mercoledì 22 maggio 2024

James Lee Burke

Romanzo dopo romanzo, Dave Robicheaux, oltre a diventare il miglior anfitrione della Louisiana e di un’America oscura, si è trasformato in una sorta di sentinella morale, che segue una contorta, ma efficace filosofia alimentata dai suoi drammi personali non meno che dai conflitti della terra in cui vive. Questa è ormai la definizione delle sue storie, dove la trama resta funzionale a fornire un background alla sua evoluzione. Succede anche in Una cattedrale privata, che comincia attorno a Johnny Shondell e Isolde Balangie, una coppia di giovani musicisti che aspirano a trovare un ruolo nell’industria discografica e si ritrovano a scontrarsi con il solito sottobosco di produttori, manager, speculatori e truffatori assortiti. La loro avventura (e la loro storia) è messa in pericolo dalle rispettive famiglie che si combattono da secoli. La faida si perde nel tempo e nelle idee dei capostipiti rimasti dovrebbe trovare una tregua, se non proprio una convivenza. Il prezzo da pagare è la stessa Isolde, data in pegno a suggellare la provvisoria cessazione delle ostilità. Il traffico di esseri umani, a sfondo sessuale, è un reato particolarmente odioso e quando Dave Robicheaux lo scopre, accende una scintilla che è destinata a far esplodere questa versione di Romeo e Giulietta in salsa cajun, molto speziata, e avvolta in una nebbia torbida e psichedelica. La terre comune di Una cattedrale privata resta collocata sulla mappa nell’andirivieni tra New Iberia e New Orleans, con gli interventi spropositati di Clete Purcel, i bassifondi brulicanti di un’umanità dolente e di rari alfieri dell’innocenza e della bellezza. Le baruffe, le risse, i colpi di scena (a raffica) sono soltanto gli aspetti superficiali e spettacolari che punteggiano un territorio stratificato, sia nello spazio che nel tempo, dove, nell’atmosfera umida e lattiginosa del bayou, sospeso tra le maree e le paludi, si mescolano fantasmi evanescenti e mostri molto reali. L’apparizione di un antico galeone, oltre a riaccendere tragici ricordi del commercio degli schiavi, spalanca le porte di universi paralleli, che in Louisiana hanno ragioni simboliche e metaforiche per esistere e continuare ad asfissiare ogni vita quotidiana. Con Una cattedrale privata, James Lee Burke conduce in una vasta zona grigia dove la realtà e le tenebre dei sogni e degli incubi si mescolano come il ghiaccio nel Jack Daniel. Più di Dave Robicheaux, che pare ipnotizzato dagli spettri, se ne avvede Clete Purcel: “Questa volta è diverso, tutto quello che abbiamo fatto. Il modo in cui il mondo appare. Come se stessimo entrando e uscendo dal tempo”. L’elemento soprannaturale, non insolito nei romanzi di James Lee Burke in Una cattedrale privata è ancora più ingombrante. L’intreccio di passioni, scontri, legami (che risalgono al passato, e fino all’Italia), con le apparizioni mefistofeliche di Gideon Richetti, che si rivelerà un alleato insolito e misterioso, conducono Streak alias Dave Robicheaux e Clete Purcel in un vortice allucinante di deviazioni, che non esclude nulla, dalla pedofilia alle torture medievali. I tormenti di Dave Robicheaux diventano un refrain ricorrente più che mai e le visioni che condivide con il suo socio diventano via via una forza gigantesca e oppressiva finché lo stesso James Lee Burke non spiega che “ognuno di noi ha una cattedrale privata che si guadagna, un posto speciale a cui ritorna quando il mondo prima o poi diventa troppo, e smarrimento e disperazione vengono con il sorgere del sole”. Il processo di identificazione con Dave Robicheaux arriva così un punto di non ritorno: la rigorosa percezione di una netta distinzione tra bene e male vacilla, l’idea stessa di giustizia collassa su se stessa  sotto il peso della burocrazia e dei politici e viene superata dalla vendetta, intesa come resa dei conti tout court, senza esclusioni di colpi, in questo o nell’altro mondo. In questo la premiata ditta dei Bobbsey Twins non si lascia sfuggire nulla e, per fortuna (nostra e loro) colpisce durissimo. L’epigrafe di Muddy Waters diceva già tutto fin dall’inizio, ma lì dentro c’è un’altra storia, ancora più lunga e complicata.

