lunedì 31 marzo 2014

Wallace Stevens

Se, come diceva uno dei grandi estimatori di Wallace Stevens, Harold Bloom, “la poesia è essenzialmente linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e al contempo evocativa”, Aurore d’autunno è la versione lirica, concreta e tangibile della sua definizione. E’ l’ultima raccolta poetica di Wallace Stevens e anche negli elementi autobiografici, riassunti in gran parte in Grande uomo rosso che legge,  celebra il “romanzo inevitabile, scelta inevitabile di sogni, delusioni come l’ultima illusione, realtà come una cosa vista dalla mente, non ciò che è ma ciò che percepiamo”. Nella sua lingua ordinata, pulita, chiarissima, corposa Wallace Stevens è sempre “nell’elemento dell’antagonismo” perché “ciò che sta sotto questo genere di cose è il movimento delle idee” e allora l’esaltazione dell’aurora intesa come alba, luce, inizio, primordio è un modo per intuire l’arrivo del crepuscolo, delle ombre, l’anticamera di quella che il grande poeta americano chiamava “la stagione muta”. Altrove Wallace Stevens aveva centellinato i contorni della sua visione, specificando con cura che “le aurore d’autunno non sono le mattine di primo autunno ma l’aurora borealis che qualche volta capita di vedere a Hartford, a volte così forte da accorgertene anche se sei in casa. Queste luci simbolizzano uno sfondo tragico e desolato”. Sono le quinte ideali della rappresentazione suprema di Wallace Stevens: la poesia è “la metà incorporea”, sintesi perfetta che ne racchiude la traduzione e l’interpretazione (“Tam-tam, così fa la tragedia: non ci sono battute? Non c’è testo. Anzi, si recita per il fatto d’essere lì”) sul palcoscenico tra finzione e realtà, quella realtà che è “il nudo Alfa, non il sacrofante Omega, con vassalli luminosi, densa investitura. E’ l’A infante che si regge su gambe infantili, non la storta Z, curva, polimatica, che s’inginocchia sempre all’orlo dello spazio nelle pallide percezioni delle sue distanze”. L’altra metà, quella galleggiante sulle parole, è filtrata con “la carità dell’immaginazione”, visto che “non è nelle premesse che la realtà sia solida. Forse un’ombra che attraversa la polvere, una forza che attraversa un’ombra”. Aurore d’autunno è essenziale nel tracciare una frontiera netta con i “i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe della sua legge: Poesis, poesis, i caratteri, i versi ispirati, che in quegli orecchi e in quei  cuori sottili, esauriti, prendevano forma, colore, e la misura delle cose che sono, e dicevano per loro l’emozione, che era ciò che era loro mancato”. Quella di Aurore di autunno è una squillante apologia “vivente nell’idea”, indiscutibile, inaffondabile perché “della poesia non si dimostra l’esistenza. E’ qualcosa che si vede e si conosce in poesie minori. E’ l’armonia alta, vasta, che risuona appena, appena, improvvisa, grazie a un senso differente. E’ e non è, e perciò è. Nell’istante della parola, l’ampiezza di un accellerando muove, cattura l’essere, lo ampia, e non è più”. Questa è la poesia. 

