giovedì 7 aprile 2016

Sam Shepard

Le nuove Motel Chronicles di Sam Shepard cominciano con una testa mozzata che collega il Messico all’Afghanistan, il presente al passato. La testa non può chiedere altro al viandante se non di essere un buon samaritano e di accompagnarla a un luogo solitario, verso un lago sulle colline, dove possa trovare “una pace senza ambizioni, progetti, scopi politici. Una pace pura”. Nel lungo e laborioso tragitto il Diario di lavorazione raccoglie altri ricordi, frammenti di incontri, istantanee, Chet Baker, Stanley Turrentine, Eric Dolphy, l’acconciatura di Woody Guthrie e quella di Lyle Lovett, nonché, inevitabile, Jack Kerouac. In Peccato originale Sam Shepard cita la vecchia amica Patti Smith, poi mette a confronto i paesaggi di Ansel Adams e i volti di Robert Frank, racconta Howlin’ Wolf e le note di copertina degli album della Chess, il salvataggio di Fats Domino a New Orleans nei giorni di Katrina, la morte di Hank Williams e quella di Casey Jones e ancora Hud il selvaggio di Larry McMurtry e in Giardinaggio notturno richiama (forse in modo involontario) i R.E.M., ed è naturale dove tutto è “un suono, un ritmo, oppure qualcos’altro ancora. Una musica. Certe volte arriva il silenzio assoluto, e allora vado in visibilio. E’ proprio così che accade: te ne stai lì in un campo blu e all’improvviso ogni cosa si ferma. Un miracolo. Poi riprende tutto. A turbinare”. Parafrasando il commento sul menù di una delle infinite soste lungo questa o quella highway il Diario di lavorazione “nell’insieme funziona, anche se può sembrare un’accozzaglia di sapori”. Questa scrittura tersa, mutilata, precisa, di silenzi e di solitudini, di luci e di ombre, di alcol e di cenere, di gente che perde la testa (e non soltanto in senso figurato), americana fino al midollo. Piena di cinema, non soltanto per i continui riferimenti e le assidue citazioni, ma proprio nell’inquadratura complessiva, capace di delineare la storia con pochissime indicazioni, come una sceneggiatura minimalista. Nella sostanza, con uno sguardo ravvicinato, è più lirica e profonda perché Diario di lavorazione tende a celebrare e a sublimare le immagini e le descrizioni, il dentro e il fuori rivelandosi nel contempo uno dei libri più intimi di Sam Shepard. Il giorni di viaggio si susseguono senza soluzione di continuità perché “abbiamo davanti la stessa fosca prospettiva, lo stesso naufragio”, ma la percezione è alterata dai disastri dell’ecologia americana. la vita sul confine dove “paura e rispetto” sono diventati sinonimi. Quando Sam Shepard ammette che “la strada non è un film”, il disincanto è palpabile e se magari “un barlume di speranza” c’è, da qualche parte, o c’era, una qualche volta, la convinzione è che ormai “la speranza è per i politicanti”. Il disorientamento di una love story consumata e dimenticata, il silenzio disperato di una stanza d’albergo, le attese vane accanto al telefono e/o alla bottiglia, dozzine di dialoghi che finiscono in un deserto portano Sam Shepard a confessare: “Non ho proprio idea di come funzionino le cose per gli altri. Anzi, se proprio te lo devo dire, non ho idea di come funzionino per me. Brancolo nel buio”. Non di meno, rimane inalterata, la sua vocazione a bordeggiare ai margini, a collezionare i ritratti di un outsider dopo l’altro, a considerare tutta un’umanità di loser, vagabondi, fuggitivi, disperati. Più che mai in Diario di lavorazione dove Sam Shepard dichiara, non senza una certa sincerità: “Sono un fanatico della decadenza. Che mi affascina il modo in cui le cose si disintegrano, appaiono e scompaiono. Il modo in cui qualcosa di molto prospero e promettente diventa triste e scoraggiante. Il modo in cui le persone tengono duro nel bel mezzo di tanta distruzione, senza pensarci due volte. Il mondo in cui la gente va avanti perché non sa cos’altro fare”. Resta la consolazione nell’ascoltare Le canzoni lontane dei matti o la voce e la chitarra di Guy Clark che ci fa sentire sulla strada giusta anche in mezzo alla bufera, anche se i bordi dell’autostrada sono in fiamme perché “solo una cosa è certa, non si ferma mai nulla” e come dice un vecchio adagio riportato da Sam Shepard “la nostra dimora è il pellegrinaggio, in una parola la nostra casa non è da nessuna parte”. Outside is America.

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