venerdì 26 luglio 2024

William Least Heat-Moon

Ancora una volta, “in giro per l’America”, prende forma più che un reportage turistico, una “topografia della mente” e per William Least Heat-Moon quello lungo Le strade per quoz è un viaggio diverso da tutti gli altri. Non è circolare e istintivo come Strade blu (a suo modo, generico), non è specifico e concentrato come Prateria o monotematico come Nikawa, ma in un certo senso li riassume tutti. Scorrono taverne e pescatori, contrabbando e speculazioni in Florida, fuochi fatui in New Mexico, le foreste del Maine, città fantasma e spiriti irrequieti, le spedizioni di Lewis e Clark e di Hunter e Dunbar, antiche pietre miliari e biciclette sulla ferrovia, esperimenti ed eccentricità, l’omaggio dovuto a Jack Kerouac e alla Beat Generation nonché l’ombra di Thoreau e quella di Mark Twain, i due punti di riferimento di un “cronista delle strade americane” come si definisce William Least Heat-Moon. Per l’occasione rinuncia alla solitudine e viaggia in compagnia di Q e, a ritroso nel tempo, di Mo e Le strade per quoz prevedono “un programma fatto più di direzioni che di destinazioni”. La meta è l’ideale quoz, in effetti più uno state of mind, che una tappa geografica, tenendo comunque ben presente due concreti capisaldi. Il primo riguarda da vicino lo spirito  dell’osservazione perché “nominare qualcosa, di reale o immaginario, significa dargli vita nel mondo reale del suono. Dal nulla sorge qualcosa”. Come diretta conseguenza, il secondo turning point che prevedono Le strade per quoz dipende dal fatto che “è nella nostra natura prendere parte a un luogo e ai suoi avvenimenti restituendoli in immagini e in parole, e in questo modo giungere a un’appartenenza: appartenere non semplicemente a un luogo, ma all’interno di esso”. La riscoperta dell’America è una cronaca alla ricerca dell’autenticità o di una storia da raccontare, assecondando comunque il precetto per cui “partire non sapendo esattamente il perché è proprio il motivo primario per partire, e scoprirne il perché è l’esito più promettente e potenzialmente soddisfacente”. Il termine e la definizione del viaggio in sé occupano spazi ricorrenti lungo Le strade di quoz. L’istinto a partire nasce, senza dubbio, da “quel vecchio stimolo che c’è dentro di noi a trovare tracce di un significato etereo-cosmico nelle nostre vite, un briciolo di prova che suggerisca che il nostro piccolo assemblaggio di atomi su due gambe sia qualcosa di più di un breve e irrilevante interludio”. Poi il quoz è sparso in dettagli, frammenti, colpi d’occhio, aneddoti, pause e scintille che William Least Heat-Moon colleziona ben sapendo che “il tempo trasforma i luoghi comuni in cose insolite”. In questo senso Le strade di quoz riservano molte sorprese: si scopriranno il jackalope e altre creature, come Estrarre raggi di sole dai cetrioli e perché Gli hippy entrano dalla porta laterale. Essendo uno storyteller convinto e scrupoloso, William Least Heat-Moon si attorciglia agli aneddoti, ai racconti e alle chiacchiere con gli sconosciuti, anche quando resta incagliato nella  rievocazione della Route 40 o nel caratteristico neologismo di “fiumitudine”. Concetti già espressi altrove, come la descrizione dell’interminabile sequenza dei cartelloni pubblicitari di Burma Shave, sì, proprio come avviene nella canzone di Tom Waits. Il cliché è dietro l’angolo, un po’ come il menù della tavola calda a conduzione famigliare, e la vicenda di William Grayston (“Non possiamo scegliere i nostri antenati, ma loro spesso, in modi impossibili da indovinare, possono selezionare pezzi del nostro futuro”), che occupa la parte centrale del libro, è più roba da topo di biblioteca che da esploratore moderno. William Least Heat-Moon pare accorgersi dei rischi di queste deviazioni quando dice che “in verità, per amare la realtà della strada, un viaggiatore fa bene a mettere in valigia un piccolo martello emotivo e tenersi pronto per usarlo spesso”. Questa è un’avvertenza più che ragionevole in ogni caso, ma ancora di più per il territorio specifico che attraversano Le strade di quoz dato che “in centinaia di modi, l’America è arrivata dov’è perché la sua gente può essere attratta da una destinazione in maniera maniacale; e per la stessa ragione l’America non è dove non è”. È così che grazie a un paradosso (o due) diventa tutto più chiaro: si tratta di cercare “il nostro posto in questo nostro posto”, che poi è il quoz fondamentale e, per certi versi, inarrivabile. 

mercoledì 24 luglio 2024

Brian Panowich

Alle radici di Bull Mountain, c’è un ragazzo cresciuto in fretta, che ha imparato a combattere per un padrone molto potente, nella fattispecie Gareth Burroughs. L’iniziatore della stirpe l’ha accolto nella sua congrega e Nails alias Nelson McKenna è diventato più di un amico per il figlio Clayton. Nails è menomato, ha qualche problema nei movimenti non meno che nel linguaggio, ma i suoi limiti sono la sua forza: è obbediente e preciso e, come è noto, per i Burroughs non serve altro. È un bravo soldato, solo che compie un errore, che non è un errore. Salva una ragazza, Dallas, da un tentativo di violenza, ma non è solo un salvataggio (un uomo resta a terra e non si rialza più), e Dallas non è proprio un nome del tutto vero. Avviene per una scelta, senza dubbio, ma l’impeto non calcola né i danni immediati (si tratta anche di un omicidio) né i risvolti collaterali. Nails ha agito d’istinto e pur essendo nel giusto, Gareth Burroughs non può permettersi troppe attenzioni o gesti di generosità fuori dal suo controllo e gli organizza una via d’uscita o una condanna (un po’ tutte e due). Clayton, che sta costruendo la sua casa con l’aiuto del padre, e lo conosce fin troppo bene, sente che su Nails è calata una sentenza e si muove a sua volta per aiutarlo. Cambia lo scenario. Sulle montagne riposa solo un mucchio di ossa e verso Jacksonville convergono interessi, condizioni e legami nuovi e antichi. Jacksonville non è la McFalls County: lì l’influenza dei Burroughs arriva (comunque), ma è filtrata dalla distanza e dal tempo e, più di tutto, da una motivazione improbabile. Clayton Burroughs agisce per amicizia, un termine che non è contemplato nel limitatissimo vocabolario di Bull Mountain, dove tutto è in termini di do ut des, e costringe il padre a intervenire in nome della famiglia. La famiglia non te la scegli e trattandosi dei Burroughs rimane una spada di Damocle. Saltano un po’ tutte le regole ed è come passare dal bianco e nero e vedere a colori: sul canovaccio classico di un road movie, che va da Bonnie & Clyde a Thelma & Louise, Brian Panovich crea un intricato susseguirsi di connessioni rendendo comprensibili (se non proprio accettabili) persino gli inamovibili codici di Gareth Burroughs, che resta in cima all’albero genealogico e alla catena alimentare. Quella che per Nails e Dallas doveva essere una rotta verso nuove identità e una vita diversa, si trasforma in un percorso a ostacoli tra stanze di motel, stazioni di servizio, parcheggi e tutto un catalogo di fotogrammi sfuggenti che Brian Panowich sa filtrare con un ritmo altalenante, a tratti frenetico e compulsivo, come l’abbiamo già conosciuto, altrimenti più complesso e riflessivo. L’alternarsi delle canzoni di R.E.M. (Fall On Me), Mazzy Star, (Fade to You), Nirvana (All Apologies), Soul Asylum (Runaway Train), Goo Goo Dolls, (Slide), Garth Brooks (Friends In Low Places), Tom Petty (You Wreck Me e Running Down A Dream), The Sundays (Wild Horses) è il contrappunto specifico che risalta più che in altre occasioni. È una colonna sonora particolare che inquadra il tempo non meno della geografia: qui siamo proprio all’inizio di tutta la saga, una sorta di prequel che spiega molte cose (a partire dal rapporto tra padre e figlio nei Burroughs) e, oltre a introdurre il personaggio di Nails, sposta la prospettiva dai limitati confini di Bull Mountain. Le fughe e gli inseguimenti attraverso “un paese fatto di luci al neon, cemento e scelte sbagliate” fanno risaltare una gamma di possibilità compresa l’ipotesi, dichiarata dallo stesso Brian Panowich, che possa esistere una speranza “anche negli angoli più bui del profondo sud degli Stati Uniti”. Tra i tanti spiragli lasciati aperti da Nient’altro che ossa è il più appariscente, ma non è nulla rispetto ai dubbi e agli enigmi che insinua su quello che è stato e su quello che verrà.

