domenica 16 febbraio 2020

Kristin Hersh

L’addio a Vic Chesnutt di Kristin Hersh è un po’ un diario di viaggio e un po’ il frutto di una corrispondenza con un destinatario sfuggente, che non risponde mai. Le cronache in tour coinvolgono quattro persone, che poi sono due coppie: Kristin Hersh e il marito (e manager) Billy O’Connell e Vic Chesnutt e la moglie (e bassista), Tina Whatley. La complicità che si sviluppa nelle lunghe ore di attesa tra un concerto e quello dopo (in mezzo non c’è altro, se non la strada) diventa un terreno di incontro ee scontronel quale l’attrito con e per Vic Chesnutt genera un racconto agrodolce, ispido e dolorosamente sincero. Nella sua semplicità, Kristin Hersh è molto efficace nel dipanare i legami incrociati, inquadrandoli sempre attorno alla figura tormentata di Vic Chesnutt, un concentrato di ironia, furia, sofferenza e sensibilità. Il dialogo è a senso unico: Kristin Hersh gli scrive a distanza, senza ottenere risposta perché lui è duro e fragilissimo, fino agli appelli finali, che cadono nel vuoto. Restano le emozioni degli show insieme e Kristin Hersh ricorda che “il rumore che fa il dolore è bellissimo quando viene messo in musica. Il rumore che fa la gioia è ancora più bello, ma quello che facevamo noi era ancora rozzo”. I concerti si susseguono in luoghi minuscoli, piccoli anfratti in uno scenario di desolazione fatto di parcheggi, motel disadorni, pillole e tequila, screzi e giochi di parole e un sacco di tempo perso per arrivare all’emozione di cantare insieme Panic Pure o tutte quelle “canzoni che facevano venir voglia di mettere la mano davanti alla bocca, tanto erano oneste”, come le definisce Amanda Petrusich nella prefazione. Con i vestiti sgualciti, tra il grande nulla dell’America e la scoperta dell’Europa, con i pasti consumati in fretta e senza gusto, arrancando tra notti insonni e faticosi risvegli, il colore della storia è un grigio metallico e screziato, a riprova di quello che scrive ancora Amanda Petrusich: “In nessuna situazione queste idee diventano così immediatamente chiare se non quando si soffre per tutte le umiliazioni legate all’andare costantemente in tour con pochi mezzi a disposizione, le avversità appena temperate, e per breve tempo, da quella strana estasi che accompagna le esibizioni dal vivo”. L’insieme non può che essere frammentario, come una cornice che cerca di tenere insieme un quadro spezzato che nel suo centro ha la figura di Vic Chesnutt e quella irripetibile alchimia una volta on stage, che Kristin Hersh descrive così: “Ogni palco è un terreno sconosciuto che devi tastare, di cui ovviamente non puoi apprendere tutti i fondamenti. Alcuni di questi fondamenti sono come fili che non hanno alcuna intenzione di assecondarti, si attorcigliano in maniera subdola, tanto da formare un cappio personalizzato. Cappio con cui ci impicchiamo regolarmente, mentre la gente si aspetta che officiamo la messa, che diventiamo corpi di canzoni cominciano a fluttuare sul pubblico, oppure che ci trasformiamo in spesse nubi di suono prima di riprendere la nostra forma”. È l’unica fonte di sostentamento, forse anche l’ultimo appiglio alla realtà ma, ammette Kristin Hersh con candore, “i volti che ti emozionano possono ferire se la vita non sempre è stata gentile. E sogni folli hanno lasciato uno strano miscuglio di speranza e disperazione, la sensazione di avere una casa e contemporaneamente non averla”. In quel momento  il traballante equilibrio della comitiva si sfalda, anche perché il ritorno, casa o non casa, implica la separazione. Lì la conclusione di Kristin Hersh per Vic Chesnutt è lucida e preoccupata in parti uguali: “La cosa più folle, e lo dico in senso letterale, la cosa più folle, era che per te vittoria significava sempre sconfitta”. Fino all’epilogo, più volte annunciato, nel giorno di Natale del 2009. Con Vic Chesnutt se ne va anche quel piccolo milieu in viaggio, compreso il matrimonio tra Billy O’Connell e Kristin Hersh, che si ritrova, sola, a cantare sul palco e ad ammettere che “a volte mi limito a consentire alle canzoni di farmi scomparire”. Straziante, ma vero.

