venerdì 28 settembre 2018

Gina Berriault

Nei Piaceri rubati di Gina Berriault (1926-1999), scrittrice da scoprire e riscoprire, si nasconde una trama invisibile, ma che, con un po’ di attenzione, si distingue nettamente. Non ingannino le variazioni d’atmosfera e di ambientazione, che sono repentine e notevoli. Dalle montagne svizzere sullo sfondo degli Scherzi dell’immaginazione al ristorante indiano di Sognando belle donne fino al Messico dove si svolge La ricerca di J. Kruper, Gina Berriault non teme l’eccentricità dei paesaggi e dei luoghi dove i suoi personaggi s’incontrano perché li riporta comunque a una zona grigia dell’esistenza, una terra di nessuno nell’evoluzione della vita dove L’infinito potere delle aspettative (come vuole il titolo di uno dei capitoli più intesi della raccolta) si scontra con la fatale certezza che “le cose vanno e vengono”. Questa dicotomia fa sì che qualcosa rimanga sempre sospeso nell’arco dei racconti di Gina Berriault. Quel “senso di crisi” che attraversa tutti i Piaceri rubati è colto da una scrittura elegante, una sfumatura ottenuta con un processo di sottrazione, che lascia molto spazio al lettore. I racconti si aprono con un ventaglio di possibilità, accennando ad altre storie che rimangono nell’ombra, poi procedono a zig zag, senza punti di riferimento e sono spiazzanti, transitori, quasi l’estensione narrativa di tanti punti di domanda. . In questo ha ragione Richard Ford: Gina Berriault è davvero “unica”, perché tende a fissare momenti che sono evanescenti, friabili in una forma definitiva. La fragilità, incantevole e preoccupante, nella Notte nei giardini di Spagna incorniciata dalla musica, il mood sospeso tra lei e lui, la realtà e il sogno in Morte di un uomo minore (compresa la citazione di Albert Camus) annunciano “l’essenza di una situazione e di un essere umano”. La massima espressione di questo proposito si produce in Chi può dirmi chi sono? quando il bibliotecario Alberto Perera riceve nel suo ufficio un poeta senza fissa dimora, con un formula di benvenuto (“Si prenda il tempo che le serve, ma non qui”) che lascia affiorare il senso tragico della collisione di due (o più, come succede altrove) solitudini. La conclusione è lapidaria: “Ti puoi scervellare sui versi per tutta la vita e non essere mai soddisfatto delle spiegazioni che trovi. Finché avanzando nella melma, finalmente scopri almeno un significato certo, perché è giunto il suo momento, e quello porta con sé migliaia di conferme, raccogliendole in tutti i luoghi in cui si sono nascoste quella notte, nelle loro tane e nei loro covi di cemento”. Vale soprattutto per le donne, madri e figlie, che sono protagoniste indiscusse dei Piaceri rubati, per via della granitica convinzione che sia “un dovere rimanere in piedi per riguardo nei confronti delle batoste imprevedibili”. Battaglie, perdite, sconfitte, dolori e disastri che trovano l’apice della scrittura di Gina Berriault in La luce alla nascita, Il bambino di pietra e Bimba sublime, dove i protagonisti “sapevano che cosa fosse l’amore perché tutto quello che avevano era il loro legame”. Nient’altro: nell’ambito familiare in cui si svolgono le storie è tutto molto transitorio e malinconico e Gina Berriault si pone da una prospettiva singolare, rendendo la dimensione dei rapporti con dialoghi ristretti, limitati, coincisi oppure eccessivi e sfrontati e concentrandosi sulle emozioni, tradotte in immagini vivide, brutali e incisive. Niente trucchi, nessun effetto speciale, nemmeno una piccola decorazione. Proprio come succede a Delia e Fleur in Piaceri rubati, “nessuno sapeva quali piaceri la vita avesse rubato loro o loro alla vita, ammesso che così fosse” ed è l’implicita ammissione di Gina Berriault: l’amore, la speranza, la vita in sé restano un mistero, tanto vale mostrarlo per quello che è.

