martedì 31 dicembre 2024

Stephen Markley

Incendi a Los Angeles, alluvioni a New York, l’acqua alta a Venezia, Washington sotto assedio: in un mondo governato dagli algoritmi, occupato dalle realtà virtuali, popolato di ologrammi e macchine che si guidano da sole,  e su cui incombe la minaccia del riscaldamento globale e degli effetti sul clima, dagli uragani alle tempeste di sabbia, un manipolo di personaggi affronta quello che, in prima istanza, appare come “l’ennesimo spasmo di un’infinita saga americana”. Come molecole in cerca di definizione, i protagonisti di Diluvio sono tanti e tutti annodati da percorsi collaterali che si incrociano e convergono, in un arco temporale che va dal 2017 al 2040, quindi con un piede nel passato prossimo e la testa in un futuro, non molto diverso dalla realtà del presente. I cataclismi più o meno naturali e i sommovimenti disumani trovano continue corrispondenze nello sviluppo delle personalità che, in un modo o nell’altro, sono condannate ad affrontare il pantano della politica e dei mass media nella declinazione digitale, un universo informe in cui “ormai è difficile dire cosa è legale e cosa no”. Fin qui ci siamo, ed è chiara l’intenzione di raccontare “la natura effimera del potere” e, come conseguenza diretta e indiretta, “la fragilità delle cose che sembrano così solide e  permanenti”, così come è altrettanto evidente che, nella biblica evoluzione di Diluvio (1293 pagine, per la precisione), la responsabilità del caos alla fine va cercata nei palazzi più che nelle “transizioni di fase degli idrati di metano”, e in altre sorprese bio e tecno, che hanno comunque un loro peso. Per dire, a partire dall’incipit, il linguaggio scientifico è soltanto una delle tante e variegate forme di scrittura che formano Diluvio, insieme a quella del giornalismo, delle istituzioni, all’interno di dialoghi diretti e indiretti, senza soluzione di continuità. Un’apocalisse in arrivo e uno tsunami di parole, che senza dubbio Stephen Markley sa organizzare e distribuire in modo compiuto e coinvolgente, ricostruendo con perizia contesti molto diversi, dalle paranoie delle milizie alle burocrazie dei governi, dai sermoni radiofonici fino alle dinamiche famigliari. Succede di tutto in Diluvio, ma, un po’ come già capitava in Ohio e qui proiettato all’ennesima potenza, c’è qualcosa che non va. All’inizio, si tratta soltanto di qualche nota falsa (ce ne saranno parecchie), più di una ripetizione e la sensazione che la trama si sia stata dilatata a dismisura senza averne la necessità. Poi, mentre i personaggi vanno e vengono, amano e tradiscono, uccidono e muoiono, ma sempre con le stesse dinamiche come se fossero incastrati in una catena di montaggio, Diluvio appare per quello che è: una sorta di specchio deformante, che attinge alla cronaca e la proietta altrove con una sua specifica urgenza. In questo è coerente con quello che succede nel suo svolgimento, dove si sostiene che “il paradosso centrale di ogni crisi è che ciò che sembra ingiusto o scorretto spesso è proprio ciò che serve per sconfiggere la crisi”.  Vale per lo stesso romanzo, che moltiplica gli sforzi nel tentativo di delineare una narrazione complessiva e riesce soltanto ad accostare tanti frammenti senza che affiori un quadro intellegibile. Cosa c’è in Diluvio che non sappiamo e che non ci venga bombardato addosso tutti i giorni? L’elenco dei danni compiuti e dei capovolgimenti di fronte è all’ordine del giorno e non è ben chiaro cosa voglia dire Stephen Markley, se non aggiungersi a tutte le sensibili e meritevoli sentinelle che ormai da un bel po’ di tempo hanno suonato l’allarme. È giusto così, ma nella sua prolissità, Diluvio è l’equivalente letterario di un film catastrofico in voga qualche anno fa: rombi e boati, colpi di scena e salti mortali, baci, abbracci e addii, finché non emerge una vaga sensazione di noia. 

lunedì 23 dicembre 2024

Sam Wasson

C’è una logica nel cominciare Il sentiero per il Paradiso richiamando l’interminabile assillo di Apocalypse Now, un film che è tutto un universo a parte. Lo ammette lo stesso Francis Ford Coppola quando dice: “Siamo tutti prodotti di questa terra primitiva proprio al pari di un albero o di un indigeno che se ne va in giro urlando. L’orrore di cui parla Kurtz non viene mai risolto. Man mano che Willard si addentra nella giungla, si rende conto che la civiltà che l’ha mandato è in un certo senso più selvaggia della giungla. Insomma, quella guerra l’abbiamo creata noi”. Apocalypse Now ritorna a ciclo continuo, è un’esperienza che determina il ritmo di tutta la Storia di Francis Ford Coppola fin dallo script di John Milius, quasi a confermarne il suo fondamentale assioma: “La realtà in cui viviamo va al di là delle nostre percezioni immediate”. Mettere in primo piano lo sviluppo incontrollabile di Apocalypse Now è una scelta che ha senso perché Coppola non è soltanto un regista visionario, capace di realizzare “film/mondo”. È stato un precursore che aveva intuito la necessità di possedere i mezzi di produzione, di comprenderli e di svilupparli. Il ruolo della tecnologia, dalla pellicola al digitale, ha un peso determinante nella costruzione degli Zoetrope, l’utopia possibile di una cinematografia senza limiti, come ben delineato dal regista: “La mia idea di studio perfetto era: fai un film con una reale possibilità di enormi guadagni e poi ne fai un altro con zero possibilità di guadagni, ma uno protegge l’altro”. Non era soltanto quello: c’è il proposito costante di modellare “un mondo da sogno”, ma la vera sfida, come ha visto giusto Sam Wasson, era “creare la vita reale”. Il paradosso è ben spiegato dallo stesso Coppola: “La mia tecnica per fare film consiste nel trasformare l’esperienza fotografica, per quanto possibile, nell’esperienza della finzione (qualsiasi essa sia) di cui ci stiamo occupando”. Gli sforzi economici per garantire questa percezione sono una saga nella saga che viene narrata come un’avventura piratesca. Coppola, sempre in bilico tra successo e bancarotta, nella documentatissima biografia di Sam Wasson non è un corpo estraneo alle logiche di Hollywood, ma Il sentiero per il Paradiso è un vademecum dei rapporti di forza dentro, intorno e dietro alle produzioni californiane. Nonostante gli Oscar e Il Padrino, il rapporto è conflittuale: Coppola insegue un’idea di indipendenza molto pericolosa per lo status quo. Spunta persino uno striscione che dice: “Non scherzare con la Grande Hollywood, sogna come ti viene ordinato”, ed è qui il punto perché per Coppola non è soltanto fare un film, la vera questione è come farlo: “I miei film sono insoliti, in parte perché considero l’arte un’avventura”. Per questo, Apocalypse Now è un’onda che riemerge a cicli regolari, fino alla fine: è stata, sì, un’immersione totale nella guerra del Vietnam e nel “cuore di tenebra” di Conrad, ma è l’espressione più intima, profonda ed esplosiva (in tutti i sensi) della personalità di Francis Ford Coppola. Ed è così che Sam Wasson ne descrive le gesta trasformando la vita e la carriera, trascorse “facendo cinema praticamente alla velocità della propria immaginazione”, quasi in un avvincente romanzo che delimita una bella fetta del cinema e della cultura lungo tutto l’arco del ventesimo secolo e di parte di quello successivo. Trascinante nel racconto, che si inoltra nei dettagli personali, a partire dalla famiglia per finire con le amanti, prodigo di dettagli nei riferimenti cinematografici e letterari, così come nelle vicissitudini finanziarie della Zoetrope, Il sentiero per il Paradiso ci porta nell’atmosfera turbolenta di un grande sognatore, capace di affrontare i momenti più difficili con una festa, un piatto di pasta e la musica ovunque, perseguendo “lo spirito di libertà, anarchia, follia e comunità” che l’ha distinto.  Nella testimonianza di un osservatore privilegiato, Vittorio Storaro, diventa evidente che per Coppola “non c’è differenza tra vivere in famiglia, dirigere e girare”. Questo afflato supera il senso dell’arte in sé e diventa una sorta di monito filosofico nelle parole dello stesso regista: “Nel cinema e nella vita ti succedono cose straordinarie e sta a te farle diventare positive, perché la buona notizia è che non esiste l’inferno, ma la quasi buona notizia è che questo è il paradiso. Quindi trasformate lo straordinario in paradiso. Perché dipende da voi. Non sprecate il paradiso. E lo stesso vale per i film”. Anche Kurtz e Willard sarebbero d’accordo, B-52 permettendo.

