venerdì 30 maggio 2014

Paul Harding

Quella di Charlie Crosby, pronipote del mercante ambulante di L’ultimo inverno, è una stagione all’inferno che segue l’incapacità di elaborare il lutto per l’improvvisa perdita della figlia, Kate, travolta da un’auto guidata dalla madre di tre figli. Fino ad allora, Charlie Crosby è una specie di Chance, il giardiniere di Jerzy Kosinski, al quale bastano il tagliaerba, la famiglia e le partite dei Red Sox per dare un senso alla vita. L’indicibile dolore travolge senza pietà il suo bucolico tran tran e si avviluppa in modo inestricabile al fatto che “ci sono sicuramente più cittadini sotto i cinquemilaquattrocento acri di Enon che sopra di essi”. E’ proprio questo il primo punto sulla mappa del secondo capitolo dell’albero genealogico dei Crosby (e dintorni). Abbandonato dalla moglie Susan, che, davanti all’abulia del marito, ritorna alla solidità della sua famiglia nordica, il calvario di Charlie è una forma di dissoluzione coltivata con droghe (più o meno legali), alcol e solitudine. All’inizio la reazione è un tentativo di trovare un minimo ordine, anche se tutto quello che riesce a dire è che: “E’ una situazione strana, triste, e un po’ mi fa paura. Ma va tutto bene”. Ben presto, una rapida involuzione lo trasforma in un elemento del paesaggio di Enon, una sorta di spirito notturno ondivago e caotico, riconosciuto il più delle volte dalle anime più inquiete e gentili del villaggio. Il senso di Enon è in gran parte nella tolleranza locale perché è negli elementi naturali e atmosferici che trova rifugio e Paul Harding si conferma un anfitrione eccellente nel raccontare “tutta la luce, l’aria, la terra e la gente di Enon, a partire dalla prima rotazione completa attorno al sole; non solo, quindi, la sua breve e senza dubbio effimera carriera come villaggio di coloni, ma anche i secoli in cui aveva fatto da casa ad anime ben più originali e a un lungo tratto di foresta, o i millenni trascorsi sotto il ghiaccio sul fondo di un oceano senza nome”. Enon (il villaggio e il romanzo stesso) è un particolarissimo microcosmo, una specie di ecosistema in cui il tempo è una variabile con un peso specifico non indifferente sulla sostanza dei legami, delle leggende, delle storie e delle vite perché “il tempo è una forma di misericordia”. Charlie Crosby lo proverà in prima persona mentre intraprenderà la ripida discesa nel suo particolarissimo modello di autodistruzione e Paul Harding riesce a mantenere sempre viva la tensione, pur concentrandosi in pratica su un solo personaggio alla sbando e senza molto da dire. Lirico, bello e doloroso, Enon è un romanzo a senso unico, avvolto in un’aura metafisica ed eterea e allo stesso tempo molto rozza e sporca nello svolgersi degli eventi. E’ quasi inevitabile che non abbia sbocchi, compreso il prevedibile finale, perché il suo senso ultimo è piuttosto da cercare in quella luce impalpabile, raffinata, crepuscolare, eccentrica, molto New England, come un bizzarro quadro di Edward Hopper illuminato da un’insegna al neon. 