mercoledì 26 settembre 2018

Henry Miller

Una tortura deliziosa è un coacervo di pagine selezionate dai romanzi di Henry Miller, più sprazzi di lettere e appunti che, nell’insieme, prendono forma e costituiscono uno spettro efficace degli strumenti, delle idee, delle possibilità e dell’imprevedibilità dell’arte e della scrittura in particolare. Come è logico che sia, Henry Miller parte da se stesso, con una considerazione che ha un po’ la forma di una pietra angolare: “Io ho cominciato nel caos e nel buio assoluto, in un pantano o palude di idee, emozioni ed esperienze. Ancora adesso non mi considero uno scrittore, nel senso comune della parola. Sono un uomo che racconta la storia della sua vita, un’operazione che sembra diventare sempre più inesauribile man mano che vado avanti. È infinita come l’evoluzione del mondo”. L’equazione che somma e nello stesso tempo divide l’arte e la vita diventa lo spunto per una ricca serie di congetture, che attingono da La saggezza del cuore (“L’arte è solo un mezzo per realizzare la vita, una vita più ricca. Non è in sé quella vita più ricca. Indica solo la strada verso qualcosa che sfugge non solo al pubblico, ma molto spesso all’artista stesso”) come da da L’occhio cosmologico (“Solo che l’arte, l’arte di vivere, implica un atto di creazione. L’opera d’arte non è nulla. È solo la prova tangibile, visibile di un modo di vivere che, se non è folle, è sicuramente diverso da quello comunemente accettato. La differenza sta nell’atto, nell’affermazione della volontà e dell’individualità. Per un artista è un suicidio attaccarsi al suo lavoro o identificarsi con esso. Un artista dovrebbe essere capace non solo di sputare sull’arte dei suoi predecessori, o su tutte le opere d’arte, ma anche sulle proprie. Dovrebbe saper essere sempre un artista, e infine non essere affatto un artista, ma un’opera d’arte”) e che infine trovano una plastica riduzione quando Henry Miller scrive in una lettera ad Alfred Perlès, che “l’arte più nobile è l’arte di vivere”. I reperti antologici insistono sul tema con un’escalation di aforismi che rendono Una tortura deliziosa una validissima mappatura del pensiero di Henry Miller. Se in Tropico del Capricorno scriveva che “ogni uomo elabora il proprio destino e nessuno può essergli d’aiuto, se non con la sua gentilezza, generosità, pazienza”, altrove non rinuncia alla sua (sacrosanta) vis polemica e ricorda che “un vero uomo non ha bisogno di governi, di leggi, di codici etici o morali, e meno che mai di navi da guerra, manganelli della polizia, bombardieri di grande potenza e cose del genere”, così come specifica di essere “contrario alle rivoluzioni perché implicano sempre un ritorno allo status quo. Sono contrario allo status quo sia prima che dopo le rivoluzioni. Non voglio mettere né la camicia nera né la camicia rossa. Voglio mettere la camicia che più mi piace. E non voglio neanche scattare sull’attenti come un automa. Preferisco stringere la mano quando incontro qualcuno che mi è simpatico. Per dirla in parole semplici, il fatto è che sono decisamente contrario a tutte queste stronzate che si fanno in nome di questo e poi in nome di quello. Credo solo in ciò che è attivo, immediato e personale”. L’aspetto intimo, privato, volendo persino introspettivo (“La vita comincia in qualsiasi momento, con una presa di coscienza”), fanno da contrappunto i suoi rilievi ad alta voce sull’ispirazione (“Se sapessimo cosa significa essere ispirati, non ispireremmo nessuno. Ci limiteremmo a essere”) e sulla felicità (“Mi sento molto felice dei brutti tempi ai quali stiamo sopravvivendo e ai quali siamo sempre sopravvissuti. Sono felice di essere un verme in questo cadavere che è il mondo” scriveva nelle Lettere su Amleto) che poi si riallacciano all’inizio della “tortura deliziosa”. La soluzione è un atto di fede laico e libero e critico, persino nei confronti del connubio tra vita e arte: “Ho fiducia nell’uomo che sta scrivendo, che sono io, lo scrittore. Non credo nelle parole, anche se sono state messe insieme l’una dopo l’altra dal più abile degli uomini: credo nel linguaggio, che è qualcosa che va al di là delle parole, qualcosa di cui le parole danno un’illusione inadeguata”. È il senso, preciso, perfetto, in sintesi di Una tortura deliziosa a cui si può sfuggire soltanto in un modo, come recita a se stesso, con un singolare (e sempre valido) imperativo: “Resta umano! Vedi gente, va’ in giro, bevi se ne hai voglia”. Henry Miller al 100%.

