venerdì 29 novembre 2024

Paul Auster

Sullo sfondo di una New York conturbante, Sidney Orr, scrittore che torna alla vita dopo una malattia improvvisa e devastante, è una sorta di guida nei gironi che via via bisogna affrontare. È un percorso con molti ostacoli che lo stile raffinato di Paul Auster non nasconde e nemmeno tenta di mitigare: La notte dell’oracolo ha una costruzione complessa e la proliferazione delle storie, incastrate una dentro l’altra, comincia subito a infittirsi e a farsi labirintica almeno quanto la città in cui si svolgono. Dentro questa architettura, Sidney Orr si muove un po’ come un rabdomante anche se non è chiaro cosa sta cercando e dove lo stanno portando le sue personalissime passeggiate e la nuova dimensione acquisita dopo aver rischiato la vita. È tutto un florilegio di sottintesi da racconti, sceneggiature, romanzi, adattamenti e di citazioni di Dashiell Hammett che punteggiano le sue giornate. Dal punto di vista letterario La notte dell’oracolo è come un viaggio in metropolitana, ogni fermata conduce in un luogo diverso della stessa città: le scritture sono tante e c’è qualcosa di incompleto che si ripete. Il racconto che Sidney Orr scrive sul nuovo taccuino portoghese comprato in uno strano negozio non ha fine e s’incastra in un vicolo cieco. Il romanzo che è all’origine di tutto resta un’incognita. L’adattamento proposto per La macchina del tempo di H. G. Wells si perde nei meandri di Hollywood mentre la proposta dell’amico John Strause, a sua volta scrittore ormai impossibilitato a muoversi, di rivedere un’opera giovanile chiamata L’impero delle ossa finisce sparsa sul pavimento della metropolitana. Come se non bastasse, Sidney Orr si imbatte nell’ennesimo romanzo che narra di un altro romanzo e così La notte dell’oracolo diventa una serie di scatole cinesi che si compensano, senza però trovare un’armonia complessiva o una collocazione definitiva. Non c’è una singola parte che riesca ad arrivare a una destinazione e, nell’insieme, nemmeno lo stesso romanzo di Paul Auster. Le trame si attorcigliano una dentro l’altra e se New York resta il luogo ideale per ospitarle, rimane il fatto che arrivano tutte in un cul de sac. Anche la vicenda principale, quella che si svolge attorno a Sidney, Grace (la moglie) e John Strause e che si conclude nel gran finale, è talmente ingolfata di digressioni, sottintesi e paralleli (per non parlare delle fittissime note a piè di pagina che sono un’ulteriore divagazione) che pare sfuggire di proposito all’obiettivo. Come se non bastasse, La notte dell’oracolo ospita anche l’enigmatica figura di Chang, che si presenta nei momenti più sorprendenti, dove le alterazioni nella vita di Sidney Orr raggiungono livelli onirici, se non proprio magici. I limiti stanno in una rappresentazione autoreferenziale che è particolareggiata e fluida, ma che in definitiva sembra non scegliere mai una direzione precisa, forse in ossequio al fatto che “il mondo è governato dal caso”, e non è che si può fare diversamente. Certo, la celebrazione del potere della scrittura e delle storie, a cui vengono attribuite persino facoltà divinatorie e premonitrici, gli echi di Calvino, Borges e Kafka si sentono e sono evidenti nel condensare il valore delle parole che “sono reali”, così come “tutto quello che è umano è reale, e a volte conosciamo le cose prima che succedano anche se non ne siamo consapevoli. Viviamo nel presente, ma il futuro è dentro di noi in ogni momento”.  La parole non scorrono invano, i personaggi appaiono, fanno la loro parte (il più delle volte, parecchi danni) e scompaiono nel nulla, Sidney Orr soffre segreti, bugie e rivelazioni e Paul Auster non si discute, ma La notte dell’oracolo rimane criptico ed eccessivo, come una mappa di New York consumata dall’uso e dove ormai la geografia bisogna immaginarsela.