mercoledì 18 dicembre 2024

Derek Walcott

Per quanto l’origine delle poesie che costituiscono la Mappa del nuovo mondo sia una parziale ed eterogenea selezione che va dal 1948 al 1984, qui viene rappresentata una bella porzione della scrittura di Derek Walcott. Il mare è protagonista in ogni pagina e i versi ondeggiano gioiosi come succede già in Un canto di marinai: “La musica si dispiega con le morbide vocali delle insenature, il battesimo dei vascelli, i documenti di viaggio, i colori delle uve marine, l’asprezza dei mandorli marini, l’alfabeto delle campane, la pace di bianchi cavalli, i pascoli dei porti, la litania delle isole, il rosario degli arcipelaghi”. La vita nell’oceano ha molte variabili (“Nel film delle 12.30 è meglio che i proiettori non si guastino o vedreste la rivoluzione) che vanno dalle condizioni climatiche (“C’è una luce dannatamente strana, in questa stagione il cielo dovrebbe essere chiaro come un campo”) alle necessità della cambusa fino a legami superiori e incredibili (“Se ascolto posso udire il polipo al lavoro, il silenzio infranto da due onde del mare”). Come scrive Iosif Brodskij nell’introduzione di Mappa del nuovo mondo: “L’atto di conferire a un luogo lo status di realtà lirica comporta più immaginazione e più generosità che non l’atto di scoprire o sfruttare qualcosa che era già stato creato”. Schiuma, riflessi, isole, barche, promontori, leviatani: nei versi di Derek Walcott scorre una visione panoramica fluttuante e rigogliosa, ricca della consapevolezza che “l’arte è profana e pagana” ed è l’ultima spiaggia prima della dissoluzione, come precisa ancora Iosif Brodskij: “Poiché le civiltà sono qualcosa di finito, nella vita di ognuna viene un momento in cui il centro non tiene più. Ciò che allora le salva dalla disintegrazione non è la forza delle legioni, ma quella della lingua”. Per Derek Walcott, figlio di una colonia, significa trovare un’identità all’interno di frangenti storici e geografici mutevoli, sfuggenti e sorprendenti. In un verso che ha colpito lo stesso Brodskij, La goletta Flight declama: “Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, sono nessuno, o sono una nazione”. Questa definizione assume un ruolo particolare nelle circostanze in cui si profila all’orizzonte “la morte di un grande impero”, quando Derek Walcott riflette: “Un tempo pensavo che bastasse l’amore per il proprio paese, ora, anche a scegliere, non c’è posto al trogolo”. Ritrovare il senso di un habitat è difficile perché “questo ci hanno lasciato quei bastardi: parole” e “ora non avremo altra nazione che l’immaginazione”. Il successivo disorientamento è palese in Preludio: “Noi perduti; trovati solo in opuscoli turistici, dietro ardenti binocoli; trovati nel riflesso blu di occhi che hanno conosciuto metropoli e ci credono felici, qui”. Una cruda distinzione: la Mappa del nuovo mondo è una fioritura continua che, nelle fratture, nelle ferite (“C’è troppo nulla qui”) e nelle contraddizioni, trova un orizzonte ineludibile, quando in Codicillo afferma che “per cambiar lingua devi cambiare vita”. È solo il preludio all’ultima e precisa definizione di Concludendo: “Ora, non chiedo nulla poesia, se non vero sentire”, ed è tutto lì, molto chiaro e molto semplice. Finché, “artigiano e naufrago tutto il paradiso nella testa”, Derek Walcott si confessa dicendo: “Io che ho per sole armi la poesia e le lance delle palme e lo scudo splendente del mare”. Poi, seguendo l’onda che lui stesso ha generato ammette che deve “leggere più attentamente” con l’ambizione proclamata in grande stile in Vulcano: “Si potrebbe anche smettere di scrivere per seguire i segnali dei grandi, un lento fuoco, e diventare, invece, il loro lettore ideale, ruminante, vorace, che antepone l’amore per i capolavori al tentativo di ripeterli oppure superarli, e diventare il più grande lettore al mondo”. Ottima idea.

giovedì 12 dicembre 2024

Wendell Berry

Per le vacanze natalizie, a cavallo tra il 1943 e il 1944, Andy Catlett si trasferisce in campagna dai nonni materni e paterni. La trasferta non è poi così epica: la distanza è relativa, la geografia non cambia. Però è il suo primo viaggio da solo ed è l’occasione per sviluppare un punto di vista singolare. All’arrivo, l’osservazione è puntuale ed eloquente: “Era un mondo collocato fermamente dentro le stagioni sotto la piena luce del giorno e l’oscurità assoluta. Pensavo che fosse sempre stato così e che sarebbe rimasto così per sempre”. Il breve percorso è un grande salto che suggerisce una visione più ampia, pur partendo dalle ridotte dimensioni del villaggio, anche perché “viaggiare, specialmente da soli, esprime sempre un potere metaforico”. Quando scende dall’autobus, riscopre un’atmosfera di un altro secolo e lì parte il confronto tra due epoche diverse: quella a trazione animale e quella dei motori a combustione interna, una distinzione che si identifica anche nella differenza tra i due rami dell’albero genealogico. Una dolcezza inusitata pervade le scoperte di Andy Catlett che è un ragazzino educato, ma abbastanza curioso da sviluppare un’intera cosmogonia in un piccolo villaggio agricolo, legato allo scorrere delle stagioni e ai ritmi naturali del clima e degli animali. Wendell Berry è accurato nel mostrare i valori della semplicità e della frugalità che si intravedono nella descrizione dei pasti, della convivialità e del rapporto degli adulti, ormai anziani, nei confronti di Andy. Si premura di notare che nell’insieme “era un’economia basata direttamente sulla terra, sull’energia del sole, sulla perizia individuale e sulla parsimonia, e sulla capacità delle persone di prendersi cura di sé stesse”. È un’annotazione specifica, tra le tante: Wendell Berry ha una grazia particolare nell’interpretare la percezione del piccolo Andy che si identifica in un “viaggiatore solitario” capace di entusiasmarsi per poco e di coltivare una sua collocazione tra stalle, cortili, laboratori e negozi occupati dagli adulti. Contando anche un bel po’ di riferimenti autobiografici, la constatazione di Andy risulta sincera e convincente: “Il mondo che ho conosciuto da bambino, non c’è dubbio, aveva i suoi difetti, ma era concreto e autentico”. Con i suoi occhi con la sua voce Wendell Berry trasmette la sensazione di un’era che sta sfumando dentro un’altra con l’ombra della guerra che incombe ed evidenzia tutta la fragilità di una small town nella prima metà del ventesimo secolo. Non dimentica il “massacro”, le persone che se ne sono andate, quelle che sono tornate mutilate e tutte le restrizioni dovute allo sforzo bellico, come viene puntualmente notato: “A quei tempi c’erano limiti di ogni tipo, sufficienti a ricordare anche a un bambino che al di là del mare c’erano persone che combattevano e venivano ferite e uccise a qualunque ora del giorno e della notte”. Grazie ad Andy le differenze tra i secoli emergono in una lunga teoria di dettagli (le stufe economiche e la luce elettrica, il carro trainato dai muli e le automobili e l’autobus) che vengono ben distinti con l’osservazione e con arguzia. Quel passaggio storico coincide con la scoperta della perdita e un grado di crescita che riserva una sorpresa dietro l’altra. Nella semplicità della scrittura di Wendell Berry, che ha una rude eleganza, le contrapposizioni sono vitali: come si capirà inoltrandosi nella trama, Andy è già adulto mentre dispiega la sua esperienza rurale, finché ricorda: “Eravamo entrati nel silenzio più profondo di tutti: il silenzio di ciò che deve ancora venire, di chi aspetta ciò che deve ancora venire”. Un racconto incantevole che riesce a cogliere le sfumature dei colori, gli odori e i profumi del cibo, e nello stesso tempo, i limiti, i conflitti e le contraddizioni di un futuro spietato.