venerdì 28 marzo 2014

James Salter

Un bel po’ di scrittori più che rispettabili (Bret Easton Ellis, Richard Ford, Julian Barnes, James Lasdun, John Banville, John Irving) si sono prodigati con generosità per presentare Tutto quel che è la vita. Un entusiasmo legittimo, perché dietro ogni narratore c’è sempre un grande lettore, che trova una prima risposta di James Salter che dice: “C’è un momento nella vita in cui ti rendi conto che tutto è sogno, e che soltanto le cose preservate dalla scrittura hanno qualche possibilità di essere reali”. Fantastico, perfetto: solo che Tutto quel che è la vita sembra fatto apposta per smentire quell’epigrafe. Si sviluppa in modo diafano, ordinato, fin troppo: risponde alle regole e agli standard in modo meccanico e non ha molto da offrire se non l’evoluzione dei passaggi esistenziali del protagonista, Philip Bowman. Sullo sfondo, in lontananza e sfocata, l’idea sembra attingere alla calma (tutt’altro che piatta) di Stoner. La differenza è che le trame della vita, così come quelle dei romanzi, dipendono in gran parte da chi le traccia ed è fin troppo evidente che James Salter non è John Williams. Anche se è ambientato nella seconda metà del ventesimo secolo, Tutto quel che è la vita sembra frutto di una visione ottocentesca (e non è un complimento): l’inquadratura è sempre la stessa, di solito in interni, nelle camere, nei soggiorni, nelle sale da pranzo e nei corridoi frequentati dalla borghesia americana. Le descrizioni sono ovvie e se in generale la scrittura è solida e coerente, solo a tratti si sente la la personalità dello stile, qualche frammento di racconto, una scheggia di frase, che di solito è farraginoso e distaccato. Eppure Philip Bowman, il protagonista di Tutto quel che è la vita, è un editor, ma si ha l’impressione che un editor, anche un paio, è ciò che è mancato a questo romanzo. Bowman incontra soltanto donne bellissime e disponibili, subito, a finire a letto con lui (prima a letto e poi a pranzo e/o a cena) e le sue prestazioni sono sempre eccezionali da un rapporto all’altro, tutti che si risolvono in modo piuttosto banale (salvo quello con Christine, dove Bowman consuma una fredda vendetta erotica). Tutto quel che è la vita sembra compilato con un menù precotto: un tot di sesso, un tot di personaggi femminili, un tot di autoreferenza dell’editoria con un contorno di note false, di cliché, di banalità e di parole superflue. Più di tutto è sempre piatto, monocorde, senza un filo di emozione. “Era come un sogno, provare a immaginare tutto, finestre e piani interi che non si spegnevano mai, il mondo al quale desideravi appartenere”: proprio così, e il problema è che non succede nulla e nella scena in cui succede qualcosa, su un treno muoiono una madre e sua figlia, James Salter lascia galleggiare persino una svista da primo giorno di corso di scrittura creativa: “Intorno all’una del mattino, per causa sconosciuta, in fondo alla carrozza scoppiò un incendio, provocato da un corto circuito, e il corridoio si riempì di fumo”. Errore relativo, dettaglio rivelatore.

lunedì 24 marzo 2014

Stephen King

E’ dietro la porta della camera 217 dell’Overlook Hotel che si nasconde l’epicentro di Shining. Anche se rimane chiusa. Mascherato dalle agghiaccianti visioni, che sfruttano il fantastico per svelare l’orrore più prosaico della realtà, c’è un romanzo sulla magia della percezione, dell’intuizione, sulla misteriosa capacità di cogliere un’atmosfera. E’ un equilibrio precario, frammentario ed elettrizzante che è l’anima stessa di Shining. Lo stesso Stanley Kubrick che fosse proprio quello l’aspetto più “geniale” dell’intuizione di Stephen King, tanto da indurlo nell’avventura di trasformarlo in un film : “Mentre gli eventi soprannaturali si verificano si cerca una spiegazione, e sembra che la più plausibile sia che quelle strane cose che stanno accadendo alla fine saranno spiegate come prodotti dell’immaginazione di Jack (Torrance). E’ solo dal momento in cui Grady, il fantasma del precedente  guardiano che aveva assassinato con l’ascia la sua famiglia, permette la fuga di Jack facendo aprire il catenaccio della dispensa, che la spiegazione soprannaturale prevale”. L’Overlook Hotel è il capolinea perché la trasformazione di Jack Torrance comincia molto prima: l’isolamento e la solitudine contribuiscono soltanto a far esplodere la follia. Lassù, in cima, Stephen King ci arriva a modo suo, disseminando fin dalle prime battute un indizio dopo l’altro, tutta una serie di diversivi che poi vanno a comporsi nell’esplosione finale.  Diane Johnson, la sceneggiatrice del film di Kubrick, sosteneva che questo processo fosse limitato: “Il libro è stracolmo di cose. E’ il difetto di Stephen King come scrittore, butta tutto quanto sulla carta. I lettori adorano questo modo di scrivere ma è una mancanza di rigore”. Aveva capito: vale lo spazio che lascia Stephen King: c’è qualcosa di irrisolto, qualcosa di sospeso e l’importanza della trama è lampante in quella “splendida festa di morte” che è Shining ed è la cifra principale del suo stile almeno secondo Stanley Kubrick: “Direi che la forza di Stephen King sta nella capacità di costruire trame; non mi sembra che gli importi molto della forma. Mi sembra uno scrittore più interessato all’invenzione di una trama, cosa in cui eccelle”. Dal titolo in poi Shining si articola come un riflesso infinito in uno specchio, doppio e deforme: Jack Torrance si rivede nello spettro di Delbert Grady, Danny Torrance è l’estremo opposto e complementare di Dick Hallorann e Stephen King, eccoci qui, sembra ritrovarsi nella stessa follia alcolica e schizofrenica di Jack Torrance. Entrambi scrittori, il personaggio e il suo creatore sono accomunati da un destino sovrappopolato da fantasmi e c’è soltanto un’uscita d’emergenza, che l’Overlook Hotel non ha mai avuto. Come diceva Stephen King in On Writing: “Avevo scritto Shining senza nemmeno accorgermi di aver scritto di me stesso”. E’ il motivo per cui Shining, pur essendo una sublime e algida ghost story, va ben oltre l’elemento fantastico: il vero incubo, alla fine, è restare senza parole. 

