giovedì 28 aprile 2016

Ryan Gattis

E’ la primavera del 1992 a Los Angeles, e “tanto per cominciare, non c’era nessuna città”, come dirà qualche anno più tardi Sam Shepard. Lì, in quel momento, in un immenso vuoto pieno di esseri umani, due antefatti segnano la direzione irrevocabile di una linea spaventosa. Agli inizi di marzo, Rodney King, un tassista afroamericano, viene fermato e massacrato a colpi di manganello da alcune pattuglie del dipartimento di polizia di Los Angeles. Un filmaker amatoriale riprende tutta la scena. Quattro agenti vengono inquisiti e processati in un crescente clima di tensione. Poche ore dopo la lettura del verdetto di assoluzione, alle 15.15 del 29 aprile 1992, cominciano i Giorni di fuoco. Un mondo di una violenza assurda, portato in superficie dalle rivolte, comincia proprio dal linguaggio, come ricordava anche il maggiore James D. Delk, comandante della guardia nazionale: “La polizia diceva ai membri delle gang che anche la guardia nazionale era una gang, ma molto, molto più grande. Pensavano che questo era un linguaggio che potevano capire”. Le cronache sono troppo efferate e spietate per svincolare dalla realtà e Ryan Gattis mostra un bel coraggio nel cercare di trasformare quella che in buona sostanza è una storia orale in un romanzo compiuto. L’intervento narrativo e stilistico è minimo e si concentra tutto nella ruvidità della forma e nell’articolazione delle connessioni tra i numerosi protagonisti, collegati da un’invisibile trama che segue gli sguardi per strada. Il background di Giorni di fuoco è lampante: gli scontri sono stati soltanto la scintilla che ha fatto deflagrare tutta una “geografia della paura”, come Mike Davis ha definito la mappa di Los Angels ed è evidente che una convivenza dignitosa fosse complicata (se non impossibile) prima dell'affaire Rodney King ed è rimasta tale negli anni successivi. In modo molto più prosaico uno dei protagonisti dei Giorni di fuoco la descrive così: “E’ grande come non so cosa ma gli abitanti stanno nei loro ghetti dove si parla soltanto spagnolo o etiope o quel che è. E’ come se ogni razza fosse un pugile all’angolo, e quando succede così, quando hai questa mentalità, è facile vedere tutti gli altri come degli avversari, qualcuno da battere perché se non lo fai non ottieni la sua parte. Non ti becchi il premio, capisci? E forse è tutto qui, come si dice, in sostanza. Prendi un sacco di gente da tutte le parti del mondo, li sbatti nei loro ghetti e non gli permetti di mescolarsi né di capirci niente, e tutti hanno in testa soltanto di competere, perché, merda, chiunque a L.A. è sempre in lotta contro tutti e tutto”. Ryan Gattis rende “straordinariamente vivida”, secondo un’utile definizione di Joyce Carol Oates, quella che è una resa dei conti molecolare, proprio lì, dove il luogo comune di guerra senza quartiere diventa una brutale realtà. Il territorio disseminato di gang con una definizione di ruoli (militari e civili) ben precisa vede un’occasione imperdibile nella “libertà di questi giorni”, dove per libertà s’intende il caos. Scattano le faide (in effetti sarebbe questa la definizione giusta) tra una formazione e l’altra, esplodono i conflitti etnici (e non), si consumano le vendette e i tradimenti. Per attaccare o per difendersi, la differenza si perde nelle strade, e diventa persino ovvio che, come dice uno dei protagonisti, “c’è un’altra America nascosta dietro l’immagine che presentiamo al mondo”. Giorni di fuoco aggiunge qualcosa in più: gli attacchi ai pompieri, i saccheggi e le sparatorie, gli incendi e le devastazioni e, d’altra parte, l’intervento massiccio dell’esercito, evidenziano formulazioni impreviste e imprevedibili della legge imposta con le armi. A quel punto, come scriveva Joseph Brodsky nel 1978 “la geografia combinata col tempo equivale al destino” e nei Giorni di fuoco va in scena una guerra civile di sei giorni, un’apocalisse tutta americana, con l’aggiunta della diretta televisiva che rimanda le immagini in un loop infinito e senza scampo. Non è un caso che uno dei commenti finali di Giorni di fuoco reciti: “Non voglio vedere i notiziari. Voglio solo stare in pace”. Forse ci vuole un’altra geografia, o un altro destino.