venerdì 29 novembre 2024

Paul Auster

Sullo sfondo di una New York conturbante, Sidney Orr, scrittore che torna alla vita dopo una malattia improvvisa e devastante, è una sorta di guida nei gironi che via via bisogna affrontare. È un percorso con molti ostacoli che lo stile raffinato di Paul Auster non nasconde e nemmeno tenta di mitigare: La notte dell’oracolo ha una costruzione complessa e la proliferazione delle storie, incastrate una dentro l’altra, comincia subito a infittirsi e a farsi labirintica almeno quanto la città in cui si svolgono. Dentro questa architettura, Sidney Orr si muove un po’ come un rabdomante anche se non è chiaro cosa sta cercando e dove lo stanno portando le sue personalissime passeggiate e la nuova dimensione acquisita dopo aver rischiato la vita. È tutto un florilegio di sottintesi da racconti, sceneggiature, romanzi, adattamenti e di citazioni di Dashiell Hammett che punteggiano le sue giornate. Dal punto di vista letterario La notte dell’oracolo è come un viaggio in metropolitana, ogni fermata conduce in un luogo diverso della stessa città: le scritture sono tante e c’è qualcosa di incompleto che si ripete. Il racconto che Sidney Orr scrive sul nuovo taccuino portoghese comprato in uno strano negozio non ha fine e s’incastra in un vicolo cieco. Il romanzo che è all’origine di tutto resta un’incognita. L’adattamento proposto per La macchina del tempo di H. G. Wells si perde nei meandri di Hollywood mentre la proposta dell’amico John Strause, a sua volta scrittore ormai impossibilitato a muoversi, di rivedere un’opera giovanile chiamata L’impero delle ossa finisce sparsa sul pavimento della metropolitana. Come se non bastasse, Sidney Orr si imbatte nell’ennesimo romanzo che narra di un altro romanzo e così La notte dell’oracolo diventa una serie di scatole cinesi che si compensano, senza però trovare un’armonia complessiva o una collocazione definitiva. Non c’è una singola parte che riesca ad arrivare a una destinazione e, nell’insieme, nemmeno lo stesso romanzo di Paul Auster. Le trame si attorcigliano una dentro l’altra e se New York resta il luogo ideale per ospitarle, rimane il fatto che arrivano tutte in un cul de sac. Anche la vicenda principale, quella che si svolge attorno a Sidney, Grace (la moglie) e John Strause e che si conclude nel gran finale, è talmente ingolfata di digressioni, sottintesi e paralleli (per non parlare delle fittissime note a piè di pagina che sono un’ulteriore divagazione) che pare sfuggire di proposito all’obiettivo. Come se non bastasse, La notte dell’oracolo ospita anche l’enigmatica figura di Chang, che si presenta nei momenti più sorprendenti, dove le alterazioni nella vita di Sidney Orr raggiungono livelli onirici, se non proprio magici. I limiti stanno in una rappresentazione autoreferenziale che è particolareggiata e fluida, ma che in definitiva sembra non scegliere mai una direzione precisa, forse in ossequio al fatto che “il mondo è governato dal caso”, e non è che si può fare diversamente. Certo, la celebrazione del potere della scrittura e delle storie, a cui vengono attribuite persino facoltà divinatorie e premonitrici, gli echi di Calvino, Borges e Kafka si sentono e sono evidenti nel condensare il valore delle parole che “sono reali”, così come “tutto quello che è umano è reale, e a volte conosciamo le cose prima che succedano anche se non ne siamo consapevoli. Viviamo nel presente, ma il futuro è dentro di noi in ogni momento”.  La parole non scorrono invano, i personaggi appaiono, fanno la loro parte (il più delle volte, parecchi danni) e scompaiono nel nulla, Sidney Orr soffre segreti, bugie e rivelazioni e Paul Auster non si discute, ma La notte dell’oracolo rimane criptico ed eccessivo, come una mappa di New York consumata dall’uso e dove ormai la geografia bisogna immaginarsela.

martedì 26 novembre 2024

Henry Wise

Aveva ragione Tom Petty: quella roba lì “non la buttano via, è ancora là, si tramanda di padre in figlio”. Si tratta proprio dei “southern accents” che pervadono Holy City, notevole esordio di Henry Wise (nella traduzione di Olimpia Ellero) che ci porta dritti laggiù. La cornice iniziale è già in qualche modo definitiva: un incendio, un morto, un uomo sulla scena del crimine, l’inseguimento, l’arresto. Le prime prove sono molto pesanti e lo sceriffo pensa di aver risolto il caso. Will Seems, giovane vice che nel nome e nel cognome contiene tutta la storia è convinto della sua innocenza e segue “un film che aveva senso solo per lui”. A quel punto l’omicidio alla fonte della trama di Holy City pare quasi relativo, così come la caccia al colpevole. Tutti hanno qualcosa da nascondere: un rimpianto, un rimorso, il senso di colpa, un sospetto che si allunga nello spazio e nel tempo. Dalle contee di Euphoria ed Emporia fino a Richmond, la Virginia appare popolata da “un’unica grande famiglia” ma è come se fossero tutti sconosciuti e le strade che percorrono non portino da nessuna parte, delimitando “una terra dura e ondeggiante che aveva finito per plasmare tutti loro, i loro corpi, i loro sogni”. Henry Wise si prodiga con una scrittura lucida ed elegante per far notare che “da quella pressione si veniva schiacciati o spinti ad andarsene per rifarsi una vita altro”. Lo stesso Will Seems “aveva l’impressione di aver vissuto un’intera vita a cercare qualcuno e di essersi ritrovato alla fine al punto di partenza, solo che quel punto di partenza era cambiato, e lui no. Non c’era nessun posto a cui tornare”. In effetti, il suo rientro è dovuto al ricordo di un’aggressione a sfondo razzista nel suo passato e a una sensazione urgente, come se tutti “potessero tornare indietro nel tempo, solo per rivivere tutto”. La memoria incide almeno quanto le apparenze ingannano e ben presto alla prima linea maschile subentra una compagine femminile che determinerà le sorti di Holy City, a partire da Bennico Watts, un’investigatrice privata che riuscirà a smuovere una situazione intricata. Il ruolo delle donne e della fede è celebrato da Henry Wise persino nel cibo quando “una grande cena” viene confezionata con il pane fatto in casa, il pesce gatto fritto  “l’okra raccolta nell’orto, lessando il mais con tutta la pannocchia, e bollendo le cime di rapa con cipolla e bacon nel brodo di pollo”. Nel menù c’è tutto il Sud e nell’identità c’è un tempo che non passa, divisioni che rimangono come ferite, fratture che spaccano le persone non meno del territorio mentre Will Seems si prodiga nel “catturare, o meglio cercare di catturare, la luce cruda e arroventata di mezzogiorno. Intravedeva delle possibilità, aveva delle visioni, delle forme di estasi. Andava sempre così. A volte, ciò poteva rappresentare una fonte di pace: prendere le cose per come erano, per come sarebbero sempre state”. Nella Virginia di Holy City, i contrasti tra uomini/donne, bianchi/neri, legge/giustizia si sovrappongono agli intrecci famigliari. È lì che gli “accenti sudisti” si fanno sentire: “Guarda l’esempio offerto da questo posto: non ha mai superato la Guerra Civile, e perché? Perché il Sud ha perso. Noi pensiamo di odiare quella ferita, eppure non riusciamo a separarcene”. La soluzione non sarà indolore, ma questo, con un minimo di dimestichezza, lo si può intuire fin da subito, e del resto Henry Wise la lascia emergere già a metà della storia. Restano le distanze tra le contee e Richmond, la città dove finisce tutto, e persino all’interno dei quartieri tra Southside e Promised Land. Anche la scelta dei nomi (non casuali) porta a capire che con Holy City abbia voluto rendere “qualcosa di magnetico, di triste, di bello” che aleggia sul Sud degli Stati Uniti e che in gran parte resta ancora inafferrabile.

