di Thomas Pynchon, ovvero Frank Zappa. E’ Vineland tinto di noir, se fosse possibile, o forse è solo un’alternate take di Vineland frutto di uno strano e denso trip. E’ Raymond Chandler con la colonna sonora dei Grateful Dead e, guarda un po’, Doc ha lo stesso nom de plume di Hunter S. Thompson e si muove, parla e ha qualche dubbio proprio come lui visto che “ormai era quasi convinto che quell’epoca di temerarietà fosse conclusa; ma ora ricominciava a sentirsi nervoso”. Doc è, o dovrebbe essere, un investigatore privato dal profilo hippie e il caso che deve affrontare è una bolla che si espande, gonfiandosi di vite e di volti e di storie. I personaggi non finiscono mai e ogni incontro è una porta che si apre su altri mondi, su altri tempi, su altri livelli. L’assetto di Vizio di forma è psichedelico, prevede il continuo movimento, non solo per assecondare le rocambolesche peripezie di Doc e il suo girovagare sulla costa californiana e attorno a Los Angeles. A ogni incrocio, a ogni appuntamento si apre un nuovo e ulteriore girone: comincia come una diatriba nata nel contesto di una relazione extraconiugale, poi si evolve in una truffa con tanto di raggiro psichiatrico (Thomas Pynchon non si fa mancare niente), poi si incunea in un conflitto per una partita di droga (ce n’è in abbondanza) e si gonfia fino all’inevitabile complotto ordito da frammenti instabili e out of control del governo e della repubblica. L’aura di Charles Manson si aggira onnipresente e quando Vizio di forma comincia a ingranare marce più veloci, i Doors, Jim Morrison in particolare, appaiono più virulenti delle altre rock’n’roll band citate a piene mani. E’ giusto così perché rappresentano meglio di chiunque altro il lato oscuro di un’era ed è opinione di Thomas Pynchon che “se era destino che quel sogno prerivoluzionario finisse e che il mondo senza fede, motivato solo dal denaro, riaffermasse il suo dominio su tutte le vite che si sentiva in diritto di toccare, carezzare e molestare, ciò sarebbe successo per opera di agenti come questi, zelanti e silenziosi, impegnati a fare il lavoro sporco”. Il primo in cima alla lista era Ronald Reagan che, da governatore della California e già protagonista al centro di una macchina politica ben avviata, studiava operazioni di controllo militare delle cittadine in caso di rivolta, altrimenti chiamate golpe. Questa ormai è storia e il complotto c’era davvero, non era un’invenzione letteraria perché come diceva Doc o altrimenti Xqq (in un altro trip a cavallo delle civiltà perdute di Lemuria e di Atlantide): “Saranno contenti solo quando ci avranno tirato su tutti con la rete a strascico, tagliati a pezzi e accatastati sugli scaffali del Supermarket Amerika, e nel subconscio la cosa terribile è che noi, noi vogliamo che lo facciano”. Vizio di forma è un romanzo caotico e brillante in cui Thomas Pynchon riesce a “cavalcare l’onda del futuro” attraverso le immagini sbiadite e sfuggenti di un variopinto passato. Funambolico e geniale, as usual.