giovedì 20 marzo 2014

Chad Harbach

Succede tutto nel perimetro che comprende il campus e nel diamante del campo da baseball del Westish College, nel Michigan, due aree collegate da un invisibile, contorto eppure solidissimo cordone ombelicale. L’arte di vivere in difesa è la specialità di Henry, il protagonista (il cui nome contiene forse un’involontaria citazione dal Gioco di Henry di Robert Coover) che vive per il baseball, nel ruolo specifico di interbase, e attorno al quale si sviluppa una serie di insiemi e sottoinsiemi che sembrano prima delineare e poi smentire il paradigma per cui “l’America è questa: i vincenti vincono, i perdenti vengono buttati fuori a calci”. Il baseball non è soltanto una magnifica ossessione, quella per cui “per tutta la vita aveva desiderato possedere un talento trascendente, un’unica abbagliante qualità che il mondo non avrebbe esitato a definire geniale”. E’ anche l’essenza stessa dell’arte di vivere in difesa  perché, come dirà uno degli onnipresenti scout e osservatori che compulsano le statistiche e scrutano i talenti sul campo: “La parola chiave nel baseball è fallimento, e se non sei capace di gestire il fallimento non durerai a lungo. Nessuno è perfetto”. L’arte di vivere in difesa diventa allora il tentativo di rimandare per sempre, e non soltanto la palla da una base all’altra. E’ l’idea di “fare ogni cosa con più facilità, a poco a poco. Mangiare sempre le stesse cose, svegliarti alla stessa ora, indossare gli stessi vestiti. Intoppi, cattive abitudini, pensieri inutili: tutto ciò che non era necessario svaniva lentamente. Tutto ciò che era semplice e utile, invece, rimaneva. Migliorare a poco a poco, fino al giorno in cui tutto sarebbe stato perfetto, e sarebbe rimasto così. Per sempre”. E’ un antico miraggio, in fondo, “il sogno di giorni tutti uguali. Ognuno uguale a quello precedente, solo un po’ meglio”. Il Westish College diventa così il proscenio dove Chad Harbach costruisce la sua storia agrodolce lasciandola spesso ondeggiare tra il dramma e la commedia come le acque del lago sui cui si affaccia il campus. Un luogo da cui nessuno se ne vuole andare, ma tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro, devono partire.  Nei suoi momenti migliori, Chad Harbach ricorda la leggerezza di Stephen King senza l’elemento fantastico, salvo la spruzzata gotica del finale. I personaggi sono caratterizzati da due, tre note specifiche, da una particolare vocazione e danno il meglio quando sono legati gli uni agli altri. Il concatenarsi degli eventi è la forma stessa della trama: una serie di scene che si incastrano una nell’altra con un tenore cinematografico e con un’impercettibile vena autobiografica. L’arte di vivere in difesa traballa proprio in quei passaggi, quei gangli che dovrebbero pesare di più e invece sono risolti come punti di contatto tra un’inquadratura e l’altra e vengono raccordati con una patina minimalista evanescente. La lettura è sempre gradevole, la sostanza resta sfuggente come una palla giocata con un po’ di effetto, senza troppe ambizioni, giusto salvare la partita.