mercoledì 20 novembre 2024

Tom Robbins

Irriverente e visionario come non mai, Tom Robbins costruisce un’articolata allegoria del potere e una parodia senza freni della ricerca di una vita per comprendere “il significato delle cose”. L’oggetto dell’estremo desiderio che coinvolge ogni protagonista di Profumo di Jitterburg è un profumo portentoso, rincorso da una variopinta umanità che va da una cameriera a Seattle a un immortale (o due) a Costantinopoli, da una regina di New Orleans a un uomo con una maschera da balena a Parigi, dato che “a questo mondo ci sono persone che posso indossare maschere a balena e persone che invece non possono”. La ricerca dell’essenza filtra attraverso i secoli così come negli spazi e sopra gli oceani: secondo la percezione di Tom Robbins “ci sono apertamente poche limitazioni di tempo o di spazio per i viaggi della psiche, e soltanto l’ispettore di dogana assoldato dalle nostre inibizioni pone limiti a ciò che ci si può portare dietro quando rientriamo nella quotidiana coscienza”. Le frontiere saltano subito: Kudra e Alobar, due personaggi centrali, “incerti, intrepidi, forse immortali, decisamente innamorati”, partono quando “la terra era ancora piatta e la gente sognava spesso di precipitare giù dal bordo”, passano per l’Himalaya approfondendo il Kamasutra e, in compagnia del dio Pan, vagano fino alla terra promessa, ovvero l’America. Nel frattempo passano i secoli e sull’affollatissimo palcoscenico di Profumo di Jitterburg vanno in scena Descartes, Einstein, Mary Quant, l’impero romano e il cristianesimo, l’estinzione dei dinosauri e di tutto e di più secondo l’insindacabile regola per cui “il mondo è un puzzle e la vita un cappio”. Per di più, allo spasmodico inseguimento del profumo si sovrappone l’apparizione delle barbabietole, un tubero con una sua peculiare caratteristica che, alla fine, sarà risolutoria. “L’aroma del paradosso” è il vero Profumo di Jitterburg, un romanzo caotico e scoppiettante che è un tutto: provocatorio e incongruente, ma con un suo specifico motivo, una mappa mentale che si dipana secondo progressi ineluttabili, ma anche imperscrutabili. Un ordine c’è ed è quello dello scrittore, della sua particolare percezione del mondo, capace di scompigliare le trame, quel tanto “da complicare un po’ la storia. Se a una situazione non si riesce a estrarre alcun lume, tanto vale estrarci un po’ di spasso”. Profumo di Jitterburg è un romanzo portentoso, che ribolle di comicità, erotismo, miti “che spiegano il mondo” e leggende che lo confondono. Ogni personaggio è “il re di se stesso” e, con ogni singola voce, si attorciglia attorno a una forma erudita e cosmopolita, eppure chiarissima e divertente. A volte fin troppo, e non è sempre agevole seguire il filo del discorso, ammesso che ce ne sia uno, ma il ritmo è pazzesco e coinvolgente. Digressione dopo digressione, Tom Robbins crea universi di parole, ben consapevole che “forse la cosa più terribile (o meravigliosa) che possa succedere a una giovane persona piena di immaginazione, a parte la maledizione (o benedizione) dell’immaginazione in sé, è venire a contatto, senza esservi preparata, con la vita al di fuori della propria sfera, l’improvvisa rivelazione che c’è per l’appunto qualcosa là fuori”. Il trucco è precipitare in libertà dentro una voragine di storie che si accavallano una sopra l’altra: Profumo di Jitterburg è un’odissea pan-aromatica e psichedelica nel senso più esteso del termine, con un gran finale nel carnevale del Mardi Gras, tra jambalaya e champagne, e non poteva esserci destinazione più accurata.

lunedì 18 novembre 2024

James Lee Burke

Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che Clete Purcel e Dave Robicheaux soffrono di disturbo da stress post-traumatico, maturato tanto in Vietnam quanto nelle strade di New Orleans. La città non aiuta e lo spiegava benissimo Tom Robbins quando dice che appena ci arrivi “qualcosa di bagnato e di scuro ti balza addosso e comincia a dimenarsi come un randagio in calore uscito dalle paludi”. L’unica possibilità di disfarsi di questo odore è adeguarsi, e mangiarlo e così si spiegano i numerosi pasti quotidiani di Clete e Dave, che sono poi i momenti principali in cui si ritrovano a confrontarsi con i rispettivi fantasmi. In questa osmosi di ruoli con Streak, Clete pare più riflessivo, anche se si dedica alla distruzione con il consueto tatto, compreso l’utilizzo, non proprio a norma, di una betoneria. È solo un episodio, il più delle volte va  dispensando un’inedita saggezza: “Vi spiego. Disorienta il tuo nemico. Fai l’inaspettato. Se non funziona, non fare nulla. Lascia che il silenzio sia la tua arma. Il punto è confondere il nemico e fargli rivolgere le energie contro se stesso. Non è difficile. Il colpo migliore nella boxe è quello che eviti”. I tentennamenti di uno e i black-out dell’altro li conducono a incrociare uno sciame di forze maligne che coltivano ancora l’oppressione, lo sfruttamento, la violenza come strumento di un potere assoluto e feroce, nascosto dietro paraventi di affettata cortesia e antico galateo. I Bobbsey Twins si trovano a combattere tra Hollywood e il Ku Klux Klan (o qualcosa di peggio) e la vera lotta, mostri, allucinazioni e veleni a parte, è contro l’ipocrisia dato che “la Louisiana meridionale è il paradiso, a patto che si chiuda un occhio e non ci si soffermi sulla corruzione, che qui è uno stile di vita”. Il nemico è sfuggente e pericoloso. Non manca la femme fatale di turno, ma sono altre le figure femminili che si impongono per il coraggio, la forza, la determinazione, a partire da Giovanna D’Arco, le cui apparizioni punteggiano tutta la trama di Clete. L’elemento soprannaturale e/o fantastico, non insolito nei romanzi di James Lee Burke, distingue in modo particolare la visione di Clete Purcel che è nella stessa prospettiva di Streak, solo che cambia l’approccio. Però, dai e dai, i due prima si completano e poi si sovrappongono e così Clete è il riflesso naturale di New Iberia Blues o Una cattedrale privata, una celebrazione infinita della saga e la doverosa affermazione di Clete Purcel, un personaggio che deve essere sfuggito di mano a James Lee Burke e che si concede più di una confidenza (e figurarsi se non può permettersela). Clete Purcel si rivolge a tutti, anche ai lettori trascinandoli in un gorgo ipnotico e avvincente. Business al usual, d’accordo, ma come i piatti saporiti e succulenti della cucina sudista, c’è molto da gustare: la vista dello scenario resta uguale per entrambi e New Orleans  e gli altri distretti della Louisiana sono parte di un ecosistema fragile e unico, sospeso tra la terra e l’oceano che hanno un loro punto di incontro nel bayou. Albe e tramonti nelle sfumature variopinte della luce contribuiscono in modo determinante alle suggestioni del romanzo e ipnotizzano Clete e Dave non meno di James Lee Burke. Poi, “è solo rock’n’roll. Tutti arrivano alla stessa destinazione. L’importante è come ci si arriva”. Si era capito nella dedica a Nils Lofgren, dalla citazione illuminante di Light My Fire dei Doors, a quella, non meno importante, di Promised Land di Chuck Berry, ma l’apoteosi è riservata a Bob Seger che, en passant, viene definito il più “grande filosofo americano”. Mai avuto dubbi, ma è bello vederlo scritto nero su bianco.