lunedì 15 luglio 2024

Willy Vlautin

Non si uccidono così anche i cavalli? La vita dei musicisti in tour, e pure una volta tornati a casa, è una fatica di Sisifo per un piccolo momento di piacere, per il gusto di suonare una chitarra pregiata, per il mistero gaudioso del songwriting. Willy Vlautin, che conosce fin troppo bene l’argomento, avendolo vissuto in prima persona, parte proprio da lì, dalle dinamiche che portano a vivere una passione nonostante le difficoltà, i ritmi frenetici, le attese e le interminabili ore trascorse in viaggio tra un concerto e l’altro. La sua intima conoscenza della materia infonde al romanzo un aroma speciale, come se Il cavallo fosse l’occasione per fare i conti con l’alternarsi dei miraggi e della dura realtà e del “ritrovarsi spesso in posti sperduti”. Willy Vlautin concede quel tanto che basta di dettagli autobiografici ad Al Ward, che passa da una band all’altra, affrontando cantanti e canzoni, palchi e contratti, alcol (troppo) e trasferte estenuanti, successi (pochi) e fallimenti. Spesso pare aggrapparsi alla chitarra, l’inizio e la fine di tutto, e a quei rari momenti in cui si sente nel posto giusto e pensa che “è bello quando si lavora tutti insieme e fai una canzone che ti piace. Il rumore, il suono, è una bella sensazione. Ti entra dentro e forse, in un certo senso, tu entri dentro quel suono. Hai la possibilità di scomparire di tutto, e alla fine, se la gente applaude, be’, è una cosa in più”. Ecco, poi giorni scorrono inesorabili, la musica si rivela insufficiente a rispondere a tutti i bisogni e le cronache dal music business sono le stesse raccontate da Rick Bass in Nashville Chrome, con l’aggiunta di qualche paillettes in più perché “se vuoi diventare famoso, devi vestirti come se stessi andando in qualche posto fantastico. Perché se lo fai, la gente penserà che stai andando in un posto fantastico e molto probabilmente, se continui così, lo farai per davvero”. Questo è un po’ il punto di svolta più evidente, insieme ai tentativi di trovare una collocazione che resta una prova insormontabile perché come dice l’amico Lonnie “ci vuole tanta energia per cambiare chi sei”, e a volte non basta mai. Il cavallo è costellato di abbandoni e separazioni, cuori spezzati e matrimoni falliti, come se fosse un’estenuante collezione di ballate country & western. I personaggi sono tutti “danneggiati” e Al, in particolare, è diviso tra una carriera di chitarrista e songwriter e una solitudine incalzante, che lo lascia più di una volta disarmato. Anche se è costretto ad avere un lavoro normale in una tavola calda, Al continua a scrivere come se fosse una terapia: i titoli delle canzoni, che fluttuano a blocchi, sono un racconto parallelo e contiguo che Il cavallo ostenta senza particolari spiegazioni aggiuntive. Non servono perché la storia che Willy Vlautin incastona pezzo dopo pezzo è tutta lì, nelle frasi colte al volo, negli appunti presi sui taccuini, negli accordi rubati qui e là. Quando ormai è giunto al capolinea, Al si ritrova solo in una località impervia, prigioniero dei ricordi e dei rimpianti, con un menù ridotto a caffè, zuppa Campbell e tequila, con la sua Monte Carlo che non vuole nemmeno saperne di accendersi e il freddo del Nevada che lo circonda, gli appare un cavallo stremato quanto lui. L’animale è refrattario a tutti i suoi tentativi di avvicinarlo, abbeverarlo e sfamarlo. Qualcosa non va e Al rimane lì incerto e incapace di decidere se il cavallo sia un’allucinazione compresa nel turbinio dei riverberi del passato o un potente richiamo offerto dalla vita vera, là fuori. La chitarra e le parole non possono molto contro la fame, il gelo e l’immobilità del cavallo. In effetti, contro i coyote che lo assediano, Al deve ricorrere al fucile, ma non serve a granché. La situazione di stallo è un’immagine potente al pari di tutto il romanzo a cui Willy Vlautin dona una scrittura asciutta, rarefatta e ipnotica capace di convincervi, una volta di più, nelle qualità salvifiche del songwriting e se non avete mai provato a scrivere una canzone, dopo aver letto Il cavallo, sarà difficile resistere alla tentazione.

domenica 7 luglio 2024

Stephen King

Stephen King prende il titolo dell’ultimo album di Leonard Cohen, lo modifica quel tanto che basta a diventare il richiamo ideale per un’antologia di racconti dalla provenienza eterogenea che hanno il pregio e l’obiettivo dichiarato di ricordarci che “le cose strane succedono”. D’accordo: in You Like It Darker, o Salto nel buio, le occasioni non mancano e nell’elaborazione di Stephen King i racconti sono legati l’uno all’altro da piccoli dettagli, connessioni e rimandi assortiti, forse a cercare un senso o una continuità che non c’è, o che si intravede a tratti, compresi i numerosi riferimenti alle opere precedenti. Serpenti a sonagli, in particolare, è un’estensione di Cujo e contiene cenni di Duma Key e insieme a L’incubo di Coughlin che, è qualcosa di più di un racconto (e si avvicina a un romanzo breve), costituisce una buona metà di questa panoramica tra “le pieghe della realtà”. Nelle small town americane care a Stephen King, distribuite per l’occasione tra il New England e la Florida, “l’idea che nel mondo ci sia molto più di quanto sappiamo” è il vero carburante delle storie che si attorcigliano proprio attorno al tema di una conoscenza alterata e aumentata, capace di vedere attraverso i limiti della realtà. Succede in L’esperto di turbolenze e Due bastardi di talento, un racconto intrigante, che lascia aperte molte porte, e in I sognatori, che ha una trama interessante, a livello di idea, ma un sviluppo riduttivo. Purtroppo non è l’unico caso: una mezza dozzina di racconti restano indefiniti, come se fossero soltanto dei tentativi per qualcosa che infine non si è materializzato. Capita con Il quinto passo che è un abbozzo, gelido e preciso nel suo svolgimento, ma limitato a una scena, che lascia in sospeso troppi dettagli. Non di meno, Willy lo Strambo, che narra una fine che in realtà è poco più che un inizio, e Finn che è un incubo kafkiano, con una sua crudele connessione con la realtà delle famigerate “rendition” e della tortura, valido ma incompleto. Anche Laurie è qualcosa di indefinito e Lungo Slide Inn Road, un esercizio di stile (con la prospettiva dei personaggi che cambia nel corso della storia) e uguale è Lo schermo rosso che pare l’incipit di qualcosa, ma non si capisce bene di cosa. La preveggenza, un passaggio obbligato fin dai tempi di La zona morta, è riformulata in modo sibillino per L’uomo delle risposte che, attorno alla figura di un indovino, cela una carrellata di cultura e costume americano della seconda metà del ventesimo secolo. Lo stesso Stephen King parla di un racconto recuperato dagli archivi e riadattato con “la stranissima sensazione di urlare in un canyon del tempo e ascoltare l’eco che ritornava”, e questa è un po’ anche l’atmosfera complessiva, con tutti quei riverberi del passato che si tramandano di racconto in racconto. In conclusione, L’uomo delle risposte ha una sua indicazione generica, ma  sempre valida quando suggerisce: “Non sbirciare dal buco della serratura se non vuoi starci male”. Consiglio utilissimo che, nello specifico, vale anche per You Like It Darker o Salto nel buio, che forse rende meglio l’idea.

