lunedì 18 aprile 2016

Garth Risk Hallberg

Il tentato omicidio di Samantha Cicciaro, editrice, redattrice e unica inviata della fanzine Land Of Thousand Dances è la scintilla che accende la complessa reazione a catena di una Città in fiamme. New York City è “una città di fine secolo” dove predatori e speculatori, artisti e spacciatori, cronisti e investigatori devono condividere i torbidi conflitti su cui è fondata. Gli elementi umani, chimici, in ultima analisi, persino storici e politici, alla base di Città in fiamme sono più che concreti ed è vero, come scrive Garth Risk Hallbert, che è “tutto casuale, certo, ma era questo che la città di regalava e i romanzi no: non quello che ti occorreva per vivere, ma prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere”. L’infinitesimale differenza coinvolge una ragnatela di personaggi le cui azioni si concatenano nello schema degli eventi e avendo il tradimento e/o la metamorfosi come forma di comunicazione, sono tutti collegati perché “sembrava che oggi ogni americano avesse il suo gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo diverso”. A quel punto la trama di Città in fiamme si attorciglia attorno alla famiglia Hamilton-Sweeney, alla collezione di Mark Rothko, ai contrasti e ai sotterfugi insiti nella parentela e nella gestione del patrimonio. Una sorta di Dynasty prende il sopravvento con una lenta, subdola progressione e la Città in fiamme rimane vista dall’alto di piani inarrivabili, mentre, giù, nelle strade succede di tutto. Costruito con gran dispendio di particolari, caratteri e fuochi d’artificio tipografici, Città in fiamme collassa proprio nel finale. Annunciato dalle fanfare di mille segnali diversi, dallo snodarsi di persone “esageratamente vive”, è convulso, stratificato, frammentario e inconcludente, con tanto di colpi di scena a raffica. In quel momento, sì, “la maschera si trasforma nel volto” e Città in fiamme si rivela nella sua forma concreta: un’intuizione solida e pregevole che si è espansa in modo smisurato, gonfiando attorno al nucleo principale una massa inerte, se non proprio inutile. E’ come se la Città in fiamme mancasse lì proprio dove dovrebbe essere. Stiamo parlando di New York tra il 1976 e il 1977 ed è sfiorata soltanto dalla presenza di Patti Smith e dell’asse diretto con Lou Reed, poi di sfuggenti citazioni di Clash, Richard Hell, i Dictators, Iggy (che è sempre Iggy Pop), e poco altro, nonostante la variopinta ricchezza di Land Of Thousand Dances. Mancano dei pezzi importanti. Nei momenti in cui New York, quella New York, dovrebbe diventare visibile, tangibile ecco che Garth Risk Hallberg sfuma, corregge, mitiga, confonde. Volendo, la Città in fiamme c’è tutta, in superficie: il punk, la droga, il vomito, Taxi Driver, gli aspetti della gentrification per cui interi quartieri vengono declassificati a zona di degrado urbano e poi fatti risorgere dalle ceneri speculando sull’edilizia residenziale. Tutto quanto, soltanto che implode invece di esplodere. Nel suo farraginoso svolgersi, Città in fiamme trova sempre il modo di sviare il discorso e il contesto tende a confondersi in “una metafora incompiuta, un tono in cerca di un mezzo”, per parafrasare lo stesso Garth Risk Hallberg. Un po’ è dovuto alla prosopopea (sono un migliaio di pagine, in tutto), un po’ all’eccessiva tendenza alla divagazione, un po’ all'assenza di attrito tra i diversi livelli della narrazione, tra le tante prospettive con cui i personaggi e le loro storie sopravvivono a New York, che resta pur sempre una Città in fiamme, con molto fumo e qualche angolo ancora immerso nel buio.

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