lunedì 11 novembre 2024

Edward Bunker

Come scrive James Lee Burke, “il punto non è la reclusione; è l’umiliazione. È la perdita instantanea dell’identità e della dignità”. La rassegnazione della vita in carcere è tutta lì: il rapporto con i secondini e con la burocrazia, le gerarchie dentro le mura, le divisioni e i conflitti razziali, l’idea fissa dell’evasione, i rapporti alterati dalla paranoia, e comunicazioni attraverso le tubature dei cessi, l’equilibrio (si fa per dire) tra punizioni e concessioni, le risse e le rivolte determinano la pena quotidiana di Animal Factory, ovvero San Quentin, e rappresentano un cupo capolinea senza alcuna umanità, solo giorni che si consumano nel nulla. Ronald Decker, giovane e inesperto spacciatore, al suo debutto nel sistema carcerario, trova una sponda inaspettata e fortunosa in Earl Copen, un veterano inserito alla perfezione nelle dinamiche della galera. Il primo incontro avviene nel corso di uno sciopero che mette subito in risalto le tensioni che vedono tra scontrarsi tra loro masse di detenuti poi destinati a soccombere con l’intervento delle guardie che sparano con tutto quello che hanno a disposizione. Nessuna pietà: Animal Factory (nella traduzione di Fabio Zucchella) è governato da forme di violenza che si propagano in ogni direzione, spesso con l’aggravante sessuale. Ron è una preda facile della “definitiva mancanza di significato della vita in un universo differente” e l’amicizia in carcere può essere equivoca, come qualsiasi altra cosa. Ogni aspetto legato ai rapporti umani è compresso in un’infinita paranoia e “dopo un po’ impazzisci e fai cose che non dovresti fare”. Earl Copen conosce bene le dinamiche, e sa che “tutto quello che ha un uomo in prigione è la reputazione con i compagni” ma per qualche motivo, più di tutti il bisogno di covare ancora un briciolo di speranza, si avvicina a Ronald Decker e lo aiuta a sopravvivere nel contorto recinto di San Quentin che “era qualcosa in più di un luogo murato; era un mondo alieno di valori distorti, governato da un codice di violenza”. Non esiste definizione più accurata di questa. L’ambiguità, l’altra faccia della paranoia, è costante. Gli accoltellamenti dettano cicli di guerra e pace, domina il razzismo “che andava al di là del razzismo per trasformarsi in ossessione da entrambe le parti”. Mentre le residue aspettative sono affidate alle pronunce di un giudice, di una commissione o di un ufficiale, ma il più delle volte gli appelli finiscono nei vicoli ciechi della burocrazia, i detenuti si industriano in traffici e intrighi ma “è già un lavoro a tempo pieno rimanere vivi”. Sfiancati dall’isolamento, Earl e Ron decidono di evadere, aiutati da mezza prigione e da lì in poi il destino resta un’incognita. Attorno a loro due, Edward Bunker in Animal Factory scrive un diario dal carcere episodico e graffiante che non fa sconti in nessuna direzione. La brutalità è condivisa dal potere così come dai condannati. Non c’è tregua e anche uno come Earl, che vanta esperienza e stile, non è mai al sicuro e se “la routine è la chiave per sopravvivere alla prigione”, è anche il tedio che affossa ogni ambizione. La conoscenza di Edward Bunker della materia carceraria è minuziosa e dovuta all’esperienza, quindi di prima mano, comprese le fragili forme di amicizia e le difficoltà nello stabilire rapporti di fiducia. L’interno della prigione è visto come se fosse sotto una lente di un microscopio: i rapporti di forza sono letti attraverso un linguaggio scarno e spontaneo che segue le ombre ben oltre oltre le mura di San Quentin o Alcatraz o qualsiasi altro penitenziario. Fuori, secondo uno che “si è fatto quarantasei calendari”, Charley Fitz, “non è cambiato un accidente di niente. Forse si muovono un po’ più in fretta, ma è sempre la solita merda”. Durissimo, ma sincero.

lunedì 14 ottobre 2024

Kurt Vonnegut

In Barbablù, Kurt Vonnegut tocca un tasto delicato, quello dell’arte moderna, e lo fa con la consueta e sperimentata ironia, ma anche con cognizione di causa nel descrivere le traiettorie dall’ispirazione artistica al mercato, con tutte le deviazioni e le intersezioni possibili e immaginabili in mezzo. Barbablù, metafora ideale per mettere a fuoco le idiosincrasie verso il mondo femminile del bizzarro protagonista, si snoda a modo suo, un po’ attingendo al passato, un po’ volgendosi al presente. Non ha proprio uno schema preciso, se non il libero fluttuare dell’autobiografia di Rabo Karakebian che non perde tempo in convenevoli e si dichiara ben presto così: “Il problema sono io. Io non sono un uomo presentabile”. Esatto, e seguirlo è un po’ una sfida perché si lascia trascinare nelle situazioni più improbabili e curiose e qui entrano in scena le donne: Dorothy, la prima moglie, Edith Taft Fairbanks (dal secondo e più fortunato matrimonio, con cui ha ereditato una fortuna, compresa la magione sull’oceano), Circe Berman alias Polly Madison, scrittrice che arriva senza preavviso e gli stravolge la vita,  Allison White, la cuoca (nonché la figlia).  Hanno tutte qualcosa da ridire, sul suo conto, forse anche perché il suo cuore è rimasto invischiato nella relazione con Marylee, concubina di Dan Gregory, “il massimo artista vivente”, a sua volta pittore, illustratore e mentore. Con lei, la vicenda impone una serie di balzi nel passato (Dan Gregory e il suo assistente Fred Jones uccisi in Egitto con uniformi italiane, tutta un’altra storia) e rimbalzi in avanti (Marylee eredita un intero palazzo a Firenze), ricordando che “era un’epoca di imperi, quella. E anche questa lo è, neanche tanto ben camuffata”. La trama prende forma con il discorso e i ricordi di Rabo Karakebian la cui origine armena dissemina contatti e riferimenti per tutto il globo. È un bravissimo disegnatore, ma non è un pittore. Nel corso della seconda guerra mondiale è stato un esperto di mimetismo, una dote che torna utile all’istinto di sopravvivenza. È attorniato da una danza di fantasmi che comprende Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem De Kooning, ma anche mecenati, scrittori, fattorini, critici & mercanti, spie, insegnanti, giardinieri, parenti. Gente che sembra avere una stazione radio in testa e che nelle loro gesta ricordano che “la più diffusa malattia d’America è la solitudine”. Gli uomini sono tutti un po’ fuori strada: Dan Gregory e Fred Jones a parte, bisogna contare almeno Terry Kitchen e Paul Slazinger (amico  e scrittore in crisi profonda) che ha la spontaneità di ammettere: “Io ho tentato e ho fallito, quindi ho fatto piazza pulita: adesso tocca a voi”. Sono tutti fotogrammi in movimento perché “era ed è tuttora facile, per buona parte degli americani, recarsi da qualche altra parte e ricominciare daccapo” e Vonnegut scalpitante, amaro e ironico nello stesso tempo, cerca di mettere un po’ di ordine nel caos di Barbablù a modo suo, ovvero rendendolo ancora più eccentrico e interessante. Le iperboli e le digressioni a raffica lo trasformano un rompicapo, una suite jazzistica, un’irriverente cronaca dal mondo dell’arte, dove il sottinteso è che, a confronto di musica e pittura, in particolare nella declinazione astratta ed espressionista, la scrittura, fra tutte le forme d’espressione, è la più faticosa, solitaria e silenziosa, ma è anche l’unica che concede il diritto della parola e del dubbio e permette a Paul Slazinger di dire, che “la condizione umana può riassumersi in un’unica parola. E questa parola è: imbarazzo”.  Barbablù è un libro per esperti di Vonnegut, che è sempre lucido, ha un metodo nella sua follia e il più delle volte esibisce il dono della chiarezza senza patemi e con un sorriso contagioso. In Barbablù però è necessario assecondarlo da vicino e non ci sono subordinate: solo il ritmo incessante del geniale e spumeggiante sproloquio di un clamoroso outsider, capace di tenere nascoste le sue opere migliori in un patataio.

domenica 13 ottobre 2024

Howard Fast

Il principale protagonista tra Gli emigranti, Dan Lavette, è un esemplare di tutto rispetto del mito del self made man: capace di sfidare eventi di proporzioni catastrofiche (incendi, terremoti, maree, guerre) per affermare l’assioma per cui con il duro lavoro si può ottenere tutto (o quasi), per poi restare incastrato nelle pieghe di un tortuoso matrimonio. La trama è tutta qui, ma la sua arrampicata sociale parte dalla traversata oceanica, passa da un’umile barca e arriva a gestire flotte di aerei e di navi, finché nel 1929 arriva uno di quei diluvi a cui non c’è riparo. Dan nel frattempo deve reggere il connubio con Jean Seldon, unica ereditiera di una ricca famiglia, e la liaison con May Ling, figlia del suo capo contabile e architetto finanziario. Il destino personale e quello aziendale vanno di pari passo nella convinzione di marciare spediti, parole sue, “verso la vetta di questo mucchio dorato di merda che chiamiamo i grandi affari”. Howard Fast riesce a mantenere un certo equilibro tra gli psicodrammi coniugali (con Jean Seldon più volitiva che mai) e le cronache dei tempi moderni con tutte le trasformazioni tecnologiche e i passi storici (la prima guerra mondiale, soprattutto) che hanno distinto gli anni dal 1888 al 1933, l’arco temporale su cui si dispiega Gli emigranti. È una bella panoramica, camuffata dentro le singole esistenze: anche i personaggi secondari che ruotano attorno a Dan Lavette rivestono un’importanza non relativa che gli viene attribuita con cura da Howard Fast e così Gli emigranti, oltre a offrire uno spaccato credibile dell’America (in particolare della California) a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, concede tutto lo spazio necessario alle sfumature emotive dei suoi protagonisti. Gli uomini e il lavoro, le donne e la famiglia: Gli emigranti ha un suo schema preciso che Howard Fast illustra con una scrittura figurativa, modesta nelle intenzioni eppure efficace nel mostrare le contraddizioni della società americana, della costruzione dei capisaldi del mercato e del suo dissolversi, improvviso ma non imprevedibile, che ha travolto ogni cosa, anche “tutti i re senza corona”. La rappresentazione dei conflitti è multiforme, anche se il livello resta appena sopra la linea di navigazione, tra “l’elemento romantico e romanzesco”, come lo definisce lo stesso Howard Fast. Con il progredire della storia, le tensioni personali sostituiscono quelle sociali, anche se tra razzismo, proibizionismo e rivendicazioni sindacali si dipana una sorta di storia parallela dell’America. Gli episodi si sprecano e si inanellano uno all’altro, anche alla fin fine a tenere banco è ancora la differenza di rango tra Dan Lavette e la moglie (e i figli), una condizione critica che non concede una seconda chance.  C’è un particolare garbo nel racconto di Howard Fast, uno stile che ha una gentilezza, anche nell’affrontare i momenti più difficili e torbidi e con cui riesce ad appassionare: Gli emigranti è un romanzo che ha una sua logica e una sua bellezza, anche se non riesce a scalfire in profondità i contrasti che racconta ed è così fino al finale che, troncato di netto, lascia molto in sospeso.