lunedì 17 giugno 2024

James Ellroy

Con Gli incantatori, le ossessioni di James Ellroy arrivano all’ennesimo punto di non ritorno visto che “quella mescolanza unica di star del cinema, politici di peso, corruzione di Hollywood e un violento sottobosco criminale è in gran parte scomparsa dalla coscienza del pubblico, e molti dei suoi più celebri e famigerati protagonisti ormai sono morti o hanno tutto l’interesse a mantenere il silenzio”. Anche Freddy Otash, l’investigatore privato più scaltro di tutta la West Coast, se ne è andato e Gli incantatori comincia proprio con un rapporto informale delle sue esequie, per poi tuffarsi a capofitto nella bollente estate di Los Angeles del 1962. Hollywood è il crocevia dove si intersecano culto della personalità, maniaci, gang, avvocati, procuratori, poliziotti e tutta “la coscienza criminale” che alimenta l’underground della città. Freddy Otash, incaricato da Jimmy Hoffa, sta tenendo sotto controllo Marilyn Monroe per farne uno strumento di ricatto verso i Kennedy e il suo lavoro “era tutto verismo da macchina fotografica umana/lampi di flash/scatti di otturatore. Quel film mentale osceno andò avanti e avanti”. Ben presto Freddy Otash diventa a sua volta una pedina in un complotto più grande che comprende il dissoluto making di Cleopatra, un film che sta trascinando verso il fallimento la Fox, un turbinio di inchieste (vere o false che siano), un affollato sottobosco di outsider e di perdenti (sono tutti attori e attrici in cerca di un ruolo). “È tutto una facciata” e Marilyn Monroe è proprio nell’epicentro per un breve, folgorante momento, consapevole della sua fragilità: “Sono soltanto una star del cinema troppo pompata, che vorrebbe essere qualcos’altro. Capisci? Per questo succhio granite e parlo con uomini estranei alle due del mattino”. La sua morte cambia lo scenario in modo drastico e non soloper Freddy Otash che fin lì è stato “un indicatore di indizi senza piste e senza conclusioni”. Secondo Jean Paul Sartre, “Marilyn è stata divorata dal nulla psichico dei valori americani” e attorno alla sua figura, dall’accanito fanatico al presidente in persona si coagula tutto un milieu di decadenza e follia. Così, la trama di Gli incantatori è come l’architettura di Los Angeles: non pianificata. A furia di organizzare intrighi e complotti, ci si immerge in un abisso di deviazioni sessuali, politiche, economiche e morali. Per dirla con Freddy Otash, “stasera noi siamo scambisti e anche peggio. Siamo i nuovi depravati. Nottambuli pronti a un incanto da poco. Siamo la polizia. Siamo gli imbucati con la missione di guastare la festa”. Il clima generale è nauseabondo, eppure James Ellroy riesce a farci provare empatia per Freddy Otash che è una “calamita per la merda” che lavora su convergenze e suggestioni, connessioni, complotti, illusioni ottiche e impronte digitali, “tutta quella roba” che rifornisce dossier riservati pronti all’uso al momento giusto. Il valore delle informazioni è sempre esponenziale e il potere resta l’unica, vera droga. Le reiterazioni rendono l’idea della noia e del tedio delle intercettazioni ambientali e l’imprevedibilità degli inseguimenti e della vita nelle strade (in realtà Gli incantatori è ancora un grande omaggio a Los Angeles), mentre le apparizioni di Stan Getz, Gerry Mulligan, Harry Belafonte, Orson Welles nonché Liz Taylor sono possibili grazie all’idea che “l’immaginazione è uguale ai fatti”. Sono funzionali all’ipnosi collettiva dello stardom system, e così mentre Gli incantatori si dedicano a una dieta di alcol, “succo della giungla”, tabacco, barbiturici assortiti, finché non ammettono di essere “tutti fuori controllo”, sotto il sole nero, nerissimo di Los Angeles il caos regna sovrano e Freddy Otash si ritrova ancora una volta nel cuore di un’infinita notte americana, dove l’unica logica coerente è la corruzione, senza fine, senza soluzione. Torbido, feroce, graffiante e selvaggio: Gli incantatori è un grande romanzo da leggere tenenendolo con un paio di guanti monouso.

giovedì 6 giugno 2024

Emily Dickinson

C’è un bel riassunto della poetica di Emily Dickinson in La natura è melodia, pur trattandosi di un’antologia che segue un tema specifico. “Così guardando, la notte, il mattino concludono la lieta meraviglia, ed io incontro, attraverso la rugiada, un altro giorno estivo” scrive nel 1859 e poi, come immediata e diretta conseguenza, si ritrova “in un comune mattino d’estate” a coltivare un percorso trasversale che poi comunque riporta alla sua personalità (“Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stesso e non qualcun altro”) come scrive Margherita Guidacci nell’introduzione: “Ma il necessario presupposto di ogni ricerca tematica è il riconoscimento della comune origine dei temi della Dickinson, della loro riconducibilità a quello che per lei potrebbe ben definirsi il tema dei temi: il suo fondamentale senso dell’esistenza, la consapevolezza dell’immensa importanza e dignità di un’anima lanciata nell’avventura della vita”. Il confronto con gli elementi della flora, degli animali, che chiama “i nostri piccoli parenti”, con l’intimo rapporto con la terra (“Dalla zolla, così d’oro e scarlatto sorgerà più d’un bulbo che scaltramente fu nascosto ad occhi esperti. Dal bozzolo, così, balzerà più d’un verme con tanti lieti colori. I contadini come me i contadini come te lo guardano perplessi”) è esplorato fino a giungere alla conclusione che la “natura è melodia. Natura è ciò che conosciamo, ma non sappiamo esprimere: così impotente la nostra saggezza contro la sua semplicità”. È un passaggio fondamentale, come spiega ancora Margherita Guidacci, “proprio perché la vita ha più protagonisti, il suo dramma è tanto interessante. Essa non consisterà in un monologo, ma in un dialogo; uno scambio di messaggi fra le varie presenze che si rendono reciprocamente testimonianza”. Il rapporto con la natura è spontaneo e immediato, costruito nell’amalgama di stupore e ricercata attenzione, e viene però raffinato dalla scrittura, ed espresso nelle parole, misurate e collocate sullo spazio della pagina come se fossero note musicali. Su tutte, le descrizioni delle api che si susseguono in un crescendo lirico e si avvalgono di una conoscenza intuitiva, ma funzionale, quando scrive: “Un’ape ad una rosa s’accostò audacemente col suo cocchio brunito; poi scese, passeggero ed insieme equipaggio. La rosa quella visita accolse con aperta serenità, senza occultare un petalo alla sua cupidigia. Consumato l’istante all’ape non rimase che la fuga, ed alla rosa, del suo rapimento soltanto l’umiltà”. Si tratta di una ricostruzione che ha qualcosa di scientifico celato nella rarefatta economia dei versi, anche se la Dickinson in un altro passaggio ammette la difficoltà nell’esprimerlo: “Il mormorio d’un ape ha una magia per me. Se mi chiedi perché, più facile è morire che dirlo”. Tant’è che la sua trasfigurazione, alla fine, riveste un carattere visionario: “Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un’ape, un trifoglio ed un’ape e il sogno. Il sogno può bastare se le api sono poche”. La forma dell’ammirazione muta e si adegua di volta in volta, ma si propaga come “un amico; una saggezza senza volto o nome; una pace di sfere in armonia”, fino a un’altra mattina a cercare “la delizia e l’estasi”. Sono i motivi determinanti a spingere la Dickinson a dire che La natura è melodia e se “insegnarla è impossibile”, resta l’idea di uno spettacolo da contemplare, quando “vela il tramonto e svela: fan più intensa ogni vista minacce d’ametista e fossi di mistero”, ammettendo persino che “quando la primavera svanisce, v’è il rimorso di non averla guardata abbastanza”. L’eleganza e l’essenzialità delle frasi è dovuta proprio al fatto che “la terra ha molte note” ed Emily Dickinson riesce a sentirle tutte.