lunedì 18 aprile 2016

Garth Risk Hallberg

Il tentato omicidio di Samantha Cicciaro, editrice, redattrice e unica inviata della fanzine Land Of Thousand Dances è la scintilla che accende la complessa reazione a catena di una Città in fiamme. New York City è “una città di fine secolo” dove predatori e speculatori, artisti e spacciatori, cronisti e investigatori devono condividere i torbidi conflitti su cui è fondata. Gli elementi umani, chimici, in ultima analisi, persino storici e politici, alla base di Città in fiamme sono più che concreti ed è vero, come scrive Garth Risk Hallbert, che è “tutto casuale, certo, ma era questo che la città di regalava e i romanzi no: non quello che ti occorreva per vivere, ma prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere”. L’infinitesimale differenza coinvolge una ragnatela di personaggi le cui azioni si concatenano nello schema degli eventi e avendo il tradimento e/o la metamorfosi come forma di comunicazione, sono tutti collegati perché “sembrava che oggi ogni americano avesse il suo gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo diverso”. A quel punto la trama di Città in fiamme si attorciglia attorno alla famiglia Hamilton-Sweeney, alla collezione di Mark Rothko, ai contrasti e ai sotterfugi insiti nella parentela e nella gestione del patrimonio. Una sorta di Dynasty prende il sopravvento con una lenta, subdola progressione e la Città in fiamme rimane vista dall’alto di piani inarrivabili, mentre, giù, nelle strade succede di tutto. Costruito con gran dispendio di particolari, caratteri e fuochi d’artificio tipografici, Città in fiamme collassa proprio nel finale. Annunciato dalle fanfare di mille segnali diversi, dallo snodarsi di persone “esageratamente vive”, è convulso, stratificato, frammentario e inconcludente, con tanto di colpi di scena a raffica. In quel momento, sì, “la maschera si trasforma nel volto” e Città in fiamme si rivela nella sua forma concreta: un’intuizione solida e pregevole che si è espansa in modo smisurato, gonfiando attorno al nucleo principale una massa inerte, se non proprio inutile. E’ come se la Città in fiamme mancasse lì proprio dove dovrebbe essere. Stiamo parlando di New York tra il 1976 e il 1977 ed è sfiorata soltanto dalla presenza di Patti Smith e dell’asse diretto con Lou Reed, poi di sfuggenti citazioni di Clash, Richard Hell, i Dictators, Iggy (che è sempre Iggy Pop), e poco altro, nonostante la variopinta ricchezza di Land Of Thousand Dances. Mancano dei pezzi importanti. Nei momenti in cui New York, quella New York, dovrebbe diventare visibile, tangibile ecco che Garth Risk Hallberg sfuma, corregge, mitiga, confonde. Volendo, la Città in fiamme c’è tutta, in superficie: il punk, la droga, il vomito, Taxi Driver, gli aspetti della gentrification per cui interi quartieri vengono declassificati a zona di degrado urbano e poi fatti risorgere dalle ceneri speculando sull’edilizia residenziale. Tutto quanto, soltanto che implode invece di esplodere. Nel suo farraginoso svolgersi, Città in fiamme trova sempre il modo di sviare il discorso e il contesto tende a confondersi in “una metafora incompiuta, un tono in cerca di un mezzo”, per parafrasare lo stesso Garth Risk Hallberg. Un po’ è dovuto alla prosopopea (sono un migliaio di pagine, in tutto), un po’ all’eccessiva tendenza alla divagazione, un po’ all'assenza di attrito tra i diversi livelli della narrazione, tra le tante prospettive con cui i personaggi e le loro storie sopravvivono a New York, che resta pur sempre una Città in fiamme, con molto fumo e qualche angolo ancora immerso nel buio.