giovedì 10 ottobre 2024

David Joy

Il contesto è quello frammentato dell’America odierna, attraversata da faglie che non riguardano soltanto il bianco e il nero, o altre scomposizioni razziste, ma anche la geografia, tra il nord e il sud, e la storia e/o il tempo, tra passato, presente e futuro. Come direbbe Ta-Nehisi Coates c’è “un conto ancora aperto”, e non c’è dubbio, solo che il passato non si può rimuovere a senso unico: ogni rimozione necessita un nuovo ordine, ma il più delle volte, tanto per cominciare, sviluppa solo un certo grado di caos. Per la Carolina del Nord, la guerra di secessione pare non essere finita mai e così “per alcuni gruppi, in America, il trauma era una sorta di eredità” e, quasi come un principio fisico, il destino di Toya Gardner, giovane artista, è segnato nel momento in cui vuole ricordare un minimo di giustizia, se non altro a livello simbolico. In quel preciso momento nella piccola cittadina, tutti si accorgono che “il mondo era certamente spaccato in due, ma distinguere chi stava da una parte e chi dall’altra non era bianco e nero. Era grigio, e il grigio era il colore più spaventoso perché spesso non si riusciva a individuarlo”. Quando ai margini di una manifestazione di protesta attorno a una reliquia confederata, Toya scompare, sulla small town cala una sudario pesante. Il dilemma che investe lo sceriffo John Coggins, che si sta avviando alla pensione, è una linea di demarcazione netta: è amico di Vess, la nonna di Toya (era un compagno di avventure del marito) e qui le cose si complicano perché il divario tra bianco e nero, almeno in apparenza, viene mitigato. A ben vedere, un’altra divisione, quella tra uomini e donne, diventa palpabile, ed è anche la chiave di volta del romanzo di David Joy. Da una parte la madre e la nonna e la madre di Toya nonché la detective Leah, dall’altra un’ondata maschile. Questa, nonostante tutto, si rivela la frattura più plateale: le donne studiano, lavorano, cucinano, preservano il raccolto degli orti, osservano e ascoltano ed è così che arrivano fino alla fine. Gli uomini cacciano, pescano, soppesano le armi, bevono (troppo). Poi “quelli che pensavamo di conoscere” sono un’altra realtà, si nascondono dietro cappucci bianchi, sono politici e furfanti, due categorie ormai inseparabili, e alla fine è più accettabile il personaggio di William Dean Cawthorn, una figura sfuggente e pericolosa che non sarebbe una sorpresa ritrovare più avanti, implicato in altre storie. Sta dalla parte sbagliata, ed è evidente fin dall’inizio, ma almeno non ha bisogno di mascherarsi. Questo ha un doppio valore perché laggiù “la vita era sempre stata questione di collocare le persone. Sapere da chi e da dove veniva qualcuno ti diceva tutto quello che c’era bisogno di sapere”. La famiglia, l’amicizia, i luoghi (il fiume, soprattutto) diventano la mappa risolutiva e David Joy precisa che “era sempre stato così, un luogo che sembrava perfetto e incantato, il tipo di comunità affiatata che il resto del mondo aveva perso da tempo”. Tocca proprio a Leah “una vulcanica agente”, che lo stesso Coggins ha promosso a detective, a smuovere le acque, anche se coraggio e convinzione la porteranno a setacciare l’intera contea, ma non a vedere oltre la nebbia di contrasti e conflitti. David Joy (che ha già mostrato in Queste montagne bruciano e Dove tende la luce una certa sensibilità per temi attuali e delicati) riesce a collocare nella sua storia abbastanza personaggi per rappresentare un quadro completo delle tensioni americane del ventunesimo secolo, una rappresentazione che tra l’altro Quelli che pensavamo di conoscere condivide con Il sangue dei peccatori di S. A. Cosby. C’è una certa familiarità tra i due romanzi, a partire dai dualismi e dalle contrapposizioni nonché dagli effetti di un passato che ha lacerato la nazione, e che continua a spaccarla, mentre l’identità, e la salvezza, è ancora, come si dice in Quelli che pensavamo di conoscere, “in base al posto da cui provengo e a ciò che mi è stato raccontato per tutta la vita”. Consigliatissimo.

mercoledì 2 ottobre 2024

Richard Ford

Per Frank Bascombe si tratta di “un ultimo tentativo di felicità”: in Per sempre, il personaggio di Richard Ford, all’ennesima svolta della sua esistenza, si trova ad affrontare una prova definitiva. Il figlio Paul, già protagonista durante Il giorno dell’indipendenza, è ormai un malato terminale e Frank, nei giorni intorno a san Valentino, lo convince a intraprende un viaggio verso Mount Rushmore. È il rapporto padre/figlio, come un segmento significativo a diventare un laboratorio di emozioni che vengono distillate da Frank Bascombe con una voce ipnotica, mai invadente, quasi un fruscio perché “essere padri è una lotta, in qualunque lingua”. Paul, un tempo un adolescente fragile, è diventato un adulto ancora più complesso e aggravato dalla sclerosi laterale amiotrofica. Fin da bambino, è stato “un abile artista della fuga dal grigio quotidiano”, e tale è rimasto, tanto da apostrofare il padre con un altro nome (“Lawrence”) e di definirlo senza mezze misure: “Sei il mio stronzo preferito”. Detto questo, Frank è tenace quanto basta da trascinarlo su un camper per la loro piccola odissea. La destinazione, è facile intuirlo, è relativa, dato che “si parte con una meta ma poi si finisce chissà dove”. La “logistica umana”, strana materia che affascina Paul, sulla strada, da un motel all’altro, parcheggio dopo parcheggio, diventa una sorta di ordalia, per entrambi: le fibrillazioni diventano più acute, quasi dolorose, e ogni tappa, ogni piccolo episodio on the road si caratterizza per le reazioni di Frank e Paul. Le situazioni vanno dal comico al tragico e la tensione tra padre e figlio è ai massimi storici, così come quella con l’intero mondo là fuori. C’è un legame da riparare e succede nei luoghi più improbabili, come ammette Frank: “Noi due ci troviamo bene in un centro commerciale. Anche se in molti luoghi pubblici, e per motivi più che giustificati, ho ormai la sensazione che qualcuno da qualche parte stia per spararmi”. Un mood che si riflette nella desolazione suburbana dell’America moderna: centri massaggi, concessionari, sportelli bancari e tavole calde sono la cornice tale da convincerli che “tutte le metropoli e le cittadine sopravvivono e prosperano orientando il comportamento umano verso un’idea generica e artificiosa”. Quello che succede nel tragitto verso “un’istituzione posticcia” come il Mount Rushmore ed è un tentativo di aggrapparsi al parossismo delle suggestioni e delle inquietudini per cercare un significato di fronte alle “imponderabili circostanze della vita”. La strada offre molte occasioni e tra i viaggiatori si sviluppa, con molta fatica, una complicità che deve tenere conto delle telefonate, tra cui quelle complicaet con Clarissa (la figlia), degli incontri e più di tutto del fatto che “la casualità, in altre parole, va bene in qualunque dose riesca sopportabile. Ma a un certo punto è meglio, forse necessario, fissare ognuno le proprie coordinate”. Il contesto, nonostante l’ampiezza delle praterie americane, resta limitato e alla fine è più utile a tutti e due accontentarsi, tanto che, all’alba, “la novità della giornata e il bel tempo bastano già a rendere tutto un’avventura”. Il vero motivo che Per sempre mette in chiaro, permette di rivedere tutta la storia di Frank Bascombe, tornando fino a Sportswriter: “Dare un senso alle cose è un processo inesauribile di riordino e di ri-riordino. Un processo che per natura è provvisorio e che ben presto soppiantiamo con qualcosa di meglio”. La continua introspezione di Frank Bascombe arriva a livelli critici, con “l’età”: Per sempre è contorto, prolisso, eccessivo, perché, davvero, “a volte guardiamo la vita troppo da vicino”, ma è anche intenso, coerente e coraggioso nel raccontarla. E pochi scrittori, soprattutto in America, hanno saputo affondare nella sfera intima e personale come Richard Ford, che attraverso Frank si concede persino una battuta tanto autoironica quanto memorabile: “Leggere libri lunghi, complessi e incomprensibili per isolarsi dalla cattiveria e dall’ingiustizia arbitraria del mondo ha i suoi vantaggi”. Il segreto, se ancora ce n’è uno, è tutto qua.