lunedì 17 marzo 2014

George Saunders

Sempre caustico e irriverente, George Saunders prende i clichè della civiltà occidentale (la famiglia, prima di tutto, e senza pietà) e li viviseziona in parti irregolari, buttandole per aria per poi restare a guardare come si combinano. Il risultato è una specie di cut-up & fold-in elaborato e raffinato sul piano narrativo, non sempre agevole nella lettura, che ha un elevato  tasso di provocazione nel suo DNA. E’ la parte più riuscita, del resto di Dieci dicembre, dove l’impianto fondamentale dei racconti assume toni psichedelici ed esprime una satira sociale affilata, con una lingua ironica, sincopata, immaginifica. La percezione non è mai immediata, perché c’è un’analisi complessa dietro ogni singola short story di Dieci dicembre e la grande capacità di George Saunders è quella di tradurla in cornici ristrette, ben focalizzate, anche in contesti che appaiono surreali a prima vista. A volte le storie di Dieci dicembre sono brevissime come Croci, giusto due pagine, una cartolina spedita da un’estrema desolazione, che sembra essere soltanto l’introduzione di Il cagnolino, un’altra short story cruda e durissima. La rilettura dei luoghi comuni, come succede anche in Esortazione, e il riciclo di frasi fatte e consunte, di nomi e di modi levigati dall’abitudine è l’elemento che George Saunders usa per illustrare le dimensioni di rapporti alterati, distorti, fugaci. Se, a tratti e in superficie, i racconti sono impenetrabili è perché la vis polemica di George Saunders non cede di un millimetro ed è paradossale e iperbolica, come succede con Le ragazze Simplica, che è insieme l’espressione migliore e estrema di Dieci dicembre, compreso lo slogan finale: “Uscito fuori tema, causa stanchezza, causa zuffa gatti”. Più efficace il singolare, fantastico carattere di  Fuga dall’aracnotesta che ricorda Kurt Vonnegut nell’evocare la dipendenza farmacologica e i sentimenti di uomini e donne trattati come cavie. Tutto è fiction e surreale eppure molto pertinente alla stramba realtà dei nostri tempi, così come conferma uno dei suoi personaggi: “Ci vedo solo un normale sentimento di umanità”.  Non è un caso che proprio dietro le quinte teatrali di Fiasco cavalleresco si celi una specie di confessione: “Pensai che in fondo era una sua scelta. In base alla mia esperienza, che non è niente di straordinario, tendenzialmente concordo con il detto: se non è rotto, non aggiustarlo. Dirò di più: pure se è rotto, lascia perdere, facile che fai peggio”. Si adatta alla perfezione allo stile di George Saunders perché gioca di rimessa con le convenzioni, tende a ribaltarle e a riscriverle e così il lessico è caleidoscopico, incontrollabile. E’ ancora William Burroughs, il linguaggio come un virus: “Sto dicendo: cerchiamo di non analizzare ogni nostra singola azione in termini di sommo bene/male/né bene né male, a livello etico. Ormai certe cose sono acqua passata. Mi auguro che ognuno di noi questo discorso se lo sia già fatto quasi un anno fa, quando è partito tutto l’ambaradan”. Visionario, da usare con cautela.

