lunedì 24 marzo 2014

Stephen King

E’ dietro la porta della camera 217 dell’Overlook Hotel che si nasconde l’epicentro di Shining. Anche se rimane chiusa. Mascherato dalle agghiaccianti visioni, che sfruttano il fantastico per svelare l’orrore più prosaico della realtà, c’è un romanzo sulla magia della percezione, dell’intuizione, sulla misteriosa capacità di cogliere un’atmosfera. E’ un equilibrio precario, frammentario ed elettrizzante che è l’anima stessa di Shining. Lo stesso Stanley Kubrick che fosse proprio quello l’aspetto più “geniale” dell’intuizione di Stephen King, tanto da indurlo nell’avventura di trasformarlo in un film : “Mentre gli eventi soprannaturali si verificano si cerca una spiegazione, e sembra che la più plausibile sia che quelle strane cose che stanno accadendo alla fine saranno spiegate come prodotti dell’immaginazione di Jack (Torrance). E’ solo dal momento in cui Grady, il fantasma del precedente  guardiano che aveva assassinato con l’ascia la sua famiglia, permette la fuga di Jack facendo aprire il catenaccio della dispensa, che la spiegazione soprannaturale prevale”. L’Overlook Hotel è il capolinea perché la trasformazione di Jack Torrance comincia molto prima: l’isolamento e la solitudine contribuiscono soltanto a far esplodere la follia. Lassù, in cima, Stephen King ci arriva a modo suo, disseminando fin dalle prime battute un indizio dopo l’altro, tutta una serie di diversivi che poi vanno a comporsi nell’esplosione finale.  Diane Johnson, la sceneggiatrice del film di Kubrick, sosteneva che questo processo fosse limitato: “Il libro è stracolmo di cose. E’ il difetto di Stephen King come scrittore, butta tutto quanto sulla carta. I lettori adorano questo modo di scrivere ma è una mancanza di rigore”. Aveva capito: vale lo spazio che lascia Stephen King: c’è qualcosa di irrisolto, qualcosa di sospeso e l’importanza della trama è lampante in quella “splendida festa di morte” che è Shining ed è la cifra principale del suo stile almeno secondo Stanley Kubrick: “Direi che la forza di Stephen King sta nella capacità di costruire trame; non mi sembra che gli importi molto della forma. Mi sembra uno scrittore più interessato all’invenzione di una trama, cosa in cui eccelle”. Dal titolo in poi Shining si articola come un riflesso infinito in uno specchio, doppio e deforme: Jack Torrance si rivede nello spettro di Delbert Grady, Danny Torrance è l’estremo opposto e complementare di Dick Hallorann e Stephen King, eccoci qui, sembra ritrovarsi nella stessa follia alcolica e schizofrenica di Jack Torrance. Entrambi scrittori, il personaggio e il suo creatore sono accomunati da un destino sovrappopolato da fantasmi e c’è soltanto un’uscita d’emergenza, che l’Overlook Hotel non ha mai avuto. Come diceva Stephen King in On Writing: “Avevo scritto Shining senza nemmeno accorgermi di aver scritto di me stesso”. E’ il motivo per cui Shining, pur essendo una sublime e algida ghost story, va ben oltre l’elemento fantastico: il vero incubo, alla fine, è restare senza parole. 

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