mercoledì 18 settembre 2024

Henry Miller

Già nelle prime pagine, nella distinzione tra Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, è evidente il tentativo reiterato di “conciliare gli aspetti apparentemente contraddittori di un uomo come me, che nella sua opera scritta ha sempre cercato di versarsi completamente e senza riserve”. Henry Miller parte da se stesso, come ha sempre fatto, e si avvia ad allargarsi a un visione universale perché “anche se non lo confessa, l’artista è ossessionato dal pensiero di ricreare il mondo per restaurare l’innocenza dell’uomo. E inoltre sa che per l’uomo l’unico modo di ritrovare l’innocenza perduta è di riconquistare la propria libertà. Libertà in questo caso significa morte dell’automa”. È così che il sesso è solo un trampolino di lancio per una riflessione più ampia (e nello stesso tempo circoscritta) sulle aspirazioni e sulle esigenze degli esseri umani. Henry Miller è molto lucido nell’affrontare il tema dei rapporti tra uomo e donna, ma li inserisce in un contesto più ampio di rapporti con il mondo, con l’essenziale, con la vita stessa. Quando parla di sesso in modo esplicito, Henry Miller non concede nulla alla censura: siamo nel 1959 e il politically correct non esisteva, per cui Il mondo del sesso è quello che è, compresi i dettagli anatomici, dissertati con gusto, e le relazioni pericolose a Parigi. Il nesso tra sesso e desiderio, dove quest’ultimo è l’elemento dominante, è un nucleo magnetico e Henry Miller ricorda che “dovunque siano un fiume, una piazza di mercato, una cattedrale, una stazione ferroviaria, una casa da giuoco, cova questo fuoco di palude che aggruma il sangue e secca la bocca”. Un punto di vista originale che nasce da una condizione particolare: “Quando sono solo, e cammino per le strade, mi prende il senso delle cose: passato, presente, futuro, nascita, rinascita, evoluzione, rivoluzione, dissoluzione. E il sesso, in tutto il pathos psicologico”. La svolta avviene proprio lì, in quel momento e se “l’amore, quando capita, è una cosa da mandare avanti dietro le quinte”, la sua conclusione è che “finché non ammetteremo che la vita è fondata sul mistero non capiremo nulla”. Henry Miller, pur sfoggiando capriole su capriole di digressioni e iperboli, si conferma più preciso che mai e oltrepassata la metà, Il mondo del sesso svolta verso una possibile definizione dei parametri che definiscono l’esistenza a partire dal fatto che “soltanto in certi momenti imprevedibili noi siamo completamente intonati, completamente ricettivi e dunque nella disposizione migliore per accogliere i favori della fortuna”. Questa collocazione è ribadita nel dettaglio tenendo presente che “i fatti cruciali e veramente cardinali che danno un’impronta alla nostra vita sono frutto del silenzio e della solitudine” e, di riflesso, che “noi ingombriamo la terra con le nostre invenzioni, senza pensare che forse sono inutili, o dannose”. È un modo di ricordare le possibilità della persona, dentro Il mondo del sesso e altrove, e ovunque, visto che “gli atti sensati non richiedono agitazione. Quando tutto crolla, la cosa più ragionevole da fare forse è di stare fermi. L’individuo che riesce a capire e ad esprimere la verità che ha in sé, può ben dire di aver compiuto un’impresa più grande che la distruzione di un impero”. Questo è possibile secondo Henry Miller perché “dopo tutto, il mondo in cui abitiamo non è che l’immagine riflessa del caos esistente dentro di noi”. Non è soltanto, è evidente, Il mondo del sesso a cui fa riferimento: è un’entità da scoprire che appartiene a tutti e “anche gli sfortunati, i derelitti hanno diritto a dir la loro, ogni tanto. Nessuno è troppo piccolo o troppo vile per essere ignorato”. I limiti, cerca di spiegare con insistenza Henry Miller sono altri: “A sbarrare la strada dell’uomo non ci sono che le sue fantomatiche paure. Il mondo è la nostra casa, ma noi non ne abbiamo ancora preso possesso; la donna che amiamo ci attende, ma noi non sappiamo dove trovarla; il cammino che cerchiamo ci sta sotto i piedi, ma non siamo capaci di accorgercene”. Questa è la vera questione e proprio dove si scopre che “quel che conta è il miracolo che si fa norma”, Il mondo del sesso si rivela molto di più del suo titolo.

lunedì 9 settembre 2024

Joan Didion

La vita lungo il fiume scorre tranquilla per la borghesia californiana, erede dei pionieri e proprietaria terriera. Tormentati dalla noia, dai rimpianti, dalle istituzioni (famiglia, governo, esercito, chiesa, sindacati, stampa) dall’incombere della seconda guerra mondiale, uomini e donne di una generazione in “uno stato di crisi privo di una ragione precisa”, bevono (in continuazione) sherry, vermouth, bourbon mentre coltivano i loro piccoli e grandi drammi esistenziali, che vanno dall’impellente necessità di godersi l’alcol  (“Per tutte le delizie mortali. Ora vediamo se rimediamo un drink prima di pranzo. Forse hai bisogno di fartene uno. Forse anche due”) all’omicidio. Anche se Joan Didion nel progredire di Run River lascia intravedere spesso e volentieri “uno squarcio nel tessuto sociale”, con la trasformazione della California da terra promessa per tutti a paradiso e inferno della speculazione edilizia, la sua osservazione è rivolta con ossessiva attenzione alla parallela evoluzione di un generale e incontrollabile desiderio, spesso fine a se stesso, fino a un esaurimento nervoso collettivo. È il sogno del West incrinato da un’aria di decadenza morbosa, come se le regole stessero svanendo insieme a un vecchio mondo, ovvero “un impero effimero, bisognoso di continuo controllo, di manovre a ogni frazione di secondo”, e questo riguarda in particolare i fragilissimi esseri umani che lo popolano. Lily, la ragazza con la spilla da balia negli occhiali, è senza dubbio il centro della gravità, ma spesso Joan Didion sposta il peso del groviglio di storie sul marito Everett passando quindi al setaccio non solo le dinamiche marito/moglie, ma anche quelle fratello/sorella, genitore/figlio e amico/amante. Gli incontri (e gli scontri) sono un po’ a geometria variabile ma tendono a ripetersi e Joan Didion si concentra su ogni scena (che poi è un cocktail, un party o un brindisi solitario) con la stessa, premurosa considerazione. L’effetto è un po’ straniante: Run River pare soltanto una lunga teoria di appuntamenti perché, nonostante i vincoli, sono estranei gli uni agli altri e la finzione, per sopportarsi nel “fronte domestico”, è all’ordine del giorno. Sia che si tratti dei preparativi per la festa di nozze (e nessuno da invitare) o di essere richiamati nell’esercito, quello che condividono è soprattutto un mood malinconico, “snervante” per le assenze e per le ingombranti presenze. È un teatro amaro, costruito su “un’improvvisazione basata su una battuta d’entrata che un giorno non avrebbe sentito, su caratterizzazioni che poteva dimenticare in ogni momento” dove il “il sorriso più che altro è un tic” e tradimenti, fughe, scenate e riconciliazioni si susseguono senza sosta finché tutti insieme non collimano in “un’unica caduta di stile”. La tragedia della decadenza non si può dissimulare e Joan Didion ha, già all’esordio, la straordinaria capacità di rendere “un vuoto che neutralizzava qualsiasi apertura, ovattava le voci, dissolveva le connessioni”. Certi arabeschi, con un’insistenza maniacale nella ricerca del tono giusto, l’abbondanza delle parentesi e delle reiterazioni che Joan Didion in seguito avrebbe limato e raffinato, e basta pensare per esempio a Democracy, non tolgono nulla a Run River che, con “una piacevole sensazione di discreta licenziosità”, racconta bellezza e tormento californiani, dove la famosa seconda chance non è prevista. L’influenza di Fitzgerald, neanche tanto nascosta (un indizio palese è che un antenato di Everett si chiama Francis Scott), e il richiamo a Čechov delimitano il perimetro in cui è nato Run River, l’inizio di una grande carriera. 