giovedì 13 febbraio 2020

Amiri Baraka

Thelonious Monk era solito dire che “esistono due tipi di errori. Quelli normali e quelli che suonano male”. È un calembour che Amiri Baraka lascia filtrare almeno due volte in questa collezione di articoli, un indizio che rende l’idea di esplorazioni istintive e coraggiose nella ricerca di connessioni tra musica e poesia (“La musica, innanzitutto, è poesia”) e tra musica e realtà (“La musica parla, canta come totalità della propria attualità storica, la conferma di tutti gli aspetti di cui è composta”). Trattandosi di Black Music, e non serve la traduzione, l’aspetto principale resta comunque un conflitto mai addomesticato, dato che “in America i processi con il maggiore impatto storico che hanno plasmato questa cultura sono stati lo schiavismo e il colonialismo, il suprematismo bianco, il razzismo, l’imperialismo, la repressione interna. Il paradosso sta nel fatto che queste barbarie sociali hanno cercato di segregare e bloccare nella separazione i diversi elementi della cultura nel suo intero con motivazioni economiche, sociali, politiche e susseguentemente psicologiche ed emozionali. Però spesso li hanno costretti a convivere”. Di conseguenza, il patrimonio genetico della Black Music resta puro blues, “presenza, forma, contenuto, essenza spirituale e raggio d’azione”, che è anche il colore delle origini visto che “il blu in Africa, prima del viaggetto fin quaggiù, era il nostro colore preferito, così bello che lo mettevamo addosso ai nostri bellissimi sé in ogni momento. Invece in America il blu è un ricordo, con riflessi neri per la faccia e rossi per il sangue, e bagnato dalle lacrime e dalla morsa dell’oceano. Blu è quanto ricordiamo, quanto abbiamo lasciato e quanto non sopportiamo di ricordare. Quel che abbiamo perso, quel che cantiamo, blu, blues, che cosa ho fatto per essere così Black And Blue. Lady Sings The Blues la racconta tutta. Ma poi You’Ve Changed, oppure l’altro lato, Lady In Satin, ti mette in ginocchio. Ti farà capire il dolore della memoria e del desiderio in questa terra”. Perfetto. Si capisce che, immerso nella Black Music, Amiri Baraka è più passionale e istintivo nei giudizi, ma questo non cambia il valore e la profondità delle sue impressioni, che, anzi, sono più coinvolgenti. Usa tutte le forme possibili: interviste, reportage, necrologi (memorabile quello per Jackie McLean), poesie (“Quando scrivi una poesia è il ritmo che ti mette in moto, ancora prima di sapere quali saranno le parole e poi cerchi le parole che calzano con quel ritmo”). È un cronista efficace e attento a cogliere gli aspetti vitali dei movimenti dei musicisti, che sono sempre un po’ sfuggenti, e lo si vede in azione nelle giornate con Nina Simone (“Le canzoni di Nina ci spremono le sensazioni da dentro come il brivido di un’autentica tragedia. Lei scava a fondo in se stessa, e altrettanto in noi. È rivelatrice come una biografia”), nel ripercorrere il legame con la Beat Generation rimbalzato poi da Jack Kerouac (“La saggezza dell’hipster, l’essere amore dotato di informazioni. In definitiva, il reclamare incessantemente comprensione. Capire che il male non è che l’ennesima parola per definire la morte e attaccarlo con i ritmi della tua stessa vita, del tuo spirito, del tuo respiro; riorganizzare il battito del cuore in modo che possa esprimere quello che esisterà sempre: noi la chiamiamo verità”), nel ripristinare le connessioni con le radici caraibiche e nel sottolineare l’eterna diatriba nella lotta e nell’inevitabile convivenza con il mercato. I ritratti dei jazzisti sono ancora più avvincenti, dal ricordo di Charlie Parker che lava i piatti solo per sentire Art Tatum, alle avventure di Roy Haynes, Max Roach, Clifford Brown, John Lewis, Sarah Vaughan e poi Monk (“Ciò che sentivo in Monk era una consapevolezza del mondo reale ritrasmessa a noi attraverso la sua musica”), Eric Dolphy, Albert Ayler, Sun Ra (“Il credo coerente di Sun Ra, in musica e a parole, è che questo è un mondo primitivo. Le sue pratiche, credenze e religioni non sono acculturate, né illuminate, sono selvagge, distruttive, fanno parte già del passato”) Cannonball Adderley e John Coltrane (“Ascolto Trane ogni volta che posso. Ancora. Ed è sempre una cosa nuova, qualcosa di prezioso e profondo, per me”). Per finire con Miles Davis, su tutti, perché “la storia di Miles è una storia di costanti mutazioni, certo, come per tanti di noi. E come per tanti di noi le mutazioni di Miles sono entro certi limiti prevedibili se conosciamo il soggetto e il suo oggetto. Miles nel mondo bebop era il giovane Miles che imparava a essere Miles. Ma il bebop non era cool, il fatto che dovesse esprimere la sua base, il blues, l’improvvisazione, i poliritmi sullo sfondo dei morti che cercavano di uccidere i vivi, gli regalava una fondamentale natura hot, un calore di vita che esplode nell’essere”. Le metamorfosi in atto con la Black Music, che ne è nello stesso tempo causa ed effetto, trovano una collocazione ideale, lontana dai cliché e dai luoghi comuni, proprio perché come sostiene Amiri Baraka “i cambiamenti nella società, già, i cambiamenti, come diciamo, nella musica, nei nostri sé, possono essere mappati. Gli aspetti più preziosi della vita possono essere espressi e riprodotti all’infinito”. In fondo, la musica serve proprio a capire “quello che sentivamo e ricordavamo delle nostre vite. La parte di mondo che siamo e possiamo sentire e di cui siamo consapevoli. Quello che può essere descritto o in qualche modo evocato”. É la musica, non altro, che ci permette di capire a tempo indeterminato “quello che sentivamo e ricordavamo delle nostre vite. La parte di mondo che siamo e possiamo sentire e di cui siamo consapevoli. Quello che può essere descritto o in qualche modo evocato”. Più che da leggere, Black Music è un libro da “sentire”.