venerdì 14 marzo 2014

Robert Ward

Quando la Larmer Steel, alla fine del 1983, chiude i battenti, gli operai tornano a bere nei bar di Baltimora con la certezza che tutto un mondo è finito. Il lavoro in acciaieria è duro, faticoso e pericoloso e per arrivare alla fine della giornata Red Baker, Dog Donahue e gli altri compagni di sventura hanno sviluppato un rete di sicurezza tessuta di orgoglio e amicizia. Anche quella viene travolta e con Io sono Red Baker Robert Ward rispolvera i drammi umani seguiti alle politiche economiche dei governi Reagan e delle guerre commerciali con il Giappone. Questo è solo il punto di partenza, il prologo della storia, l’inizio di un tuffo nella vita a livello zero dove alla dolorosa routine quotidiana si sostituiscono sogni improbabili, che presuppongono quasi sempre la fuga che è un altro modo per evitare la realtà. L’ombra della fabbrica chiusa è un peso insostenibile per la dignità di chi ci ha vissuto per anni e le spinte di una società competitiva fino all’ossessione rendono la tensione palpabile. Anche i comportamenti più resistenti e costruttivi come quelli di Wanda, la moglie di Red Baker, sembrano inutili nella marea di disperazione che attanaglia un'intera città. La condizione di estrema precarietà crea un’atmosfera cupa, senza alternativa. I legami, le amicizie, i matrimoni diventano scomodi, ingombranti, asfissianti perché, come dice Red Baker, “vuoi qualcuno che ti conosca, per condividere ogni tuo segreto, qualcuno con cui condividere la tua solitudine e poi, dopo che questo succede, ti senti completamente vuoto e privato di tutto. Ti rubano i segreti, conoscono le paure nascoste dietro i tuoi modi. Sei ridotto all’osso”. Robert Ward riprende la lingua grezza, popolare, incolta e naturale: gergo da strada, da bar, da birra e whiskey, intriso dalla malinconia delle canzoni country & western e dall’urlo incondizionato di Satisfaction. Senza tanti aggiustamenti la trasforma in una scrittura che è livida, sgraziata, grezza e comunque molto solida e concreta nel raccontare la disperazione e il disorientamento blue collar. Tra una fila all’ufficio di collocamento e una rissa, una sbronza e una crisi famigliare, le solitudini di Red Baker e Dog Donahue si rincorrono nell’inverno di Baltimora: anche se l’umanità è la stessa, il quadro degli outsider di Robert Ward è molto meno edificante delle ballate springsteeniane (la seconda parte di The River e Nebraska in modo particolare) che l’hanno ispirato. Tra tutte, è quel verso di Atlantic City che dice “ora sto cercando un lavoro, ma è difficile trovarne, qui ci sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare intrappolati nella parte sbagliata della linea” a collimare con la storia di Red Baker. Il dramma, tanto inevitabile quanto realistico, è dietro l’angolo e anche se il finale, che arriva un po’ come un epilogo, è fortunoso, lascia in sospeso ancora molti dubbi irrisolti ed è attraversato dalle ombre dell’acciaieria ormai muta e immobile come una città popolata da fantasmi. Un libro scomodo e necessario.

sabato 8 marzo 2014

Charles Bukowski

Le interviste hanno sempre rivelato il Bukowski più immediato, generoso e urticante, senza alcuna distinzione tra un momento e l’altro, tra una sfumatura e l’altra. Il confronto non è mai stato semplice o indolore perché la sua attitudine era: “adesso me ne sto qui senza fare niente e bevo vino e parlo di me perché voi mi fate le domande, non perché io abbia le risposte, ok?”, e per dirlo con le sue parole, era adeguata  all’essere “genuinamente mostruoso” che interpretava. Spogliato di molte delle sue armature, il buon vecchio Hank invece mostra, più di altre volte, molti lati inediti e/o non così conformi ai contorni dell’aura leggendaria che gli è propria. Nell’ampia selezione di Il sole bacia i belli, spunta un Buk persino moralista quando dice in una delle ultime interviste: “La felicità e il significato profondo della vita non sono delle costanti, ma credo che qualche volta possiamo avere entrambi se in qualche caso riusciamo a fare quello che vogliamo realmente, quello che ci piace veramente, invece di seguire regole preconfezionate. E’ tutto molto semplice e vale la pena di lottare per questo. Quelli che si inchinano dinnanzi a strade false e a falsi dei raccolgono solo la confusione e l’orrore di vite sprecate”. E capita di scovare un Bukowski acuto dal punto non meno lucido, anche quando si infervora davanti ai soliti luoghi comuni, quelli della politica in primis: “Perché questi cliché, queste banalità? Okay, be’, direi di no. Non abbandoniamo la nave. Dico, per quanto scontato possa sembrare, attraverso foza spirito fuoco audacia rischio di pochi uomini in pochi modi possiamo salvare la carcassa dell’umanità dall’annegare. Le luci non si spengono finché non si spengono. Combattiamo come uomini, non come topi. Punto e basta. Non c’è altro da aggiungere”. Se si spulcia con attenzione, intervista dopo intervista, si può assemblare e rendere comprensibile il metodo nella follia di Bukowski, il rapporto con la realtà  fotografata attraverso la scrittura: “Generalmente quello che scrivo sono più che altro fatti reali ma sono abbelliti anche da un po’ di narrativa romanzesca, un colpo al cerchio e uno alla botte, ma tenendo sempre le due cose separate. Credo che in un certo senso sia tradire, ma potremmo sempre chiamarla fiction. Fiction è tradire? Mischio i fatti reali con la fiction. Nove decimi di fatti e un decimo di fiction, per rendere la realtà credibile. Così, mi prendo il meglio di tutto, ecco come funziona”. L’arco di interviste, incontri, insulti raccolti da Il sole bacia i belli è abbastanza ampio (dal 1963 al 1993) da risultare esaustivo e nello stesso tempo ben avvinghiato al personaggio, molto semplice, molto coerente, che Bukowski alimentava seguendo alcune semplici coordinate. La prima: “La mia idea di vita è la pagina successiva, il paragrafo successivo, la frase successiva”. Poi c’è un appunto autobiografico (come ce ne sono molti, tutti meritevoli) che riassume la sua carta d’identità in quattro righe: “Ho qualche problema di stomaco, il mio fegato è troppo carico e le mie emorroidi minacciano di conquistare il mondo, ma al diavolo. Ce la farò”. Non avevamo dubbi. 