lunedì 13 maggio 2024

Don Carpenter

Ci sono almeno tre libri in Hard Rain Falling. Il primo è un romanzo di formazione che si svolge attorno al tavolo da biliardo. Il secondo è un tuffo del girone dantesco dei tribunali e delle carceri. L’ultimo ci accompagna a spiare la presunta normalità di una famiglia e i suoi tentativi di restare unita. Attorno al personaggio che attraversa tutte e tre le fasi, Jack Levitt, si coagulano le storie di Billy Lancing (soprattutto), Denny e Bobby. Sono poco più che bambini, i loro destini si dividono e si intersecano, ma restano degli irremovibili outsider. La forza di Jack, che deriva dal terrore, dalla solitudine e dall’abbandono, è un motore inarrestabile, ma anche sconsiderato e selvaggio. Come ammette lo stesso Jack, in quelle condizioni il più delle volte “ne sai abbastanza per capire che ciò che provi è insensato, ma non ne sai abbastanza per capire perché”. È un bel dilemma e il gioco d’azzardo e il biliardo, che ritorna come se per Don Carpenter fosse un modo per fare ordine attraverso le linee, quasi un codice a sé stante, sono gli elementi che attraggono e coinvolgono, con “un senso di aspettativa quasi sensuale”, e attorno ai quali ruota tutta la vita nei bassifondi. Sono un pozzo senza fondo con gente che rimane intrappolata perché “la vita sembrava piena di promesse che poi si riducevano a niente. Non poteva che andare così, perché erano delle false promesse; non potevano che essere false, perché erano troppo allettanti”. Una constatazione amara che segue Jack (e Billy) da Portland a San Francisco, da Las Vegas a Seattle: in tutta la costa occidentale gli spazi sono infiniti e angusti nello stesso tempo. Si sovrappongono, persino, finché Jack non viene arrestato, giudicato e condannato. La differenza tra giustizia ed equità emerge nelle privazioni, nella corruzione e negli abusi del sistema carcerario, un luogo dove il potere si esprime in tutte le sue deformazioni. Una situazione di infinita precarietà, vissuta in modo particolare da Jack che “stava ancora cercando di assorbire le impressioni e i suoni della prigione; era la sua nuova casa, e si aspettava che fosse, quasi desiderava che fosse, la sua casa per il resto della vita. Perché pensare in qualsiasi altra maniera significava sperare, e lui sperava di aver perso la speranza”. Il quadro psicologico di Jack e di Billy Lancing, che ritrova proprio in prigione, è delineato con estrema chiarezza perché “lo scopo della prigione è di punire e qualunque ravvedimento è puramente accidentale. Alla società non frega un cazzo di quello che ti succede, e tu lo sai. La società è un animale, proprio come tutti quanti noi”. Non è un caso che Don Carpenter, richiami Caryl Chessman, che testimoniò a lungo la brutalità del sistema carcerario, dove tutto è “una questione di delicato equilibrio tra sfida e obbedienza”. Lasciatosi Alcatraz e San Quentin alle spalle, e con “la volontà di fare qualcosa della propria vita”, Jack trova lavoro in una pasticceria e incontra in modo rocambolesco Sally, che lo introduce a un livello più agiato di imprenditori, faccendieri e affaristi, parti integranti della nazione e del sistema. Jack e Sally formano una traballante famiglia, con un figlio che chiameranno Billy, ma  l’eco della giungla è comunque più forte: “All’inizio ti abitui a fare una certa vita e fingi che non esista altro, finché di colpo ti ricordi di tutte le cose che si possono fare, e il desiderio diventa forsennato e tutto il resto sbiadisce”. Lo stesso Jack, nonostante tutto, non riesce a liberarsi dei suoi trascorsi e ammette che “per quanto cercasse, nel suo passato non riusciva a scovare niente che giustificasse la sua lotta. Non aveva combattuto il volto oscuro della società; non era nemmeno sicuro di cosa fosse. Aveva combattuto e basta”. Quello che gli rimane alla fine è quello che rimane più o meno anche a noi: “A poco a poco, grazie ai suoi libri, ai suoi dischi, alle sue lunghe passeggiate solitarie, al semplice scorrere del tempo, cominciò ad accettare la sua vita così com’era”. Il linguaggio è crudo, mai accomodante o consolatorio e Don Carpenter lascia affiorare riferimenti impliciti ed espliciti a Joyce, Beckett, Čechov, Dostoevskij e cita anche Hemingway (Per chi suona la campana) e Faulkner (Il borgo), ma l’influenza più evidente è quella di Nelson Algren dove Hard Rain Falling, già nel 1960, racconta un’America viscerale, rapace e ipocrita, arrivando molto vicino alla verità. Nel prologo c’è abbastanza sofferenza da riempire un intero romanzo, l’epilogo è una cartolina beffarda dalla Costa Azzurra, e non è un finale felice.