martedì 22 ottobre 2013

Joan Didion

Il viaggio Verso Betlemme di Joan Dirion attraversa un momento prospero ed effervescente della vita americana nel cuore del ventesimo secolo, tra il 1961 e il 1968, eppure evidenzia in presa diretta “la prova tangibile dell’atomizzazione, la dimostrazione che le cose cadono a pezzi”. Anche quando il prodotto interno lordo è alle stelle e metà della popolazione ha più o meno venticinque anni. Per quanto coinvolta, partecipe, vicina e attenta, Joan Didion è un’osservatrice molto acuta, che riesce a mantenere un distacco spontaneo per riuscire a cogliere una prospettiva singolare e precisa. Un’attitudine che discende dalla sua personalità che lei stessa riconosce “così minuta, così caratterialmente riservata, e così nevroticamente inarticolata che la gente tende a dimenticare come la mia presenza vada contro i loro migliori interessi. Ed è sempre così”. I soggetti e i temi centrali dei saggi e degli articoli sono tra i più disparati: si va da un ritratto di John Wayne al reportage da Pearl Harbour, dove Joan Didion si stupisce di commuoversi di fronte alle corazzate affondate, dall’intervista a Joan Baez alla rilettura di un cold case di cronaca nera, dal suo arrivo a New York all’esperienza in Haigh Street tra i Grateful Dead e Allen Ginsberg fino a un matrimonio a Las Vegas e alle paranoie di Howard Hughes. Tutti svolti con una scrittura fluida, pungente e colta, per cui le caratterizzazioni dei personaggi formano la parte essenziale di Verso Betlemme perché “le nostre persone preferite e le nostre storie preferite diventano tali non per una virtù intrinseca, ma perché rappresentano qualcosa di profondamente radicato, qualcosa di inconfessato” e comunque quale che sia l’argomento Joan Didion concede poco, rimane incollata alla sua percezione e, a distanza di mezzo secolo, la sua visione è ancora molto nitida. Joan Didion ha soltanto il necessario spessore per confrontarsi con tante, differenti realtà: ha anche il coraggio di esprimere quelle perplessità e quel pensiero critico che qualcuno vorrebbe ridurre a moralismo e che invece è un punto di vista, un’osservazione, una linea tracciata, una scelta di campo. Il vero dilemma che alimenta Verso Betlemme è piuttosto che “ogni incontro esige troppo, logora i nervi, prosciuga la volontà, e lo spettro di un’inezia come una lettera non evasa provoca un senso di colpa così sproporzionato, che rispondere alla lettera diventa impossibile. Assegnare il giusto peso alle lettere inevase, liberarci dalle aspettative degli altri, restituirci a noi stessi: ecco dove risiede il grande, singolare potere del rispetto di sé. Senza questo, finiamo per scoprire l’ultimo giro di vite: fuggiamo per trovare noi stessi, e non troviamo nessuno in casa”. Verso Betlemme è una rappresentazione efficace della battaglia di Joan Didion al confine tra giornalismo e narrativa e, oltre a rivelare un talento indiscutibile, capace di fondere la profondità delle analisi con un tono sempre eloquente, è la prova di un raro acume, ancora intatto. 

venerdì 11 ottobre 2013

Charles Mingus

Charles Mingus, fra tutti i jazzisti, fu il più feroce, il più duro, il più irascibile e anche il più coerente perché, come scriveva Geoff Dyer nel suo ritratto in Natura morta con custodia di sax, “non sapeva perché fosse fatto a quel modo, ma sapeva che doveva essere così e non altrimenti”. Com’era lo racconta in prima persona nella sua autobiografia, Peggio di un bastardo, dove si concede con la consueta, straripante generosità, e senza mediazioni, a proposito della musica, che poi coincide in gran parte con la sua vita: “La mia musica dimostra la volontà della mia anima di vivere oltre la tomba del mio sperma, è la mia metatesi, la nuova sede della mia anima eterna. Amati e amanti, unione, amore. Concepimento, uno più uno fa due fa quattro, fa otto, fa sedici, fa trentadue, fa te”. Con la stessa verve Mingus racconta la sua infanzia e si rivela un narratore dai toni forti e sincopati: “Quando ero piccolo una volta caddi e persi i sensi. C’era un bambino lì in terra tutto sporco di sangue. Quel bambino ero io e allo stesso tempo non ero io. ero qualcun altro lì in quella stanza, eppure i miei non potevano vedermi. Ero una specie di vecchio saggio, vecchio come il tempo. Dipendeva solo da me lasciare lì in terra quel bambino e andarmene verso l’eternità o soffiargli di nuovo dentro la vita. Così adesso riesco a vedere te e tutto il resto con la stessa chiarezza di quel giorno quando vedevo tutti gli altri e me stesso e sarei potuto restare lì o salire in macchina con loro senza essere visto”. Peggio di un bastardo è una sorta di vademecum in presa diretta di un’epopea intensa e drammatica che ebbe la musica (dal blues al jazz, tutto compreso) al centro di ogni movimento. Il suo valore sta proprio nella ricostruzione vivida delle immagini nella vita nelle strade di New York (“Voglio solo farti sapere dove ti vai a cacciare. Perché se ti beccano finisci peggio di Al Capone, perché anche tu sei un nero che ha delle donne bianche. Se abiti nell’East Side di Manhattan, quelli penseranno che hai la grana anche se non ce l’hai. Non farti venire in giro con i magnaccia, neri o bianchi. Così ti fai etichettare”). La cruda versione di Peggio di un bastardo dei rapporti tra uomini e donne, tra bianchi e neri, tra musicisti e il resto del mondo nonché la grezza espanzione di tutte le contraddizioni, le controversie e le follie che l’hanno visto protagonista diventano sorprendenti quando Mingus si occupa di questioni politiche, che affronta dimenticandosi di ogni singola sillaba contenuta dalla parola diplomazia: “E’ ora di sapere cosa fanno i nostri leader che ci portano a morire per i loro vizi, le loro evasioni. Puttane! Strappategli via i vestiti ai nostri leader! Oggi! In tutto il mondo! E se cercano di scappare tagliate lì dove dovrebbero avere le palle. Salvatelo voi questo mondo malato, o mie inestimabili puttane”. Per la cronaca alla sua versione dei fatti va aggiunta quella scritta dalla moglie Sue Mingus, ovvero Tonight At Noon, anche se è sempre meglio la fonte diretta. 