lunedì 26 maggio 2014

Charles Baxter

L’amore è una tavola imbandita che non trova ospiti perché “in verità ci sono solo due realtà: quella della gente innamorata o che si ama e quella di tutti gli altri che ne stanno fuori”. E’ il soggetto di Festa d’amore, il dipinto più rappresentativo di Bradley Smith, uno dei principali protagonisti, il cui significato recondito, ma non troppo, aleggia su tutto il romanzo. Chloé Barlow e Oscar Metzger, Harry ed Esther Ginsberg e poi Bradley Smith e la geometria variabile delle sue relazioni, prima Kathryn, poi Diana e infine Margaret, vivono tutti l’amore in modo diverso, cercando di comprenderlo attraverso il sesso, la pazienza, il silenzio, la volontà, sempre sull’orlo del fallimento visto che “non puoi dettare a te stesso ciò che vuoi. Una cosa o la desideri o non la desideri”. Si rincorrono come se stessero circumnavigando all’infinito lo stesso paio di isolati deviando soltanto in occasione degli angoli, verso destinazioni impreviste. Il paesaggio è la realtà suburbana della provincia che Charles Baxter dimostra di conoscere alla perfezione come un Richard Ford un po’ acido, un Raymond Carver meno crudo, un John Cheever senza whiskey, un Richard Yates più sereno. La forma colloquiale per raccontare la sua Festa d’amore si traduce in un modo molto lineare e pulito di impostare il linguaggio, mentre il racconto segue traiettorie imprevedibili perché come dice Charles Baxter “mi piace fare smarrire il lettore. La forma narrativa standard che va da un punto A a un punto B non mi interessa”. Anche se i personaggi sono molto attinenti alla realtà della storia, Festa d’amore si sviluppa circondato da un’aura insonne come se fosse un sogno di una notte di mezza estate. Charles Baxter porta i personaggi dentro spazi e sprazzi onirici, interpretati da pittoresche figure femminili, in particolare la cartomante Maggaroulian e la signora Watkins che vive nei boschi, circondata da bambini di gesso. Hanno sempre il compito di imprimere alla storia una svolta o di indicare una breccia come dice lo stesso Charles Baxter: “Spesso sono i pazzi a vedere la felicità e io sono sempre più interessato ai matti, a quelli che, tolti gli ormeggi, riescono ad avere visioni luminose sul futuro”. E’ per questo che Festa d’amore alterna la sua voce a quella dei personaggi (Bradley Smith è il più costante) nel raccontare le storie (d’amore) e non sempre è facile seguire il sottile filo che le unisce, che è quello “della felicità e della possibilità o meno di esservi inclusi”. Forse la felicità non coincide proprio con una Festa d’amore, ma almeno è un’alternativa alla “triviale infelicità”, che Charles Baxter cerca di evitare applicandosi con grande fervore alla sua principale occupazione: “Essere uno scrittore ti fa vivere bene. Non c’è routine nel pensare all’idea di un libro. Sarebbe come se una donna descrivesse la propria partecipazione a un parto. Il giorno ideale per me è questo: svegliarsi, fare colazione, scrivere, pranzare, passeggiare, schiacciare un pisolino, bere del vino, fare l’amore, dormire”. Bel programma, sempre valido.

lunedì 19 maggio 2014

George Saunders

L’egoismo è inutile racchiude l’Elogio della gentilezza, il discorso di George Saunders ai laureandi della Syracuse University l’11 maggio 2013, la parte più significativa tratta da L’uomo megafono e una bella intervista conclusiva. L’assemblaggio, in apparenza, potrebbe ingannare perché anche nei diversi formati, una lecture piuttosto che un saggio, l’orientamento di George Saunders è sempre verso l’insolito, l’imprevisto, la deviazione di percorso. E’ esplicito nell’esortazione all’università (“Fate le cose che vi orientano verso i grandi interrogativi, ed evitate quelle che vi svalutano e vi rendono banali”) e lo è ancora di più quando riflette in termini generali (“Ciò che per noi è reale nell’esperienza di tutti i giorni dovrebbe trovare posto anche nella nostra visione filosofica, nel nostro pensiero personale, altrimenti, abbiamo a che fare con un classico esempio di dissociazione”). In filigrana a L’egoismo è inutile non è difficile scovare i tratti fondamentali della scrittura e delle ossessioni di George Saunders, in particolare la sua vocazione per il racconto in chiave critica e polemica: “Le storie migliori nascono da una misteriosa spinta verso la ricerca della verità, insita nel racconto che ha subito una revisione approfondita; sono complesse, spiazzanti, ambigue; tendono a rallentarci anziché a velocizzarci. Ci rendono più umili, ci fanno immedesimare con persone che non conosciamo, perché ci aiutano a immaginarle, e quando riusciamo a immaginarcele, perché la storia è raccontata bene, le vediamo sostanzialmente simili a noi”. L’egoismo è inutile è un minuscolo manuale di istruzioni che riassume in poche dozzine di pagine alcune delle contraddizioni più laceranti dei nostri tempi perché “noi consideriamo il linguaggio un prodotto del pensiero (facciamo un pensiero e poi scegliamo una frase con cui esprimerlo), ma il pensiero è a sua volta un prodotto del linguaggio (tentando, grazie alle parole, di trasmettere un significato preciso, capiamo meglio ciò che pensiamo)”. E’ facile capire che George Saunders vede giusto quando dice che “l’informazione deficiente ha un costo, anche quando l’informazione deficiente viene data senza secondi fini. E il costo dell’informazione deficiente è direttamente proporzionale all’onnipresenza del messaggio”. E così non è difficile essere d’accordo con George Saunders quando dice che abbiamo bisogno (un disperato bisogno) di “piccole dosi di specificità”. Ci servono perché “la capacità di una cultura di capire se stessa e il mondo è fondamentale per la sua sopravvivenza. Ma oggi siamo guidati nell’arena del dibattito pubblico da veggenti che sanno soprattutto tenerci incollati a guardarli”. E’ proprio questo, in fondo, il senso dell’Elogio della gentilezza e, volendo, lo spirito che alimenta i propositi della sua narrativa. Lo stesso George  Saunders lo conferma con estrema chiarezza: “Ad ogni modo: il punto è che il nostro primo compito è guardare la realtà e stabilire cosa è vero”. A volte, per cominciare,  basta un piccolo libro.