mercoledì 22 maggio 2024

James Lee Burke

Romanzo dopo romanzo, Dave Robicheaux, oltre a diventare il miglior anfitrione della Louisiana e di un’America oscura, si è trasformato in una sorta di sentinella morale, che segue una contorta, ma efficace filosofia alimentata dai suoi drammi personali non meno che dai conflitti della terra in cui vive. Questa è ormai la definizione delle sue storie, dove la trama resta funzionale a fornire un background alla sua evoluzione. Succede anche in Una cattedrale privata, che comincia attorno a Johnny Shondell e Isolde Balangie, una coppia di giovani musicisti che aspirano a trovare un ruolo nell’industria discografica e si ritrovano a scontrarsi con il solito sottobosco di produttori, manager, speculatori e truffatori assortiti. La loro avventura (e la loro storia) è messa in pericolo dalle rispettive famiglie che si combattono da secoli. La faida si perde nel tempo e nelle idee dei capostipiti rimasti dovrebbe trovare una tregua, se non proprio una convivenza. Il prezzo da pagare è la stessa Isolde, data in pegno a suggellare la provvisoria cessazione delle ostilità. Il traffico di esseri umani, a sfondo sessuale, è un reato particolarmente odioso e quando Dave Robicheaux lo scopre, accende una scintilla che è destinata a far esplodere questa versione di Romeo e Giulietta in salsa cajun, molto speziata, e avvolta in una nebbia torbida e psichedelica. La terre comune di Una cattedrale privata resta collocata sulla mappa nell’andirivieni tra New Iberia e New Orleans, con gli interventi spropositati di Clete Purcel, i bassifondi brulicanti di un’umanità dolente e di rari alfieri dell’innocenza e della bellezza. Le baruffe, le risse, i colpi di scena (a raffica) sono soltanto gli aspetti superficiali e spettacolari che punteggiano un territorio stratificato, sia nello spazio che nel tempo, dove, nell’atmosfera umida e lattiginosa del bayou, sospeso tra le maree e le paludi, si mescolano fantasmi evanescenti e mostri molto reali. L’apparizione di un antico galeone, oltre a riaccendere tragici ricordi del commercio degli schiavi, spalanca le porte di universi paralleli, che in Louisiana hanno ragioni simboliche e metaforiche per esistere e continuare ad asfissiare ogni vita quotidiana. Con Una cattedrale privata, James Lee Burke conduce in una vasta zona grigia dove la realtà e le tenebre dei sogni e degli incubi si mescolano come il ghiaccio nel Jack Daniel. Più di Dave Robicheaux, che pare ipnotizzato dagli spettri, se ne avvede Clete Purcel: “Questa volta è diverso, tutto quello che abbiamo fatto. Il modo in cui il mondo appare. Come se stessimo entrando e uscendo dal tempo”. L’elemento soprannaturale, non insolito nei romanzi di James Lee Burke in Una cattedrale privata è ancora più ingombrante. L’intreccio di passioni, scontri, legami (che risalgono al passato, e fino all’Italia), con le apparizioni mefistofeliche di Gideon Richetti, che si rivelerà un alleato insolito e misterioso, conducono Streak alias Dave Robicheaux e Clete Purcel in un vortice allucinante di deviazioni, che non esclude nulla, dalla pedofilia alle torture medievali. I tormenti di Dave Robicheaux diventano un refrain ricorrente più che mai e le visioni che condivide con il suo socio diventano via via una forza gigantesca e oppressiva finché lo stesso James Lee Burke non spiega che “ognuno di noi ha una cattedrale privata che si guadagna, un posto speciale a cui ritorna quando il mondo prima o poi diventa troppo, e smarrimento e disperazione vengono con il sorgere del sole”. Il processo di identificazione con Dave Robicheaux arriva così un punto di non ritorno: la rigorosa percezione di una netta distinzione tra bene e male vacilla, l’idea stessa di giustizia collassa su se stessa  sotto il peso della burocrazia e dei politici e viene superata dalla vendetta, intesa come resa dei conti tout court, senza esclusioni di colpi, in questo o nell’altro mondo. In questo la premiata ditta dei Bobbsey Twins non si lascia sfuggire nulla e, per fortuna (nostra e loro) colpisce durissimo. L’epigrafe di Muddy Waters diceva già tutto fin dall’inizio, ma lì dentro c’è un’altra storia, ancora più lunga e complicata.

lunedì 13 maggio 2024

Don Carpenter

Ci sono almeno tre libri in Hard Rain Falling. Il primo è un romanzo di formazione che si svolge attorno al tavolo da biliardo. Il secondo è un tuffo del girone dantesco dei tribunali e delle carceri. L’ultimo ci accompagna a spiare la presunta normalità di una famiglia e i suoi tentativi di restare unita. Attorno al personaggio che attraversa tutte e tre le fasi, Jack Levitt, si coagulano le storie di Billy Lancing (soprattutto), Denny e Bobby. Sono poco più che bambini, i loro destini si dividono e si intersecano, ma restano degli irremovibili outsider. La forza di Jack, che deriva dal terrore, dalla solitudine e dall’abbandono, è un motore inarrestabile, ma anche sconsiderato e selvaggio. Come ammette lo stesso Jack, in quelle condizioni il più delle volte “ne sai abbastanza per capire che ciò che provi è insensato, ma non ne sai abbastanza per capire perché”. È un bel dilemma e il gioco d’azzardo e il biliardo, che ritorna come se per Don Carpenter fosse un modo per fare ordine attraverso le linee, quasi un codice a sé stante, sono gli elementi che attraggono e coinvolgono, con “un senso di aspettativa quasi sensuale”, e attorno ai quali ruota tutta la vita nei bassifondi. Sono un pozzo senza fondo con gente che rimane intrappolata perché “la vita sembrava piena di promesse che poi si riducevano a niente. Non poteva che andare così, perché erano delle false promesse; non potevano che essere false, perché erano troppo allettanti”. Una constatazione amara che segue Jack (e Billy) da Portland a San Francisco, da Las Vegas a Seattle: in tutta la costa occidentale gli spazi sono infiniti e angusti nello stesso tempo. Si sovrappongono, persino, finché Jack non viene arrestato, giudicato e condannato. La differenza tra giustizia ed equità emerge nelle privazioni, nella corruzione e negli abusi del sistema carcerario, un luogo dove il potere si esprime in tutte le sue deformazioni. Una situazione di infinita precarietà, vissuta in modo particolare da Jack che “stava ancora cercando di assorbire le impressioni e i suoni della prigione; era la sua nuova casa, e si aspettava che fosse, quasi desiderava che fosse, la sua casa per il resto della vita. Perché pensare in qualsiasi altra maniera significava sperare, e lui sperava di aver perso la speranza”. Il quadro psicologico di Jack e di Billy Lancing, che ritrova proprio in prigione, è delineato con estrema chiarezza perché “lo scopo della prigione è di punire e qualunque ravvedimento è puramente accidentale. Alla società non frega un cazzo di quello che ti succede, e tu lo sai. La società è un animale, proprio come tutti quanti noi”. Non è un caso che Don Carpenter, richiami Caryl Chessman, che testimoniò a lungo la brutalità del sistema carcerario, dove tutto è “una questione di delicato equilibrio tra sfida e obbedienza”. Lasciatosi Alcatraz e San Quentin alle spalle, e con “la volontà di fare qualcosa della propria vita”, Jack trova lavoro in una pasticceria e incontra in modo rocambolesco Sally, che lo introduce a un livello più agiato di imprenditori, faccendieri e affaristi, parti integranti della nazione e del sistema. Jack e Sally formano una traballante famiglia, con un figlio che chiameranno Billy, ma  l’eco della giungla è comunque più forte: “All’inizio ti abitui a fare una certa vita e fingi che non esista altro, finché di colpo ti ricordi di tutte le cose che si possono fare, e il desiderio diventa forsennato e tutto il resto sbiadisce”. Lo stesso Jack, nonostante tutto, non riesce a liberarsi dei suoi trascorsi e ammette che “per quanto cercasse, nel suo passato non riusciva a scovare niente che giustificasse la sua lotta. Non aveva combattuto il volto oscuro della società; non era nemmeno sicuro di cosa fosse. Aveva combattuto e basta”. Quello che gli rimane alla fine è quello che rimane più o meno anche a noi: “A poco a poco, grazie ai suoi libri, ai suoi dischi, alle sue lunghe passeggiate solitarie, al semplice scorrere del tempo, cominciò ad accettare la sua vita così com’era”. Il linguaggio è crudo, mai accomodante o consolatorio e Don Carpenter lascia affiorare riferimenti impliciti ed espliciti a Joyce, Beckett, Čechov, Dostoevskij e cita anche Hemingway (Per chi suona la campana) e Faulkner (Il borgo), ma l’influenza più evidente è quella di Nelson Algren dove Hard Rain Falling, già nel 1960, racconta un’America viscerale, rapace e ipocrita, arrivando molto vicino alla verità. Nel prologo c’è abbastanza sofferenza da riempire un intero romanzo, l’epilogo è una cartolina beffarda dalla Costa Azzurra, e non è un finale felice.