lunedì 7 ottobre 2013

John Fante

I due brevissimi racconti, qui accoppiati, ruotano attorno ai perimetri di altrettante case nelle valli californiane e John Fante, si sa, è un architetto d’interni molto abile ed efficace nel ricostruire le dimensioni e l’atmosfera della vita tra le mura domestiche. I rapporti famigliari, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, rendono le cucine, i soggiorni, le camere da letto dei veri e propri campi minati a cui non c’è trasloco che possa porre rimedio perché certe ossessioni rimangono sempre nel bagaglio. Il caso dello scrittore tormentato è da manuale: una coppia crede di aver trovato il suo nido ideale, anche perché ammette il protagonista “eravamo stanchi di cercare, il prezzo era alla nostra portata, e a me il posto piaceva pure”. Il problema è che i precedenti proprietari ormai sono fantasmi che vagano per i corridoi e sulle scale e la felicità rimane legate all’impressione iniziale, come riconosce lo scrittore tormentato: “C’era sole, spazio, aria fresca. Qui, pensavo, c’è la pace; qui mi verranno le parole e le pagine cresceranno una dopo l’altra. E cominciai a credere a quello che avevo detto fin dal primo momento: che quella casa l’avessi davvero già vista nei miei sogni. Le parole non vennero, e nemmeno le idee. Vennero invece i pittori, e i falegnami, perché mia moglie voleva cambiare la casa dentro e fuori, per cancellare ogni traccia del passato”. I guai degli spettri sono relativi rispetto a quello che possono fare gli esseri viventi e infatti quando il padre comincia a invitare gli amici (muratori come lui) a godersi la cantina l’idillio immobiliare svanisce, e non solo quello. Lo scrittore si trova spaesato, straniero e in esilio nella sua stessa casa (“La mia serenità subì gravi intrusioni. Non riuscivo a scrivere”) e come se non bastasse il trambusto che gli organizza un giorno sì e l’altro pure, il padre  lo smimuisce senza pietà: “Quello me lo chiami lavoro, la roba che scrivi?”, e il sogno di un posto dove poter stare evapora per sempre. E’ facile immaginare come finisce Il caso dello scrittore tormentato che John Fante spiega così: “Per gli scrittori, sonno e prosa vanno insieme. Se ti viene l’ispirazione, se le pagine funzionano, le notti sono serene. Se mancano le parole, non si dorme. E quello era un periodo così. Non riuscivo a dormire”. Per inciso, il padre di Il caso dello scrittore tormentato non è molto diverso da quello di Sogno di mamma: entrambi non hanno “praticato la tenerezza” e la loro misantropia non è negoziabile. La vita imposta dal capofamiglia in Sogno di mamma dipende, più di tutto, dalla qualità della preparazione dei peperoni, che vuole cotti e cucinati alla perfezione, per cui il giorno che torna a casa e li trova bruciati si aprono le porte dell’apocalisse e tutto un mondo viene giù. John Fante è straordinario nel mettere in cornice le scene fondamentali e anche relegato nell’ambito ridotto delle short stories riesce a illuminare due perle grezze come Il caso dello scrittore tormentato e Sogno di mamma. Da riscoprire.