martedì 26 novembre 2024

Henry Wise

Aveva ragione Tom Petty: quella roba lì “non la buttano via, è ancora là, si tramanda di padre in figlio”. Si tratta proprio dei “southern accents” che pervadono Holy City, notevole esordio di Henry Wise (nella traduzione di Olimpia Ellero) che ci porta dritti laggiù. La cornice iniziale è già in qualche modo definitiva: un incendio, un morto, un uomo sulla scena del crimine, l’inseguimento, l’arresto. Le prime prove sono molto pesanti e lo sceriffo pensa di aver risolto il caso. Will Seems, giovane vice che nel nome e nel cognome contiene tutta la storia è convinto della sua innocenza e segue “un film che aveva senso solo per lui”. A quel punto l’omicidio alla fonte della trama di Holy City pare quasi relativo, così come la caccia al colpevole. Tutti hanno qualcosa da nascondere: un rimpianto, un rimorso, il senso di colpa, un sospetto che si allunga nello spazio e nel tempo. Dalle contee di Euphoria ed Emporia fino a Richmond, la Virginia appare popolata da “un’unica grande famiglia” ma è come se fossero tutti sconosciuti e le strade che percorrono non portino da nessuna parte, delimitando “una terra dura e ondeggiante che aveva finito per plasmare tutti loro, i loro corpi, i loro sogni”. Henry Wise si prodiga con una scrittura lucida ed elegante per far notare che “da quella pressione si veniva schiacciati o spinti ad andarsene per rifarsi una vita altro”. Lo stesso Will Seems “aveva l’impressione di aver vissuto un’intera vita a cercare qualcuno e di essersi ritrovato alla fine al punto di partenza, solo che quel punto di partenza era cambiato, e lui no. Non c’era nessun posto a cui tornare”. In effetti, il suo rientro è dovuto al ricordo di un’aggressione a sfondo razzista nel suo passato e a una sensazione urgente, come se tutti “potessero tornare indietro nel tempo, solo per rivivere tutto”. La memoria incide almeno quanto le apparenze ingannano e ben presto alla prima linea maschile subentra una compagine femminile che determinerà le sorti di Holy City, a partire da Bennico Watts, un’investigatrice privata che riuscirà a smuovere una situazione intricata. Il ruolo delle donne e della fede è celebrato da Henry Wise persino nel cibo quando “una grande cena” viene confezionata con il pane fatto in casa, il pesce gatto fritto  “l’okra raccolta nell’orto, lessando il mais con tutta la pannocchia, e bollendo le cime di rapa con cipolla e bacon nel brodo di pollo”. Nel menù c’è tutto il Sud e nell’identità c’è un tempo che non passa, divisioni che rimangono come ferite, fratture che spaccano le persone non meno del territorio mentre Will Seems si prodiga nel “catturare, o meglio cercare di catturare, la luce cruda e arroventata di mezzogiorno. Intravedeva delle possibilità, aveva delle visioni, delle forme di estasi. Andava sempre così. A volte, ciò poteva rappresentare una fonte di pace: prendere le cose per come erano, per come sarebbero sempre state”. Nella Virginia di Holy City, i contrasti tra uomini/donne, bianchi/neri, legge/giustizia si sovrappongono agli intrecci famigliari. È lì che gli “accenti sudisti” si fanno sentire: “Guarda l’esempio offerto da questo posto: non ha mai superato la Guerra Civile, e perché? Perché il Sud ha perso. Noi pensiamo di odiare quella ferita, eppure non riusciamo a separarcene”. La soluzione non sarà indolore, ma questo, con un minimo di dimestichezza, lo si può intuire fin da subito, e del resto Henry Wise la lascia emergere già a metà della storia. Restano le distanze tra le contee e Richmond, la città dove finisce tutto, e persino all’interno dei quartieri tra Southside e Promised Land. Anche la scelta dei nomi (non casuali) porta a capire che con Holy City abbia voluto rendere “qualcosa di magnetico, di triste, di bello” che aleggia sul Sud degli Stati Uniti e che in gran parte resta ancora inafferrabile.