giovedì 6 marzo 2014

Joan Didion

La prima impressione, quando Joan Didion arriva a Miami, è che “un’entropia tropicale sembrava prevalere, facendo scivolare in malora i grandi progetti anche quando venivano portati a termine”. L’atmosfera è tale che la città le appare come “una specie di sogno a occhi aperti in cui tutto è possibile” e dentro questa indefinita cornice rientrano Cuba, il Nicaragua, il Salvador, l’estensione delle frontiere e degli interessi americani e, come una logica conseguenza nel rapporto tra causa ed effetto, “l’esilio come una forma di immigrazione”. Dalla presidenza di Kennedy agli anni di Reagan, Joan Didion ha un modo speciale di accostarsi alla cronaca storica, alla critica politica, alla costruzione di un saggio, usando la scrittura come un veicolo, come uno strumento per orientarsi negli oscuri labirinti di Miami e per far emergere e rendere trasparenti “frammenti di narrativa sommersa”. Attraverso questo lavorio Joan Didion cerca di comprendere e tradurre Miami dal punto di vista linguistico, filtrando con la consueta e minuziosa scrupolosità come la realtà influisce sul linguaggio, e viceversa. Non è soltanto la commistione tra spagnolo, inglese e altri idiomi o le culture che rappresentano. Sono anche i vocabolari della politica e della CIA, che costruiscono quella che Joan Didion definisce una “una lingua interamente basata sul principio di negabilità, e come tali potrebbero aver avuto un significato diverso (o anche nessun significato) nella Miami del 1963, dove qualsiasi parola poteva significare tutto e il contrario di tutto”. Vent’anni dopo, con le amministrazioni Reagan, l’informazione viene trasformata in “una forma di arte popolare” e Miami si trova al centro di un ciclone che cambierà tutto in modo radicale e per sempre. Dall’osservatorio privilegiato di Miami, dove niente è “completamente immobile, o del tutto solido” Joan Didion percepisce subito l’entità della metamorfosi indotta dalla comunicazione pubblica di Reagan e dalle sue proiezioni perché “prima di tutto queste storie non erano mai casuali, ma sistematiche, e venivano usate in maniera assolutamente non casuale. Avevano sempre un unico obbiettivo, e il linguaggio in cui venivano raccontate non era quello della politica, ma quello della pubblicità e della forza vendite”. Il fenomeno, come si sa, non riguarderà soltanto Miami o gli interessi americani nei Caraibi e, come precisa Joan Didion, non si trattava soltanto di “volgarità verbale”, a cui lei oppone una raffinata e completa ricostruzione. Dentro quelle parole, e poi soprattutto quelle immagini che a Miami affiorano in superficie chiare, semplici ed efficaci più che nel resto dell’America, diventa evidente che “le rivoluzioni e le controrivoluzioni sono incastonate nella sfera del privato e l’apparato di sicurezza dello stato esiste solo per essere arruolato da uno dei soggetti privati che guidano l’azione”. L’immagine esotica rimane sullo sfondo: con Miami, anno di grazia 1987, Joan Didion percepiva il futuro, così come è oggi.