mercoledì 17 aprile 2024

Larry McMurtry

Gli spazi infiniti del West venduti senza pudori dominano l’immaginario americano come una terra di conquista e il mito della frontiera coincide con quella destinazione ossessiva, come se fosse una meta con un valore ben oltre le possibilità geografiche ed economiche. Uomini e animali uniti da una prospettiva traballante e pericolosa viaggiano attraverso le forche caudine della sete, della fame, delle asperità dell’ambiente e del clima, dalla siccità ai tuoni e ai fulmini fino al gelo. Devono attraversare le terre dei Comanche e i ranger del Texas sono le forze speciali, l’avanguardia, la scorta. Tra loro ci sono i giovanissimi Gus e Call all’inizio della quadrilogia di Larry McMurtry che comprende Lonesome Dove, Le strade di Laredo e Luna Comanche. Una prima spedizione, quasi un prologo, finisce in un disastro. La seconda, quella che porta a intraprendere Il cammino del morto, ha persino l’ambizione di conquistare Santa Fe. Gus e Call vagano nella prateria, con i sensi in allarme verso forme che cambiano, cercando di orientarsi in un contesto spietato, dove la conoscenza di una formazione rocciosa, di una piega della luce all’alba o dell’odore della pioggia in arrivo può distinguere tra vita e morte. È un mondo tagliente, obliquo e polveroso, dove prevale la lotta per la sopravvivenza. Il cammino del morto è un romanzo dettato dagli elementi: terra (il deserto), aria (il vento) e fuoco che si aggiungono all’acqua, quando c’è, e ancora di più quando è assente. Ai suoi ranger Larry McMurtry non risparmia niente: Il cammino del morto è una specie di ordalia senza fine, con un capolinea in un lebbrosario. La storia si racconta da sola e le prove bibliche definiscono una lunga teoria di  personaggi indimenticabili non meno dei loro tragici destini perché “fare il ranger significa poter morire ogni giorno. Se non vuoi correre il rischio, conviene che ti dimetti”. Quando Gus e Call viaggiano “nella vastità del deserto, l’assottigliarsi del gruppo li faceva pensare a quanto erano piccoli e insignificanti rispetto agli spazi che attraversavano”. L’habitat, magnifico e ostile, è determinante perché “i Comanche erano padroni del loro territorio a un livello irraggiungibile per i ranger”. Si scontrano con la leggenda di Buffalo Hump, con le assurde torture di Kicking Wolf e come se non bastasse devono affrontare anche gli Apache di Gomez (non meno efferati) e l’esercito messicano comandato dal capitano Salazar che, oltre a catturarli e a punirli, si prende il compito di sentenziare: “In questo territorio siamo forestieri rispetto a loro. Sappiamo qualcosa sugli animali, tutto qua. Gli Apache sanno quali erbe mangiare. Fiutano le radici, le dissotterrano e le mangiano. Riescono a sopravvivere in questo territorio perché lo conoscono. Quando impareremo a fiutare radici e a conoscere le erbe commestibili, forse potremo combatterli alla pari”. In poche parole, “vuol dire che dobbiamo essere selvaggi, come i selvaggi”. Per la legge del contrappasso che domina la wilderness di Larry McMurtry, tutto quello che rimane è un manipolo di disperati che devono sopportare “barlumi di speranza che erano nati, ma poi anche morti; le promesse, e il fallimento delle promesse”. Gus e Call superano prove da girone dantesco, ma lungo Il cammino del morto viene forgiata la loro amicizia, un legame che sarà il tratto distintivo in tutta la saga. Finale urbolento, fantasmagorico e sorprendente nel viaggio verso San Antonio e l’oceano, un panorama simbolico opposto e complementare alla prateria, al deserto e alle montagne, ma altrettanto impossibile. Epico.

martedì 26 marzo 2024

Paul Zollo

David Byrne scrive soltanto sulla carta millimetrata, Rickie Lee Jones compone Pirates in un’aula abbandonata, Leonard Cohen si rifugia in un monastero zen e induce tutti al miglior Ballantine, Frank Zappa armeggia con il Synclavier indeciso tra una canzone e una suite strumentale,  Donald Fagen e Walter Becker (ovvero gli Steely Dan) contano il numero delle battute e i cambi di accordi: le ossessioni dei songwriter sono innumerevoli e c’è persino chi, come Suzanne Vega, si fissa su una sola tonalità (“I misteri della vita sono tutti in la minore”) e chi come Carlos Santana ha avuto la sacrosanta pretesa di “combinare la spiritualità con il piacere di muovere il culo”. Con Rock Notes, Paul Zollo le indaga attraverso incontri che vertono sulla composizione delle canzoni e sulle canzoni stesse. Il modello è Scritto nell’anima di Bill Flanagan anche se l’approccio di Paul Zollo è meno diretto, più discreto e, per certi versi, più pertinente. Le interviste seguono uno schema più o meno fisso con una parte introduttiva dedicata all’arte del songwriting e alla specifica percezione di ogni singolo musicista, poi, Paul Zollo si limita a citare una manciata di titoli e l’interlocutore passa ai ricordi e alle descrizioni dei singoli brani. Ognuno la vive a modo suo, come è naturale che sia, ma la formula di base del dialogo è fondata sul tentativo di scoprire se i songwriter hanno un metodo o degli strumenti segreti per scrivere le canzoni. Qualcuno prova a ragionarci, qualcuno no. Secondo Burt Bacharach “la musica genera la propria ispirazione”. Ci sono molti modi di affrontare le canzoni, che per tutti fluttuano nell’aria, indistinte, e c’è chi, per spiegare come funziona l’ispirazione si lascia andare a metafore ardite. Come fa, per esempio, Carlos Santana: “Perché quando invece sento qualcosa, non sento altro che quello. Non sento nient’altro a parte la musica che vuole uscire fuori. Come quando sei incinta, non t’importa niente del resto del mondo, vuoi solo donare la vita a tuo figlio. Ecco, è la stessa cosa”. Le opinioni divergono e Paul Zollo è un interlocutore accomodante che riesce a smuovere anche anche gli intervistati più sfuggenti. David Byrne gli confessa: “Se sei in grado di seguire il tuo istinto, allora vuol dire che sai cosa stai facendo”. D’altro canto, Rickie Lee Jones sembra proprio convenire, pur da una direzione opposta: “Credo che una delle cose più importanti che mi siano capitate è aver imparato che non si deve aver paura di scrivere una canzone, e non bisogna mettersi sempre in discussione”. Un caso a parte è l’intervista (toccante) a Townes Van Zandt, in particolare quando dice: “A me interessa solo catturare qualche briciolo dell’essenza della vita umana”. Sì, nelle sue parti più intime il songwriting confina con un’interpretazione della vita: chiede moltissimo in termini di tempo, conoscenza e più di tutto, attitudine, come spiega Yoko Ono: “Dobbiamo sforzarci di essere veri, questo è tutto. Essere veri non è una cosa che ti capita e basta. Ti ci devi impegnare in qualche modo”. Nelle Rock Notes di Paul Zollo, che comprendono anche le convinzioni illustri di John Fogerty, Roger McGuinn, R.E.M. e Mark Knopfler, la gamma di visuali del songwriting è ricchissima e sfumata: oltre a suggerire un livello più alto e profondo dell’ascolto delle canzoni, pare divertirsi a stuzzicare la voglia di mettere mano a una chitarra o al pianoforte per comprendere o maltrattare una progressione di note e di versi nel tentativo di percepire quella magia evocata più  meno in tutte le interviste. Come procede nella realtà, lo spiegava bene Tom Petty, uno che aveva il dono geniale della semplicità e della sintesi: “Cerchi una parola migliore, un accordo migliore”. Funziona solo così, e per la poesia, le profezie ed altre illuminazioni, bisogna chiedere a Dylan, qui ovviamente citato  da tutti, dall’inizio alla fine.