mercoledì 20 novembre 2024

Tom Robbins

Irriverente e visionario come non mai, Tom Robbins costruisce un’articolata allegoria del potere e una parodia senza freni della ricerca di una vita per comprendere “il significato delle cose”. L’oggetto dell’estremo desiderio che coinvolge ogni protagonista di Profumo di Jitterburg è un profumo portentoso, rincorso da una variopinta umanità che va da una cameriera a Seattle a un immortale (o due) a Costantinopoli, da una regina di New Orleans a un uomo con una maschera da balena a Parigi, dato che “a questo mondo ci sono persone che posso indossare maschere a balena e persone che invece non possono”. La ricerca dell’essenza filtra attraverso i secoli così come negli spazi e sopra gli oceani: secondo la percezione di Tom Robbins “ci sono apertamente poche limitazioni di tempo o di spazio per i viaggi della psiche, e soltanto l’ispettore di dogana assoldato dalle nostre inibizioni pone limiti a ciò che ci si può portare dietro quando rientriamo nella quotidiana coscienza”. Le frontiere saltano subito: Kudra e Alobar, due personaggi centrali, “incerti, intrepidi, forse immortali, decisamente innamorati”, partono quando “la terra era ancora piatta e la gente sognava spesso di precipitare giù dal bordo”, passano per l’Himalaya approfondendo il Kamasutra e, in compagnia del dio Pan, vagano fino alla terra promessa, ovvero l’America. Nel frattempo passano i secoli e sull’affollatissimo palcoscenico di Profumo di Jitterburg vanno in scena Descartes, Einstein, Mary Quant, l’impero romano e il cristianesimo, l’estinzione dei dinosauri e di tutto e di più secondo l’insindacabile regola per cui “il mondo è un puzzle e la vita un cappio”. Per di più, allo spasmodico inseguimento del profumo si sovrappone l’apparizione delle barbabietole, un tubero con una sua peculiare caratteristica che, alla fine, sarà risolutoria. “L’aroma del paradosso” è il vero Profumo di Jitterburg, un romanzo caotico e scoppiettante che è un tutto: provocatorio e incongruente, ma con un suo specifico motivo, una mappa mentale che si dipana secondo progressi ineluttabili, ma anche imperscrutabili. Un ordine c’è ed è quello dello scrittore, della sua particolare percezione del mondo, capace di scompigliare le trame, quel tanto “da complicare un po’ la storia. Se a una situazione non si riesce a estrarre alcun lume, tanto vale estrarci un po’ di spasso”. Profumo di Jitterburg è un romanzo portentoso, che ribolle di comicità, erotismo, miti “che spiegano il mondo” e leggende che lo confondono. Ogni personaggio è “il re di se stesso” e, con ogni singola voce, si attorciglia attorno a una forma erudita e cosmopolita, eppure chiarissima e divertente. A volte fin troppo, e non è sempre agevole seguire il filo del discorso, ammesso che ce ne sia uno, ma il ritmo è pazzesco e coinvolgente. Digressione dopo digressione, Tom Robbins crea universi di parole, ben consapevole che “forse la cosa più terribile (o meravigliosa) che possa succedere a una giovane persona piena di immaginazione, a parte la maledizione (o benedizione) dell’immaginazione in sé, è venire a contatto, senza esservi preparata, con la vita al di fuori della propria sfera, l’improvvisa rivelazione che c’è per l’appunto qualcosa là fuori”. Il trucco è precipitare in libertà dentro una voragine di storie che si accavallano una sopra l’altra: Profumo di Jitterburg è un’odissea pan-aromatica e psichedelica nel senso più esteso del termine, con un gran finale nel carnevale del Mardi Gras, tra jambalaya e champagne, e non poteva esserci destinazione più accurata.

