Nella sua essenza, Margine di fuoco è un riflesso naturale e spontaneo del clima nella Upper Peninsula. Torrido, afoso e impossibile per un quarto dell’anno (“Tre mesi rubati alla slitta” diceva Jim Harrison), gelido e ventoso negli altri, costringe ad abituarsi alle estremità della vita, e alle loro conseguenze. L’isolamento produce distorsioni e ogni esistenza è impigliata in un angolo, una condizione paradossale vista la vastità del territorio e l’ampia gamma di forme ambientali. Non è difficile comprendere l’impatto di un’atmosfera inesorabile sulla trama di Margine di fuoco: Whitefish Harbor è una small town che condensa ed esprime tutti i limiti della provincia, dal virus del pettegolezzo al peso inamovibile delle tradizioni e delle istituzioni, come se tutto il mondo fosse lì, e soltanto lì. Eppure, non c’è molto da fare, se non seguire le partite di baseball e bere (bevono tutti, e bevono un sacco), tentare di schivare la noia impellente e convincersi, un giorno dopo l’altro, che “abbiamo le nostre storie”, anche se sono fragili, bizzarre, intarsiate di infelicità e votate a svolte drammatiche. Come l’antefatto di Margine di fuoco, che è il nucleo da cui si genera ogni altra deviazione. La precoce love story tra Hannah e Sean ha avuto un frutto indesiderato ed è stata fonte di un primo, drammatico evento che segnato la vita di entrambi. Per Hannah è stata la sorte di dover subire, più che accettare, un aborto, senza avere la possibilità di altra scelta. Quel flashback è il momento in cui prendono forma alcune delle pagine di più intense e dolorose di John Smolens che ha un senso molto acuto nell’affrontare le dinamiche dei personaggi femminili: Hannah, a cui è stata negata la maternità, è uno dei vertici di un triangolo compreso da altre due madri, la sua e quella di Sean. Sono figure molto tormentate perché, nonostante tutti gli sforzi e i tentativi che fanno, vedono dissiparsi i legami famigliari. Del resto, John Smolens è impietoso con tutti, a partire da Sean: l’arruolamento e l’addestramento nell’esercito, l’altra grande famiglia americana, dove è stato spedito dal padre per darsi una “raddrizzata”, comprimono ancora di più un carattere ombroso, che infine resta tragicamente ossessionato da Hannah e dal ricordo dei pochi momenti vissuti insieme. L’arrivo di Martin, con una Mercedes piuttosto insolita per l’Upper Peninsula e una casa da ristrutturare, è il classico sasso che scuote la piatta superficie del lago. Rispetto agli altri esseri maschili della contea, Martin è assennato, gentile e non privo di una sua eleganza. Quando Hannah lo incontra, per caso, s’innamorano subito e decidono di stabilirsi lì, a Whitefish Harbor, nella vecchia dimora. Per i lavori necessari a renderla abitabile, Martin chiede aiuto a un cugino tuttofare, Joseph Pearl Blankenship Jr. alias Pearly la cui filosofia “se ne aveva una, era che le cose in questo mondo dovrebbero essere a piombo, in pari e a squadro, ma non lo sono quasi mai”. Pearly ha ben imparato dai suoi trascorsi burrascosi e, infatti, vede giusto: quando Sean viene congedato sulla scia degli effetti di una controversa relazione vissuta mentre era di stanza in Italia, e torna a Whitefish Harbor, la tensione diventa palpabile e John Smolens ha modo di caricare al massimo la molla di una trama che si snoda come un film di Hitchcock. È vero che Sean è una mina vagante, ma a sua volta fa da detonatore a situazioni compromesse da anni che aspettavano soltanto una scintilla per esplodere. John Smolens è abilissimo ad orchestrare i passaggi di ritmo, assecondandoli con una scrittura limpida ed essenziale al massimo, quasi da osservatore sul campo: Margine di fuoco comincia sornione, quasi dimesso, poi ingrana una prima marcia, prende velocità, succede quel che succede, trascinando i protagonisti in un gorgo di violenza e ambiguità e sfuma, nel finale, con i toni crepuscolari di un tramonto sul lago: a Whitefish Harbor non resta molto di più.
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