venerdì 22 marzo 2024

Warren Zanes

Warren Zanes, che ha alle spalle l’esperienza chitarristica con i Del Fuegos e, una volta passato alla letteratura, le biografie di Dusty Springfield e di Tom Petty, si avvicina a Nebraska dalla porta posteriore, in punta di piedi, spiegando nel frattempo cosa c’entrano i Suicide, Hank Williams, Johnny Cash, Flannery O’ Connor, le fotografie in bianco e nero di Robert Frank, gli yodel e il funzionamento di un registratore a quattro piste. È tutto quello che è servito a Springsteen per incidere Nebraska, ed è da quell’isolamento, agli antipodi delle caotiche dinamiche di una rock’n’roll band, che parte Warren Zanes. Springsteen era reduce dall’esperienza di The River, l’incisione infinita del doppio album e il successivo, spettacolare tour. Chiunque avrebbe provato a cristallizzare tutta la propria carriera su quel segmento fortunato e invece, come scrive Warren Zanes, “con Nebraska, Springsteen mise da parte quasi tutto quello che sembrava essere indispensabile per ottenere il successo commerciale, dalla resa sonora chiara e pulita all’esecuzione perfetta, fino alla faccia dell’artista piazzata sulla copertina dell’album. Asciugò le canzoni al punto che quello che rimaneva era il borbottio dell’arte”. Nebraska è un salto nel buio e nello stesso tempo “uno dei momenti più enigmatici della storia della popular music”: è un album estremo, e “impegnativo in quanto pretendeva moltissimo dall’ascoltatore”. Ancora adesso è così, solo che Warren Zanes illustra i motivi con una passione ammirevole, ma senza lasciarsi trascinare dalle emozioni, che pure filtrano in quantità. Racconta a fondo sia la scarnissima natura estetica delle canzoni, sia i dettagli (fondamentali) della minimale incisione, con tutti gli elementi tecnici in primo piano. Un bel calvario, tanto che, secondo lui, Nebraska resta “incompiuto” e “consegnato a un mondo in procinto di oltrepassare la soglia di quel digitale attraverso cui la tecnologia avrebbe consentito alla musica registrata di essere perfettamente sincronizzata e di ottenere l’intonazione perfetta, ma facendole rischiare di perdere la connessione con il non aggiustato e l’inaggiustabile”. Un incidente di percorso dove domina “l’austerità” e gli aspetti formali, compresi quelli specifici legati alla strumentazione, e ai diversi passaggi delle registrazioni e delle masterizzazioni, persino la stessa, spartana copertina concorrono a fare di Nebraska un caso unico, perché, come scrive Warren Zanes, “ci sono momenti, nella carriera di gran parte degli artisti, in cui costoro assorbono di più, cercano di più e ci vedono più chiaro, senza necessariamente sapere perché lo fanno”. È in quell’abbandono e in quella solitudine che emerge una “luce”, che apre uno squarcio tutto da esplorare. È proprio lì, dentro una ferita aperta, che è arrivato Bruce Springsteen: “Avevo solamente un certo tono in mente, che percepivo simile a quello che c’era quando ero ragazzino. E allo stesso tempo sembrava che quel tono coincidesse con quello del paese all’epoca”. Questo viaggio nel tempo non sarà indolore, né per lui né per l’America intera e questo perché Nebraska è l’apologia dell’imperfezione, che in sé rappresenta tutta la sua tenebrosa bellezza. Bob Clearmountain, uno che ha firmato il sound di una miriade di dischi, delineando un intero standard qualitativo, ha detto: “C’è qualcosa di unico negli esseri umani che suonano la musica. E nel momento in cui siamo riusciti a vedere e a sistemare gli errori, abbiamo smesso di ascoltare gli esseri umani. Nebraska? Il fatto di suonare in quel modo era una delle sue qualità più importanti”. Si tratta, in tutta evidenza, di una specie di rivoluzione copernicana del rock’n’roll e Liberami dal nulla non è soltanto il racconto sull’album home made di Springsteen, ma ci dice quanto in profondità ci toccano le canzoni, il rock’n’roll, e tutti i fantasmi che si portano dietro. 

martedì 19 marzo 2024

Colson Whitehead

Il ritmo di Harlem detta il tempo di Ray Carney, che cerca di salire i gradini di un scala sociale in una New York che si trasforma via via che passano gli anni e dove “il degrado urbano saltava da un posto all’altro come un branco di pulci”. Fin dalle prime battute, il groove è sincopato e senza sosta e, come succede spesso nei romanzi di Colson Whitehead, la trama di infittisce capitolo dopo capitolo, tanto è vero che è facile perdersi nel frenetico susseguirsi di colpi di scena. Ray Carney è attirato nel mondo criminale da Freddie, cugino e amico che gli propone di piazzare il frutto di un colpo. Non che voglia farsi mancare l’occasione, ma ci sono molti punti ambigui, dovuti nello specifico all’habitat perché “questa nuova terra era grande almeno qualche isolato, e a Harlem qualche isolato era tutto. Qualche isolato era la differenza tra gran lavoratori e delinquenti, tra opportunità e fatica ingrata”. La rapina fila liscia, ma rubano i gioielli della donna di Chink Montague, un altro boss, ma siamo ancora all’inizio: più ci si addentra e il più Il ritmo di Harlem diventa denso e profondo come se Ray Carney sommasse una serie di ruoli incongruenti: la vita in famiglia (con la moglie, i figli e i suoceri, arrivati e insopportabili), il negozio di mobili (con i relativi affari), i disastri del cugino Freddie, gli intrighi politici, la corruzione e le sommosse. L’intersecarsi di cronache e vicende storiche con il flusso del romanzo riflettono “influenza, informazioni, potere. A quei tempi non era chiaro chi si faceva, e di quale droga, ma a ben guardare mezza città era sotto l’effetto di qualcosa”.  Le rivendicazioni e i soprusi, la notte e il giorno, la Nuova Frontiera e l’arrivo della Polaroid: Harlem è una mappa brulicante di vita (e di morte) ed è un proscenio teatrale aperto su tutti i fronti e lungo un arco temporale che parte dal 1959 e attraverso il 1961 arriva al 1964. Non sono anni relativi e il dilemma, suo e di tutta la città, era affrontare “il mondo come poteva essere contro il mondo così com’era”, mentre “la città prendeva ogni cosa tra le sue grinfie e la sbatteva di qua e di là. Magari potevi decidere in quale direzione, e magari no”. La spinta maggiore viene dalla musica, che Colson Whitehead diffonde come se ci fosse una radio accesa in sottofondo: il rhythm & blues e il be bop, Mingus Ah Um, Cab Calloway, Dinah Washington, Billy Eckstine, gli Ink Spots, le Supremes, Ornette Coleman, Duke Ellington, lo show dei Four Tops cancellato e W. C. Handy che abita di fronte a Leland Jones, il suocero di Ray Carney. È così che Il ritmo di Harlem riesce a condensare “il buon vecchio know-how americano in bella mostra: compiamo meraviglie, compiamo ingiustizie, e non siamo mai stati con le mani in mano”. Nelle mutazioni di New York, uptown & downtown e nel turbinio di “violenza-e-caos”, Colson Whitehead consente a Ray Carney, l’uomo senza qualità che si destreggia nelle ambiguità della metropoli, di galleggiare in una zona grigia, dove “c’era dolore e dolore. Diversi ordini di grandezza, sopportabili o no. Prendersi una fetta di torta e prendersi mezza torta”. L’atmosfera è questa, poi la sensazione è che la città in sé sia un organismo vivente che cambia pelle indifferente ai destini dei suoi abitanti. Si aprono i cantieri del World Trade Center, per qualcuno il futuro scompare all’improvviso, e si deve accontentare di una lapidaria constatazione: “Se continui a masticare una delusione, dopo un po’ perderà tutto il sapore”. È la storia di una vita, e di un’intera nazione, che lascia in bocca un gusto forte, e un po’ amaro.

lunedì 11 marzo 2024

Sigurd F. Olson

Il canto selvatico ha un indice composto dalle quattro stagioni attraversate come se fossero un’unica esperienza, frutto di un’immersione nella wilderness con tutti i sensi allertati (“Ovunque ci si trovi, è certo che si scoprirà qualcosa di memorabile”). La pratica della pesca (soprattutto), della caccia, l’osservazione e l’esplorazione conducono Sigurd F. Olson a considerazioni più ampie e approfondite rispetto al loro esercizio: “Sempre mi accompagnano la ricerca e l’ascolto, non solo per me stesso ma anche per chi era con me, e ho scoperto che ogni volta che riaccendevo un barlume di quell’originario sentimento di comunione e appartenenza conosciuto fin da bambino, ogni volta che intravedevo anche solo per un istante la meraviglia conosciuta allora, gioia e felicità mi colmavano”. Il viaggio a piedi lungo le rive o dentro il fiume in canoa (“Il movimento della canoa somiglia a quello di un giunco al vento. Il silenzio ne fa parte, così come lo sciabordio dell’acqua, il canto degli uccelli e il soffio del vento fra gli alberi. La canoa appartiene al mezzo che attraversa, al cielo, all’acqua, alle rive. Un uomo è parte della sua canoa e di conseguenza parte di tutto ciò che essa conosce”) lo porta a considerare che i laghi e gli stagni e le pozze nei torrenti hanno la stessa dignità. Le escursioni di Sigurd F. Olson sono volte in direzione di una dimensione che è nello stesso tempo primordiale e inedita, per quanto trascurata a favore di una realtà urbana, meccanica e artificiale che l’essere umano si è autoimposto in virtù di chissà quali obiettivi. Saganaga, Manitou, Lac la Croix, Isabella Skylien Trail, Low Lake, Gabemichigami, Kawishiwi, Snowbank Lake sono “luoghi in cui il tempo non significava niente e l’uomo poteva ritrovarsi e ascoltare i propri sogni”. Il rispetto per le origini native conduce a rivedere l’armonia tra gli esseri viventi e non: dagli alberi, le cui liriche descrizioni rivelano una relazione speciale agli animali (le trote, le oche selvatiche, lo scoiattolo, il germano reale sono protagonisti assoluti) fino alle pietre perché Sigurd F. Olson vorrebbe scambiare le sue piccole preoccupazioni “con un po’ della loro stabilità e calma” e ognuna di loro rappresenta una terra in comune. Nello stesso modo, raccoglie nodi di legno per conservarli e bruciarli nei momenti speciali, le chiacchiere con gli amici, perché “più bello che trovare nodi c’è solo vivere in un luogo remoto, portarsi via qualcosa dalle terre selvagge che nessun altro avrebbe trovato per te, una cosa che non vorresti che qualcun altro facesse, tanta è la gioia di farlo tu da solo”. Il canto selvatico è un’apologia incontrastata e insindacabile della wilderness, la splendida realtà della percezione della natura nel suo svolgersi diretto che si apre e si evolve come un processo di identificazione con il paesaggio e il territorio. Sigurd F. Olson scrive che “la ricerca stessa è una ricompensa, poiché nel processo attingiamo ai profondi pozzi dell’esperienza umana, e questo ci fa sentire di appartenere a un’esistenza in cui la vita era semplice e le soddisfazioni reali”. Quella consapevolezza riguarda lo sguardo, il movimento, il superamento delle difficoltà, perché “il piacere estetico non va sempre di pari passo con quello fisico, che non si possono apprezzare appieno odori, panorami e suoni se ogni passo è uno sforzo”. Finalmente una smentita dei luoghi comuni per cui faticare e rischiare sono una componente irrinunciabile, dato che poi sono molto più importanti “i tramonti, il colore delle nuvole e delle foglie, i riflessi sull’acqua”. La semplicità di ogni passo che sottintende Il canto selvatico è un’elegia alla scoperta del “silenzio della natura, quel senso di unità generato solo dall’assenza di immagini o suoni che ci distraggano, un’unità percepita dall’orecchio e dall’occhio interiori, quando sentiamo e siamo consapevoli con tutto il nostro essere piuttosto che con i sensi”. Sigurd F. Olson si premura di precisare più volte che “il silenzio appartiene al mondo primitivo. Senza di esso la vista di un paesaggio immutato non è altro che rocce, alberi e montagne. È il silenzio a dargli valore e significato”. Ed è lì che si può sentire quella che chiama “musica selvatica”, ovvero “il gemito e lo scricchiolio del ghiaccio che si forma sui laghi, il fruscio degli sci o delle racchette da neve sulla neve asciutta: tutta musica selvatica, musica per i nativi per coloro che hanno orecchie per udire”. Le stagioni ci sono ancora tutte, basta ascoltarle.