lunedì 18 novembre 2024

James Lee Burke

Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che Clete Purcel e Dave Robicheaux soffrono di disturbo da stress post-traumatico, maturato tanto in Vietnam quanto nelle strade di New Orleans. La città non aiuta e lo spiegava benissimo Tom Robbins quando dice che appena ci arrivi “qualcosa di bagnato e di scuro ti balza addosso e comincia a dimenarsi come un randagio in calore uscito dalle paludi”. L’unica possibilità di disfarsi di questo odore è adeguarsi, e mangiarlo e così si spiegano i numerosi pasti quotidiani di Clete e Dave, che sono poi i momenti principali in cui si ritrovano a confrontarsi con i rispettivi fantasmi. In questa osmosi di ruoli con Streak, Clete pare più riflessivo, anche se si dedica alla distruzione con il consueto tatto, compreso l’utilizzo, non proprio a norma, di una betoneria. È solo un episodio, il più delle volte va  dispensando un’inedita saggezza: “Vi spiego. Disorienta il tuo nemico. Fai l’inaspettato. Se non funziona, non fare nulla. Lascia che il silenzio sia la tua arma. Il punto è confondere il nemico e fargli rivolgere le energie contro se stesso. Non è difficile. Il colpo migliore nella boxe è quello che eviti”. I tentennamenti di uno e i black-out dell’altro li conducono a incrociare uno sciame di forze maligne che coltivano ancora l’oppressione, lo sfruttamento, la violenza come strumento di un potere assoluto e feroce, nascosto dietro paraventi di affettata cortesia e antico galateo. I Bobbsey Twins si trovano a combattere tra Hollywood e il Ku Klux Klan (o qualcosa di peggio) e la vera lotta, mostri, allucinazioni e veleni a parte, è contro l’ipocrisia dato che “la Louisiana meridionale è il paradiso, a patto che si chiuda un occhio e non ci si soffermi sulla corruzione, che qui è uno stile di vita”. Il nemico è sfuggente e pericoloso. Non manca la femme fatale di turno, ma sono altre le figure femminili che si impongono per il coraggio, la forza, la determinazione, a partire da Giovanna D’Arco, le cui apparizioni punteggiano tutta la trama di Clete. L’elemento soprannaturale e/o fantastico, non insolito nei romanzi di James Lee Burke, distingue in modo particolare la visione di Clete Purcel che è nella stessa prospettiva di Streak, solo che cambia l’approccio. Però, dai e dai, i due prima si completano e poi si sovrappongono e così Clete è il riflesso naturale di New Iberia Blues o Una cattedrale privata, una celebrazione infinita della saga e la doverosa affermazione di Clete Purcel, un personaggio che deve essere sfuggito di mano a James Lee Burke e che si concede più di una confidenza (e figurarsi se non può permettersela). Clete Purcel si rivolge a tutti, anche ai lettori trascinandoli in un gorgo ipnotico e avvincente. Business al usual, d’accordo, ma come i piatti saporiti e succulenti della cucina sudista, c’è molto da gustare: la vista dello scenario resta uguale per entrambi e New Orleans  e gli altri distretti della Louisiana sono parte di un ecosistema fragile e unico, sospeso tra la terra e l’oceano che hanno un loro punto di incontro nel bayou. Albe e tramonti nelle sfumature variopinte della luce contribuiscono in modo determinante alle suggestioni del romanzo e ipnotizzano Clete e Dave non meno di James Lee Burke. Poi, “è solo rock’n’roll. Tutti arrivano alla stessa destinazione. L’importante è come ci si arriva”. Si era capito nella dedica a Nils Lofgren, dalla citazione illuminante di Light My Fire dei Doors, a quella, non meno importante, di Promised Land di Chuck Berry, ma l’apoteosi è riservata a Bob Seger che, en passant, viene definito il più “grande filosofo americano”. Mai avuto dubbi, ma è bello vederlo scritto nero su bianco.