venerdì 6 settembre 2024

Silas House

Quando si raggiunge Il punto più a Sud restano dei punti interrogativi che toccano l’interpretazione del ruolo di genitore, il peso della fede e delle religioni, l’intervento delle istituzioni e degli strumenti di comunicazione moderni nei rapporti affettivi. Un sacco di domande che Silas House lascia scorrere nella storia degli Sharp, Archer (padre, professione: pastore evangelista) e Justin (figlio) uniti in una fuga imprevista e precipitosa. Partono da una piccola realtà rurale del Tennessee sconvolta da un’alluvione. La famiglia Sharp si è salvata e si è prodigata per i vicini. All’appello manca soltanto il cane, Roscoe, e Justin, che è un bambino piccolo per la sua età, ma particolarmente sensibile, è andato cercarlo ma dal diluvio sono emersi, Stephen e Jimmy, bisognosi di un approdo asciutto. Salvo i primi soccorsi, la moglie Lydia, molto osservante, non li ha voluti ospitare perché sono gay. Da lì si rompe qualcosa, la fede diventa una costrizione e il pastore Sharp in rapida successione lascia il gregge e la famiglia. A partire dal suo discorso di commiato dalla congregazione, volto alla tolleranza, alla comprensione e alla condivisione, subito ripreso dai social, ma l’eloquio non è gradito né dalla consorte, né dalla congregazione e Archer sceglie di andarsene, ma con la paura che Justin possa diventare “come chiunque altro in questo mondo cinico e noioso, che si perde la meraviglia di ogni cosa”, decide di portarlo con sé. La meta è Miami in cerca del fratello Luke, anche lui a suo tempo vittima del pregiudizio e dell’indifferenza. Da padre a “ladro di bambini”, è un attimo: i tribunali, gli avvocati, la chiesa non considerano le emozioni, Asher è consapevole che la sua dimostrazione d’amore sarà condannata e derubricata a reato penale, ma ormai si sono avviati lungo “una strada senza uscita o a un inizio tutto nuovo”. L’affetto filiale nelle lunghe tappe on the road suggerisce una riflessione sullo stesso legame tra padre e figlio che animava La strada di Cormac McCarthy. La differenza (anzi, proprio il contrario) è che da una parte era una forma di protezione dal caos, mentre in Il punto più a Sud è una difesa dalla cosiddetta normalità e dalla burocrazia dei palazzi di giustizia e delle chiese. Mentre scorrono le canzoni di Patty Griffin, My Morning Jacket, Sinead O’Connor e Justin canticchia ritornelli di Tom Petty, la differenza tra il Tennessee e la Florida emerge non soltanto nei contrasti ambientali che Silas House tratteggia con scrupolo e con un’attenzione fuori dal comune. Non sfugge il capovolgimento simbolico dell’acqua, da spaventosa ferita nella terra, nell’esondazione del fiume, agli spazi infiniti e alla luce del mare. La parte più consistente del romanzo si svolge proprio davanti all’oceano, dove Asher e Justin infine trovano un modus vivendi e un faticoso equilibrio. Si accontentano dell’ospitalità di Bell, che canta le canzoni di Joni Mitchell, offrendo in cambio quel poco che riescono a fare e accudiscono Shady, un randagio adottato lungo la strada. Il nucleo che si crea, comprensivo di Evona, pur in tutta la sua fragilità somiglia molto di più a una famiglia, in particolare quando ricordano che “a volte si ride e a volte si piange, e finché siamo vivi possiamo affrontare tutto il resto”. A quel punto, e siamo alla fine, Silas House è stato troppo preciso e dettagliato per concedere un happy end, ma se non altro nella logica conclusione che spetta ad Archer (soprattutto) e a Justin lascia intuire la speranza che, pur con tutti gli errori e le penalità, qualcuno in fondo abbia fatto la cosa giusta. Le questioni restano tutte aperte: Il punto più a Sud ha pure il merito di non collocare risposte preconfezionate, lasciandoci intendere non tanto che bisogna scegliere da che parte stare, ma che una possibilità di ritrovarsi c’è sempre. Toccante.

mercoledì 4 settembre 2024

S. A. Cosby

Il sangue dei peccatori condensa molti contrasti che sono d’attualità nell’America del ventunesimo secolo: nero/bianco, giustizia/politica, pubblico/privato, fede/razionalità, uomo/donna, giovane/anziano, Nord/Sud, carnefice/vittima. È un continuo ondeggiare tra questi estremi e il romanzo matura una forza centrifuga perché Titus è uno sceriffo di colore in una contea della Virginia e si trova proprio nell’epicentro di tutti i conflitti. Dato il carattere elettivo della sua carica, è una posizione in bilico. Deve essere una guida, e un esempio, per la sua squadra e per la comunità di Charon, ma il susseguirsi degli eventi lo mette a dura prova, fino al punto di dover mettere in discussione la propria personalità: “Era quello il problema, se facevi il poliziotto. Poco alla volta cominciavi a sospettare di chiunque, e prima o poi finivi col tagliare il mazzo due volte giocando a carte con tua moglie”. Il sangue dei peccatori comincia con una sparatoria nella scuola locale, anche questo un lugubre primato americano. Uno studente (nero) uccide un professore prima di essere falciato da una raffica di colpi degli agenti dello sceriffo. È solo l’inizio, perché lo scontro a fuoco fa da traino all’apparizione di un serial killer particolarmente efferato che lascia le sue vittime martoriate dentro uno scenario di simboli cupi e inquietanti. Titus intuisce subito che c’è un collegamento perché “la violenza è sempre la confessione di un dolore”, ma è combattuto tra legami fragili e delicati (il padre, il fratello, la fidanzata) e sulla scena (in aggiunta) arriva la sua ex, una giornalista che alimenta un suo podcast, oggi funziona così. Titus deve affrontare tutta una serie di prove, e di fronte alla corruzione e all’ingerenza della politica, alle carenze strutturali delle istituzioni e alle divisioni sociali, è costretto a compiere scelte repentine, alcune giuste e altre sbagliate, al punto di ammettere: “Non si faceva illusioni. Sapeva chi era e cos’era. Per molta gente era il diavolo. E lo accettava. Però era un diavolo che andava a caccia di demoni”. Nell’inseguimento attraverso la Virginia e l’Indiana, il presente e il passato (ecco un’altra ingombrante contrapposizione), chiese e sette, suprematisti e oppositori, Titus cerca di rispettare le regole che deve imporre e difendere: lo sceriffo deve essere irreprensibile, ma tutto intorno a lui è un continuo distinguersi, sollevarsi, ribellarsi. Non è facile espletare così il mandato, ma “esiste un genere di caos che a volte può dare l’impressione di muoversi secondo un ordine. Quando certe situazioni caotiche continuano a ripetersi, da questo meccanismo emergono degli schemi”. Il racconto è tumultuoso e senza tregua perché nello sviluppo della storia tutta la contea subisce in un modo o nell’altro le conseguenze delle fibrillazioni che l’attraversano. Il ritmo incessante e la suspense sono garantiti dalla scrittura essenziale e senza fronzoli di S. A. Cosby, ma nella migliore delle tradizioni del thriller Il sangue dei peccatori tocca temi rilevanti e viene usato per raccontare l’America di oggi, con quelle spaccature dovute a un passato che non vuole passare, con tutte le vessazioni e le meschinità nascoste dietro la placida costruzione di una cittadina di provincia. I colpi di scena arrivano uno dopo l’altro e qualche cliché del genere è da mettere in conto, ma non toglie nulla alla qualità del romanzo che ha una sua solida aderenza alla realtà, compresa la malinconica bellezza del finale. Da tenere d’occhio.