mercoledì 6 marzo 2024

Louise Glück

Nella Notte fedele e virtuosa c’è una “teoria della memoria” che si sviluppa per gradi nel racconto altalenante di Louise Glück. La notte “così desiderosa di contenere percezioni strane” è il momento propizio per salvare il pensiero di una bambina spaventata davanti al treno (e non a caso succede in Utopia) mentre “tutto il resto è ipotesi e sogno”. Le composizioni sono lunghe ballate che si snodano nella lingua lineare e immediata di Louise Glück, come in un personalissimo diario che presenta così: “La mia storia comincia molto semplicemente: potevo parlare ed ero felice. Oppure: potevo parlare, dunque ero felice. Oppure: ero felice, dunque parlavo. Ero come un fiotto di luce che attraversa una camera scura”. Le cronache famigliari vedono l’infanzia come una tavolozza di colori che viene riscoperta, un canovaccio utile per leggere i dettagli dei ricordi che si accumulano in una vita. Un pezzo dopo l’altro, come a tracciare un quadro generale, dice ancora Louise Glück: “Naturalmente in un certo senso non ero a mani vuote: avevo le mie matite colorate. In un altro senso è questo che voglio dire: avevo accettato dei surrogati”. I versi di Cornovaglia suggeriscono alcune possibilità. Prima, è la visione di una parola che “cade nella nebbia, come la palla di un bambino nell’erba alta dove rimane seducente lampeggiando e brillando finché si scopre che i barbagli d’oro sono comuni ranuncoli di campo”. Poi, “la notte avanzava. La nebbia turbinava sopra i lampioni accesi. Cioè dove era visibile, immagino; altrove era semplicemente nell’aspetto delle cose, confuse dove prima erano terse”. Nel confrontarsi con “un silenzio di parole risentite”, Louise Glück colloca la lettura di Un romanzo, dove “forse le parole saranno meno minacciose, se ricorderai come le hai sentite la prima volta, dalla voce di una bambina”. Si rivolge a se stessa, indagando in continuazione il passato e in contemporanea allargando lo sguardo a un universo fatto di piccoli schizzi, come succede in Avvicinamento all’orizzonte (“Così cominciamo. C’è un senso di allegria nell’aria, come se cantassero uccelli. Dalla finestra aperta arrivano ventate dal profumo dolce”) o in Mezzanotte: (“Finalmente la notte mi circondò; ci galleggiavo sopra, forse dentro, o mi portava come un fiume porta un battello, e allo stesso tempo vorticava sopra me, tempestata di stelle e tuttavia oscura”). L’osservazione e l’esercizio della percezione sono  una costante e questo, come scrive La coppia nel parco, “dovrebbe spiegare la musica enigmatica che proviene dagli alberi”. I rilievi sono tantissimi, passano da una canzone di Jacques Brel alle sfuggenti immagini urbane (“La città è dove sparisco”) anche se poi Louise Glück ritorna e riprova, e nel frattempo rammenta: “Era tutto alle mie spalle, tutto nel passato. Davanti, come ho detto, c’era silenzio”. La domanda che sovrasta la Notte fedele e virtuosa è quella che spicca, anche per contrasto, in Storia di un giorno: “Ma se l’essenza del tempo è mutare, come può una cosa qualsiasi divenire nulla?”, e la risposta sembra arrivare un po’ più in là, quando scrive: “Quanto è tutto tranquillo, silenzioso, come un pomeriggio a Pompei”. L’ironia è compresa nel prezzo e il commiato è il passo successivo: “Penso che qui vi lascerò. Viene da pensare che non c’è conclusione perfetta. In effetti, ci sono infinite conclusioni. O forse, una volta che si incomincia, ci sono solo conclusioni”. L’indecisione è un universo fluttuante e come scrive in La serie bianca, “la fine veniva e andava”, solo la poesia rimane sulla soglia di una casa popolata di fantasmi.

martedì 5 marzo 2024

Daniel Keyes

L’intelligenza è un desiderio assoluto che Charlie Gordon associa con molta spontaneità alla conoscenza e, in particolare, alla scoperta di sé e di una nuova consapevolezza della propria persona. Per più di trent’anni della sua vita è rimasto prigioniero della sua ingenuità e delle sue lacune, poi viene coinvolto in un tentativo di cura e di modifica delle attività cerebrali, destinato a rivoluzionare la cultura scientifica. Le intenzioni sono ammirevoli ed è in buona compagnia perché lo stesso procedimento è applicato a un simpatico topolino, Algernon. La modifica dell’intelligenza per via chirurgica e farmacologica però è instabile e provvisoria, come si scoprirà, ma sono più problematiche le alterazioni sociali che provoca nell’immediato. All’inizio Charlie non riesce a scrivere neanche in modo sensato, nonostante l’impegno. Terminare una frase è una tortura, ortografia e grammatica neanche a parlarne. Poi comincia a prendere padronanza delle principali proprietà della conoscenza, i progressi si fanno via via più importanti e sempre più veloci. Il diario comincia a diventare comprensibile. Per Charlie Gordon, la rinnovata intelligenza e la fame di conoscenza sono una corsa nel vuoto e un cambiamento troppo radicale. Prima ribalta la sua condizione di garzone in una panetteria, con conseguenze imprevedibili, poi lo sviluppo delle capacità intellettuali lo porta da cavia a testimone del suo esperimento, e ancora più avanti. Un salto di qualità che lo renderà in grado di esprimersi “a proposito delle varianti culturali e della matematica neo-bouleana e della logica post-simbolica”. Più di tutto, la nuova capacità intellettiva lo spinge a recuperare ricordi ed emozioni sepolte nel passato, compiendo un viaggio a ritroso nel tempo, verso le sofferenze famigliari, fino a ritrovare la madre e il padre e a confrontarsi con i traumi dell’infanzia (compreso l’elettroshock) e con quello che riemerge dai ricordi e nei sogni. L’associazione imperfetta tra intelligenza e subconscio tende ad alimentare i conflitti in modo esponenziale e a quel punto le reazioni sono incontrollabili. Charlie si trova ad affrontare l’inarticolato linguaggio dell’amore (e del sesso) con Alice e Fay e diventa un’incognita anche per il professor Nemur e il dottor Strauss, i fautori del test. Le modifiche chimiche hanno un funzionamento repentino in entrambi i sensi e questo vale anche per Algernon. Sono tutti e due cavie, ma Algernon non ha il dono e il peso dell’evoluzione del linguaggio e di conseguenza dei rapporti umani. Resta barricato in un angolo. L’intelligenza è limitata nel tempo, il progresso è retroattivo e il ciclo, tanto veloce quanto inverso,  si completa con l’involuzione di Charlie che ben presto torna a essere la persona limitata di prima. A sottolineare l’ultimo passaggio è ancora il legame con il piccolo topo: all’inizio c’era la competizione, poi la condivisione dello stesso, amaro destino, fanno di Fiori per Algernon un romanzo che tocca in profondità l’animo dei suoi protagonisti e, a distanza di mezzo secolo, pone degli interrogativi sull’intelligenza che sono sempre più attuali. Daniel Keys ha saputo concentrare tutta una spirale di speculazioni scientifiche e filosofiche in personaggi indimenticabili, a partire da Charlie Gordon, va da sé, che impongono a Fiori per Algernon un ritmo incessante e ipnotico e gli conferiscono la statura di un classico che, una lettura dopo l’altra, si rivela ogni volta più grande e importante.