lunedì 11 novembre 2024

Edward Bunker

Come scrive James Lee Burke, “il punto non è la reclusione; è l’umiliazione. È la perdita instantanea dell’identità e della dignità”. La rassegnazione della vita in carcere è tutta lì: il rapporto con i secondini e con la burocrazia, le gerarchie dentro le mura, le divisioni e i conflitti razziali, l’idea fissa dell’evasione, i rapporti alterati dalla paranoia, e comunicazioni attraverso le tubature dei cessi, l’equilibrio (si fa per dire) tra punizioni e concessioni, le risse e le rivolte determinano la pena quotidiana di Animal Factory, ovvero San Quentin, e rappresentano un cupo capolinea senza alcuna umanità, solo giorni che si consumano nel nulla. Ronald Decker, giovane e inesperto spacciatore, al suo debutto nel sistema carcerario, trova una sponda inaspettata e fortunosa in Earl Copen, un veterano inserito alla perfezione nelle dinamiche della galera. Il primo incontro avviene nel corso di uno sciopero che mette subito in risalto le tensioni che vedono tra scontrarsi tra loro masse di detenuti poi destinati a soccombere con l’intervento delle guardie che sparano con tutto quello che hanno a disposizione. Nessuna pietà: Animal Factory (nella traduzione di Fabio Zucchella) è governato da forme di violenza che si propagano in ogni direzione, spesso con l’aggravante sessuale. Ron è una preda facile della “definitiva mancanza di significato della vita in un universo differente” e l’amicizia in carcere può essere equivoca, come qualsiasi altra cosa. Ogni aspetto legato ai rapporti umani è compresso in un’infinita paranoia e “dopo un po’ impazzisci e fai cose che non dovresti fare”. Earl Copen conosce bene le dinamiche, e sa che “tutto quello che ha un uomo in prigione è la reputazione con i compagni” ma per qualche motivo, più di tutti il bisogno di covare ancora un briciolo di speranza, si avvicina a Ronald Decker e lo aiuta a sopravvivere nel contorto recinto di San Quentin che “era qualcosa in più di un luogo murato; era un mondo alieno di valori distorti, governato da un codice di violenza”. Non esiste definizione più accurata di questa. L’ambiguità, l’altra faccia della paranoia, è costante. Gli accoltellamenti dettano cicli di guerra e pace, domina il razzismo “che andava al di là del razzismo per trasformarsi in ossessione da entrambe le parti”. Mentre le residue aspettative sono affidate alle pronunce di un giudice, di una commissione o di un ufficiale, ma il più delle volte gli appelli finiscono nei vicoli ciechi della burocrazia, i detenuti si industriano in traffici e intrighi ma “è già un lavoro a tempo pieno rimanere vivi”. Sfiancati dall’isolamento, Earl e Ron decidono di evadere, aiutati da mezza prigione e da lì in poi il destino resta un’incognita. Attorno a loro due, Edward Bunker in Animal Factory scrive un diario dal carcere episodico e graffiante che non fa sconti in nessuna direzione. La brutalità è condivisa dal potere così come dai condannati. Non c’è tregua e anche uno come Earl, che vanta esperienza e stile, non è mai al sicuro e se “la routine è la chiave per sopravvivere alla prigione”, è anche il tedio che affossa ogni ambizione. La conoscenza di Edward Bunker della materia carceraria è minuziosa e dovuta all’esperienza, quindi di prima mano, comprese le fragili forme di amicizia e le difficoltà nello stabilire rapporti di fiducia. L’interno della prigione è visto come se fosse sotto una lente di un microscopio: i rapporti di forza sono letti attraverso un linguaggio scarno e spontaneo che segue le ombre ben oltre oltre le mura di San Quentin o Alcatraz o qualsiasi altro penitenziario. Fuori, secondo uno che “si è fatto quarantasei calendari”, Charley Fitz, “non è cambiato un accidente di niente. Forse si muovono un po’ più in fretta, ma è sempre la solita merda”. Durissimo, ma sincero.