L’indagine che Harold Bloom ha dedicato ad Angeli, sogni e resurrezioni è una ricchissima ed erudita dissertazione che illustra, attraverso un’interpretazione libera ed effervescente, come “idee e immagini, in serie o simultanee, sembrano evocarsi reciprocamente in forma pressoché automatica. La memoria, come l’abitudine, funziona in modo ripetitivo collegando le idee in maniera costante al dolore o al piacere. Abitudini e memoria si riducono a premonizioni intuitive, contribuendo a fornire le dimensioni angosciose del sogno”. È l’inizio di un labirinto in cui è facilissimo e salutare perdersi: Harold Bloom parla di Visioni profetiche, ma poi si inoltra nelle divagazioni della mente umana, cosciente oppure non, con una particolare devozione al mondo dei sogni. Un po’ perché il fulcro delle sue riflessioni è sempre, in un modo o nell’altro, Shakespeare e un po’ perché “i nostri sogni trafficano scopertamente con le nostre paure e con le speranze per il futuro; nei sogni creiamo con la massima intensità libere associazioni, e, a meno che non siamo adamantini metafisici materialisti, nella realtà dei nostri sogni siamo portati a incontrare annunci di trascendenza”. La continuità tra i paesaggi onirici e le Visioni profetiche scaturisce dal gioco di prestigio di Harold Bloom perché “non esiste un rapporto semplice tra sogni e viaggi ultraterreni, tanto arcaici quanto moderni. La compenetrazione di resoconto onirico e narrativa di ricerca è la norma; entrambi sono forme romanzesche, nel senso tecnico di storie meravigliose che affidano il loro effetto a un sapere imperfetto, all’incanto dell’elusivo”. Molto dipende da quello che sosteneva Henry Corbin, richiamato spesso dallo stesso Harold Bloom: “L’uomo, per sua intima natura, è legato al sistema delle realtà superiori, anche se ordinariamente questo sistema dei mondi supremi a lui sembra qualcosa di naturale al modo in cui la sua duplice esistenza, che prevede materia e spirito, nella sua globalità a lui sembra ovvia. L’uomo non si meraviglia affatto di quei passaggi che deve fare continuamente nel mondo dell’azione, dal regno dell’esistenza materiale a quello dell’esistenza spirituale. Per di più, il resto degli altri mondi che penetrano anche nel nostro può sembrarci parte di un qualcosa di naturale”. Nell’intersezione tra creature angeliche e speculazioni metafisiche, Bloom si muove con destrezza, assecondando la sua inclinazione principale, la critica letteraria (e quindi la lettura) e ricordando che molto è dovuto alla “fantasia dei poeti”, dato che “gli angeli dal nostro punto di vista, devono costituire eventi umani piuttosto che divini. Dio non ha bisogno di credere negli angeli; noi invece sì, ma è necessario che questa fede abbia un senso, in modo che le leggi della natura siano violate per qualche scopo”. Harold Bloom suggerisce, estrapola, commenta ed elabora, districandosi tra “emanazione, creazione, formazione e azione” e più che un apparato filosofico o teologico Visioni profetiche mette a disposizione una moltitudine di occasioni per disorientarsi nei Secoli americani e nella comprensione del mondo a venire, proprio mentre “schiere di anime illuse implorano gli angeli di fare per noi quel che dovremmo fare per noi stessi”. Dietro le speculazioni sulla cabala e sul sufismo, tra le asserzioni di Freud e le esperienze degli sciamani, Harold Bloom si aggira impertinente e sornione, ricordando comunque che tra Angeli, sogni, risurrezioni, “i messaggeri risultano inutili se non hanno messaggi da consegnare e se non c’è nessuno che li invii”. Con una deviazione dedicata a un’esperienza tutt’altro che trascurabile a cui, infatti, Harold Bloom concede un breve, ma giusto tributo tra le Visioni profetiche: “Il rock marchio o vessillo autentico della controcultura, ha rappresentato una volta una nuova versione dell’autoctona religiosità americana, per effimera o secolare che fosse, analoga, per quel che è durata, a certe fiammate trasformatesi poi in credi permanenti, come quelli dei mormoni, dei pentecostali o degli avventisti. È passato, probabilmente nell’inverno 1969-1970, quel momento in cui l’intensità dello spirito raggiunse il suo apice effimero, e quando qualcuno dei miei studenti più sensibili mi assicurava che i Jefferson Airplane, in concerto, avevano comunicato un’esperienza mistica”. Le porte della percezione si aprono anche così.
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