sabato 17 febbraio 2024

Gina Berriault

Le luci della terra si perdono nel confronto del mare perché restano avvolte in una fitta nebbia di ricordi incontrollabili, rimpianti che proliferano come fantasmi, nessuna alternativa se non un falò in riva all’oceano, e va male pure quello. Gina Berriault segue personaggi “incapaci di comprendere il mondo e ostinati al modo in cui bisognava immaginarselo”: le loro relazioni sono claudicanti e faticose e il più delle volte sono tutti sull’orlo di una crisi di nervi, con una vocazione al suicidio, neanche tanto velata. Sono obnubilati da quello che chiamano“il presagio della perdita”, il senso latente di essere abbandonati che non li lascia mai. Ilona Lewis, più di tutti, è rimasta sola: il fratello, Albert, si è trasferito a Chicago e la figlia Antonia è in viaggio sull’Himalaya. Le lettere sono scambi di parti vitali, ma non sortiscono particolari effetti mentre Ilona, convinta che “dietro l’incertezza dell’amore c’è la certezza della complicità”, insegue Martin Vandersen, amante e scrittore che sta vivendo il breve abbaglio della notorietà e un bel momento di confusione indotto dalla provvisoria fama. A dire il vero, sono tutti scrittori (anche Ilona) a diversi gradi di disperazione. Per dire, Claud, un altro amico fragile, “ogni volta che trovava il libro di uno dei suoi scrittori preferiti a casa di qualcun altro provava una fitta di gelosia, come se lo scrittore fosse stato solo suo, il suo amico più caro”. Poi ci sono Jerome, che dopo anni di tribolazioni decide di distruggere il suo manoscritto, e la stessa Ilona che nell’insistere con Martin, crede che “la felicità degli amanti era realtà, e l’immaginazione non le si avvicinava nemmeno”. Le luci della terra è un breve romanzo imperlato di dolore, ma con una consapevolezza intima della sofferenza e delle difficoltà che le persone devono superare per avvicinarsi veramente, e conoscersi. La scrittura raffinata e superiore di Gina Berriault, fatta di frasi precise e taglienti, è spietata con tutti i suoi personaggi e se impone un confronto complesso è perché “chiunque ci guidi più a fondo nell’essenza delle cose all’inizio pare un nemico”. Non si fanno sconti: anche delle innocue campane a vento portano ricordi brutali e la sincerità resta l’ultima spiaggia, almeno per Ilona: “Se ho dei problemi, e ne ho, sono di quel genere che va bene avere, perché sono umana e provo sentimenti, e quei problemi non riguardano solo me, riguardano molte altre cose più grandi di me”. Le luci della terra testimoniano passaggi delicati nella cornice di San Francisco e della costa californiana, finché Ilona non è costretta a raccogliere le spoglie del fratello a Chicago. La tragedia in sé è “un senso di vergogna per la paura della perdita e per la perdita che di fatto avevano subito” e quando lei, e Claud, e Martin si accorgono che un abbandono “era naturale quanto il respiro”, è troppo tardi e la somma di solitudini trasforma Le luci della terra in un labirinto esistenziale che Gina Berriault sa architettare con grande equilibrio, ma anche con un calore inaspettato. Molto lo si deve al carattere di Ilona che riesce ad ammettere con un certo candore: “Se chini la testa per tanti anni sull’infinità di ciò che non sai, sull’immaginazione che è il sostituto del sapere, rimarrai sorpresa quando la rialzerai, scoprendoti più vecchia di quando avevi iniziato”. È il limite implicito di un’ossessione che “si esaurisce da sola o esaurisce la sua preda”, lasciando in eredità soltanto qualche traccia sulla battigia e le scintille di un libro che brucia da solo.

giovedì 15 febbraio 2024

Lou Berney

In Libra, il romanzo che Don DeLillo ha dedicato a Lee Harvey Oswald, un personaggio definisce l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy “un’aberrazione nel cuore della realtà”. November Road comincia da quel fatidico e irrisolto momento della storia americana, travolta dal fatto che, come scrive Lou Berney, tutti, da lì in poi,“temevano un futuro incerto. Temevano che la loro vita non sarebbe più stata la stessa”. Se questo vale per la gente comune che si è trovata di fronte a quel varco con le immagini in bianco e nero della televisione, figurarsi per chi è stato parte della macchinazione che ha cambiato il destino di un’intera nazione. Rovistando in libertà negli annali storici, Lou Berney sceglie un punto di vista insolito, svicolando dalle verità ufficiali e trovando i suoi protagonisti nell’ombra. Primo fra tutti, Frank Guidry, un luogotenente di Carlos Marcello, imperatore indiscusso della mafia americana dell’epoca: ha portato una macchina a Dallas e ci mette meno di un secondo a capire che i suoi giorni sono contati. Ogni cospirazione che si rispetti prevede il taglio dei rami secchi, perché i mandanti rimangano occulti e al sicuro per il resto della vita. L’eliminazione del nemico è solo la parte più appariscente e pericolosa, l’ondata di angoscia è dovuta al fatto che l’organizzazione di Carlos Marcello è ramificata e spietata. Per Frank Guidry, le opzioni sono limitate e la fuga s’impone con urgenza. Lo scenario di November Road è vasto in apparenza perché comprende un bel pezzo di America, da New Orleans a Los Angeles passando per Las Vegas, ma limitato dalle pareti delle camere di motel e, ancora di più, dagli abitacoli delle automobili, dove avviene gran parte della storia. È una lotta per la sopravvivenza che Lou Berney sa gestire con il dono della chiarezza e della semplicità, facendo risaltare le limitate opportunità dei criminali e l’ottusità delle loro scelte. Ciò diventa ancora più evidente quando Frank Guidry incontra Charlotte, che è quanto di più distante da quel milieu. Lei è in fuga (con le figlie, Joan e Rosemary, e il cane Lucky) da un matrimonio asfissiante e l’incrocio dei loro destini dipende dall’idea che “non c’era bisogno che qualcuno ti predicesse il futuro se potevi creartelo da solo”. In November Road, l’autosuggestione è l’elemento per cui tutti si convincono che hanno ancora una possibilità, compreso Paul Barone, il killer sguinzagliato per eliminare testimoni e pedine sacrificabili che si lascia alle spalle un’infinita scia di sangue. L’inseguimento non ha tregua e il ritmo è dettato dal jazz (Art Pepper, John Coltrane, Miles Davis) e dalle evenienze e dagli incidenti on the road: Lou Berney usa il romanzo (noir) per mostrare come il complotto si autoalimenta, moltiplicandosi senza controllo. I suoi personaggi sono in balia delle loro stesse scelte perché è vero che “con ogni decisione creiamo un nuovo futuro. E distruggiamo tutti gli altri futuri”, ma, come un effetto collaterale imprevisto, la sensazione di insicurezza è un’ombra pesante come un sudario intriso di paura. Diceva Don DeLillo: “La gente ha sviluppato l’impressione che la storia sia stata segretamente manipolata. Documentazione persa e distrutta. Documenti ufficiali sigillati per cinquanta o settantacinque anni. Una quantità di omicidi strani e suicidi che hanno coinvolto persone implicate nei fatti del 22 novembre. Così, a partire dallo shock iniziale, istintivo, credo che abbiamo sviluppato un sentimento molto più profondo di inquietudine per la nostra mancanza di controllo sulla realtà”. November Road lo racconta in modo più prosaico, mettendo un fotogramma dopo l’altro: una telefonata, la pioggia sulla strada, una sigaretta che si accende, l’apparizione di un’arma, una portiera che si apre, un bagagliaio che si chiude, una finestra sul deserto, capolinea.