martedì 18 settembre 2018

Raymond Chandler

La trasferta nella brughiera inglese di Raymond Chandler si risolve in “una storia gotica” che è un piccolo e raffinato capolavoro di misura, attenzione e classe. Invitato da Edward Crandall, un nobile decadente e annoiato, John Paringdon si trova ospite in un rustico cottage “all’estrema periferia di un villaggio chiamato Buddenham”, dove le abitudini sono governate da un silenzio opprimente. Mentre il padrone di casa è uscito per una battuta di caccia, John Paringdon incontra la moglie, la bellissima e algida Millicent Crandall, dagli occhi azzurri “che non erano stanchi, ma avevano guardato le stesse cose troppo a lungo”. Tra i due c’è qualcosa, ma non abbastanza, come lascia intendere Raymond Chandler inquadrandoli in una luce con “il colore delle pioggia” e così John Paringdon esce, da solo, e si avvia verso l’immancabile lago, dove si dedica con zelo a remare su una barca “ingombrante e pesante come un fienile impregnato d’acqua, durante una piena sul Mississippi”. Quando approda viene sorpreso dall’avvenente figura di Lady Lakenham di Lakeview, a cavallo del suo stallone, Romeo. Al contrario di Millicent Crandall, lei è selvaggia e passionale e, per John Paringdon, “non poteva esserci che una conclusione”. Raymond Chandler non la nasconde e avvia una torbida triangolazione che in un rapido crescendo trasforma l’Estate inglese in un bizzarro ibrido tra una commedia degli equivoci e un cupo dramma dai contorni nerissimi. Non senza sfoggio ironico e superbo. Quando confessa a Millicent Crandall di aver conosciuto la femme fatale della brughiera l’iperbole diventa immaginifica: “La notizia si fece strada in lei un po’ troppo lentamente, come se per portarla un indigeno si fosse svegliato in una capanna di Sumatra, poi avesse corso per miglia e miglia attraverso la giungla, un cavaliere avesse attraversato a cavallo un immenso deserto e una nave avesse affrontato un uragano dopo l’altro per doppiare Capo Horn. Già, sembrò volerci tutto quel tempo”. La bucolica lentezza, perché “i pomeriggi estivi sembrano eterni come gli stessi inglesi”, si rivela particolarmente crudele: mentre John Paringdon e Millicent Crandall provano a tessere un senso della giornata, nella sua camera Edward Crandall è morto “da ore”, dissanguato da un colpo di pistola. Il gusto supremo  di Raymond Chandler per i dettagli permette anche a un breve racconto come Estate inglese di svilupparsi su più dimensioni. La profondità è dettata dall’ambiente, un ritratto millimetrico delle campagne e dei modi inglesi, anche caricaturale, volendo, ma efficace nell’intonarsi al racconto. La suspense non è motivata tanto dalla caccia all’assassino (che Raymond Chandler svela, in pratica, in tempo reale) quanto dalla tesa evoluzione che l’omicidio imprime nei legami tra i tre protagonisti. Una trasformazione che ha il suo luogo d’elezione nei dialoghi, dove Raymond Chandler sa essere ricco e coinciso, elegante e feroce: il racconto ha un’efficienza brutale anche se la trama e la sua soluzione, restano in sospeso proprio come una lunga notte dell’Estate inglese.

