Zebulon Shook è destinato a diventare il fuorilegge più famoso del West. Le fotografie tramanderanno una visione epica delle sue imprese, le canzoni che gli saranno dedicate lo collocheranno tra gli eroi impenitenti della frontiera, ma le sue gesta sono soltanto polvere in turbinio di pura follia americana. Zebulon è un giocatore (di poker, di biliardo) e l’azzardo è l’unica costante tra le numerose variabili della sua esistenza. Attorno a lui si coagula un flusso infinito di personaggi, a partire da Delilah, una principessa africana, figura emblematica che gli dice: “C’è sempre posto per un giocatore in più: purché il giocatore in più finisca presto per diventare quello in meno”. La battuta condensa tutti i travagli di Zebulon che, con la sua feroce famiglia, si trova proprio in quel momento storico del West destinato a determinare il declino del sogno e dell’illusione della terra promessa, quando il commercio delle pelli cominciava a perdere ogni attrattiva e i bisonti stavano ormai diventando una specie in via d’estinzione. Il periodo e le condizioni di partenza coincidono con quelle di Butcher’s Crossing di John Williams: un tempo che sta sfumando costringendo i protagonisti ad affrontare “la maledizione di vivere tra mondi diversi”. Zebulon va un po’ oltre: la corsa all’oro è la nuova follia collettiva che attira avventurieri di ogni risma, fiumi di alcol e femme fatale, tra cui va segnalata la lunga parentesi di Zebulon con Miranda Serenade, una delle tante divagazioni verso un West psichedelico, tra riti ancestrali e oppio, dove, anche in una scadente camera d’albergo, può succedere di tutto. Braccato in ogni direzione, Zebulon si trova più di una volta a rischiare la vita, anche se in qualche modo riesce sempre a cavarsela. L’origine delle sue peripezie va fatta risalire alla famiglia (con un fratello, nativo, acquisito, vinto dal padre a poker che lo segue da vicino) e la frontiera è una linea molto vaga che serpeggia per tutto il West, dove Zebulon incontra fuggitivi, pionieri, nobili decaduti, il capitano di una nave che si chiama Malasorte e persino Walker, il mercenario responsabile della spedizione in Nicaragua, sperimentando così la sensazione di “trovarsi sempre sul confine”. Nessuno è escluso da quel milieu senza tetto e senza legge, violento e spietato, pericoloso perché contagioso, tanto è vero che uno sceriffo dice a un intraprendente ragazzino: “Smettila di dare la caccia ai serpenti altrimenti finirai per diventare come loro”. Tra duelli, interminabili partite a carte, fughe e disastri assortiti Zebulon segue spontaneamente il primordiale istinto americano perché “se l’America ha una missione, è quella di espandersi”. Solo che il destino manifesto si ritorce contro se stesso, lasciando in bella evidenza una lunga scia di terrore e di terre desolate. Da Sacramento e San Francisco, Zebulon si snoda come un’interminabile ballata dylaniana, una serie di sogni e di incubi che si moltiplicano senza sosta: Rudolph Wurlitzer ha una scrittura essenziale, molto cinematografica (la sua principale occupazione) ed essendo caotico, tumultuoso e scoppiettante, forse manca di un solido centro, ma interpreta in modo originale e avvincente la dissoluzione del mito del West.
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