martedì 13 maggio 2014

Louise Erdrich

Il giorno dei colombi non è un romanzo lineare. Segue piuttosto l’andamento di una sorta di spirale con le storie che si avvicinano l’una all’altra più si va avanti. Onde che si propagano secondo un ritmo netto, in rilievo, preciso, che tradisce la sua derivazione dalla musica, così come la descrive la stessa Louise Erdrich: “La musica era qualcosa in più della musica: almeno di quella che siamo abituati ad ascoltare. La musica era vero e proprio sentimento. Il suono entrava immediatamente in relazione con qualcosa di profondo e gioioso. Quei momenti straordinari di vera conoscenza che dobbiamo mascherare con la vita quotidiana. La musica andava al fondo dei nostri terrori. Cose che avevamo vissuto e non avremmo mai voluto ripetere. Sbrindellate fantasie, desideri inconfessati, paure, ma anche piaceri sorprendenti. No, non possiamo vivere così, fino a questo punto. Ma ogni tanto qualcosa di spezza come il ghiaccio e noi piombiamo nel fiume della nostra esistenza”. Sono le storie che tengono insieme la vita: sono il collante, sono l’architettura, sono il territorio comune, l’humus fertile del linguaggio. Non a caso è più che centrale la figura di Mooshum, lo storyteller che conserva la memoria perché le storie hanno ripercussioni, si propagano all’infinito e infine vivono di vita propria. Potrebbe essere un esercizio interessante, quello di ricostruire l’impossibile albero genealogico che lega tutti i personaggi attorno alla figura secolare di Mooshum, ma l’anagrafe (qui) è volubile proprio come le traiettorie dei colombi. Pur nel fragile contesto delle riserve, Louise Erdrich crea più contee in cui la storia e la vita quotidiana si accavallano, s’intessono con le leggende che formano la parte vitale, l’anima vera e propria del romanzo. Gli stessi personaggi si incastrano uno nell’altro come tanti segmenti che via via si sommano e come una serie di accordi vanno a formare una sinfonia. E’ questa la ricchezza del racconto: c’è posto per tutta la gamma delle possibili azioni umane, dalla lotta per la pura e semplice sopravvivenza nella lunga, intensa sequenza degli uomini imprigionati nella spedizione della prateria alle colte letture del giudice Coutts, che è un esegeta di Marco Aurelio. Anche Louise Erdrich sembra essersi essersi ispirata ai suoi Pensieri: “Guarda sotto la superficie: non lasciarti sfuggire la qualità o il valore intrinseco delle cose”. C’è posto per tutto, ironia compresa, perché Louise Erdrich ha questa straordinaria capacità di conservare uno spunto di comicità anche nelle condizioni più drammatiche o enigmatiche. C’è una lunga scena in cui due dei principali protagonisti, Geraldine e Joseph, pescano una grossa tartaruga che merita da sola il prezzo da pagare per Il giorno dei colombi. Li ritroveremo entrambi in La casa tonda con cui Il giorno dei colombi s’inanella in modo spontaneo, “camminando sull’aria”, formando una specie di flusso ipnotico: nelle sue molteplici forme (simbolica, onirica, metaforica) è uno splendido tentativo di mettere ordine nel caos della vita, e capita soltanto con la grande letteratura.