giovedì 7 aprile 2016

Sam Shepard

Le nuove Motel Chronicles di Sam Shepard cominciano con una testa mozzata che collega il Messico all’Afghanistan, il presente al passato. La testa non può chiedere altro al viandante se non di essere un buon samaritano e di accompagnarla a un luogo solitario, verso un lago sulle colline, dove possa trovare “una pace senza ambizioni, progetti, scopi politici. Una pace pura”. Nel lungo e laborioso tragitto il Diario di lavorazione raccoglie altri ricordi, frammenti di incontri, istantanee, Chet Baker, Stanley Turrentine, Eric Dolphy, l’acconciatura di Woody Guthrie e quella di Lyle Lovett, nonché, inevitabile, Jack Kerouac. In Peccato originale Sam Shepard cita la vecchia amica Patti Smith, poi mette a confronto i paesaggi di Ansel Adams e i volti di Robert Frank, racconta Howlin’ Wolf e le note di copertina degli album della Chess, il salvataggio di Fats Domino a New Orleans nei giorni di Katrina, la morte di Hank Williams e quella di Casey Jones e ancora Hud il selvaggio di Larry McMurtry e in Giardinaggio notturno richiama (forse in modo involontario) i R.E.M., ed è naturale dove tutto è “un suono, un ritmo, oppure qualcos’altro ancora. Una musica. Certe volte arriva il silenzio assoluto, e allora vado in visibilio. E’ proprio così che accade: te ne stai lì in un campo blu e all’improvviso ogni cosa si ferma. Un miracolo. Poi riprende tutto. A turbinare”. Parafrasando il commento sul menù di una delle infinite soste lungo questa o quella highway il Diario di lavorazione “nell’insieme funziona, anche se può sembrare un’accozzaglia di sapori”. Questa scrittura tersa, mutilata, precisa, di silenzi e di solitudini, di luci e di ombre, di alcol e di cenere, di gente che perde la testa (e non soltanto in senso figurato), americana fino al midollo. Piena di cinema, non soltanto per i continui riferimenti e le assidue citazioni, ma proprio nell’inquadratura complessiva, capace di delineare la storia con pochissime indicazioni, come una sceneggiatura minimalista. Nella sostanza, con uno sguardo ravvicinato, è più lirica e profonda perché Diario di lavorazione tende a celebrare e a sublimare le immagini e le descrizioni, il dentro e il fuori rivelandosi nel contempo uno dei libri più intimi di Sam Shepard. Il giorni di viaggio si susseguono senza soluzione di continuità perché “abbiamo davanti la stessa fosca prospettiva, lo stesso naufragio”, ma la percezione è alterata dai disastri dell’ecologia americana. la vita sul confine dove “paura e rispetto” sono diventati sinonimi. Quando Sam Shepard ammette che “la strada non è un film”, il disincanto è palpabile e se magari “un barlume di speranza” c’è, da qualche parte, o c’era, una qualche volta, la convinzione è che ormai “la speranza è per i politicanti”. Il disorientamento di una love story consumata e dimenticata, il silenzio disperato di una stanza d’albergo, le attese vane accanto al telefono e/o alla bottiglia, dozzine di dialoghi che finiscono in un deserto portano Sam Shepard a confessare: “Non ho proprio idea di come funzionino le cose per gli altri. Anzi, se proprio te lo devo dire, non ho idea di come funzionino per me. Brancolo nel buio”. Non di meno, rimane inalterata, la sua vocazione a bordeggiare ai margini, a collezionare i ritratti di un outsider dopo l’altro, a considerare tutta un’umanità di loser, vagabondi, fuggitivi, disperati. Più che mai in Diario di lavorazione dove Sam Shepard dichiara, non senza una certa sincerità: “Sono un fanatico della decadenza. Che mi affascina il modo in cui le cose si disintegrano, appaiono e scompaiono. Il modo in cui qualcosa di molto prospero e promettente diventa triste e scoraggiante. Il modo in cui le persone tengono duro nel bel mezzo di tanta distruzione, senza pensarci due volte. Il mondo in cui la gente va avanti perché non sa cos’altro fare”. Resta la consolazione nell’ascoltare Le canzoni lontane dei matti o la voce e la chitarra di Guy Clark che ci fa sentire sulla strada giusta anche in mezzo alla bufera, anche se i bordi dell’autostrada sono in fiamme perché “solo una cosa è certa, non si ferma mai nulla” e come dice un vecchio adagio riportato da Sam Shepard “la nostra dimora è il pellegrinaggio, in una parola la nostra casa non è da nessuna parte”. Outside is America.