lunedì 10 settembre 2018

Lawrence Ferlinghetti

L’amore nei giorni della rabbia si consuma tra “la luce particolare di Parigi, quel lume perlaceo, traslucido sopra i tetti grigi” e quella di Lisbona, che “sembra ancora un vecchio veliero di legno a tre alberi che rolla, che sbanda completamente! L’intera città sembra ancora un antico castello merlato che sta cadendo a pezzi, che aderisce al fianco di un colle, un formicaio devastato”. Lisbona appartiene al passato di Julian Mendes, banchiere di origini portoghesi che incontra l’americana Annie, pittrice e insegnante nella Parigi proiettata in un futuro imprevedibile dalle rivolte della primavera del 1968 con “una sensazione di euforia e di assenza di peso, come se le leggi morte della vita quotidiana che bloccano ognuno al proprio posto si fossero improvvisamente dissolte”. In quei frangenti, Julian, di famiglia ricca, cerca di convincere Annie che è comunque “dalla parte giusta” e L’amore nei giorni della rabbia si snoda attraverso i suoi tentativi di spiegarsi e di convincerla del suo ruolo ambivalente. La dimensione dell’amore tra i due resta eterea, confinata negli incontri notturni, negli appuntamenti nei bistrot, mentre tra un corteo e l’altro, tra una barricata e un incendio, attorno a loro “c’era la speranza che tutta la vita avrebbe potuto rinascere e trasformarsi. Avrebbero potuto cambiare gli antiquati concetti di amore, di matrimonio, di lavoro, dell’unione fra uomini e donne, dei modi di percepire la realtà stessa, che non sarebbe mai più stata uguale a prima”. È il maggio francese del 1968 e vent’anni dopo Lawrence Ferlinghetti ammette che “anche se era tutto un’illusione”, si poteva comunque intravedere quella che “era invece la prima articolazione, il primo scoppio di una nuova visione del mondo, dell’uomo e della donna. Era una nuova consapevolezza, o un’antica consapevolezza riscoperta”. È chiaro che Julian e Annie vivono in una dimensione dimensione onirica, così come nelle strade rimane “l’eco di un sogno spaccato della vita terrena, il mai realizzato sogno della vita umana ideale, l’estate utopica”. In quel contesto, gli eccessi verbali e le frasi senza sosta e senza fine che sfuggono di mano a Lawrence Ferlinghetti sono all’ordine del giorno e determinano un ritmo a corrente alternata, con lunghi momenti di stasi e fughe precipitose, con spezzoni di poesia e cronache a distanza di quei giorni tumultuosi, dove la “la rabbia non era l’allegria, anche in traduzione”. La storia prende la piega drammatica di un ambiguo complotto verso il finale, in linea con i sommovimenti di quell’anno, ma che però rimane irrisolto, e forse è giusto così. Quando Julian e Annie si lasciano in stazione con l’obiettivo di ritrovarsi sui Pirenei è chiaro che la cornice nel suo complesso è più romantica che altro. Mentre Julian si avvia alla sua improbabile missione, l’ultimo viaggio di Annie è grazie a un treno con il nome di un vento che attraversa la Francia, verso sud, luogo dell’elezione della Lost e della Beat Generation. Non è una coincidenza: pur con tutti i suoi limiti, e mettendo in conto anche il bricolage letterario (con i richiami a Blaise Cendrars, Leo Ferré, André Malraux, Albert Camus e, ça va sans dire, a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir) L’amore nei giorni della rabbia apre una bella finestra su quel momento storico, preludio di quello che “sarebbe stato un gioco completamente nuovo, e avrebbe spazzato il mondo” e, non di meno, “l’avrebbe sospinto nel ventunesimo secolo”. L’uso reiterato del condizionale induce a credere che Lawrence Ferlinghetti avesse già capito lasciando intuire che, più di una rivoluzione un po’ strana, ed evaporata in fretta, quei moti furono l’espressione del desiderio (ingenuo, inalterato e inascoltato) di “un mondo nuovo”.

domenica 2 settembre 2018

Francis Scott Fitzgerald

Il “luminoso mondo azzurro” della costa provenzale è un polo magnetico per “un’esaltazione che pareva riflettere tutta l’esaltazione del mondo”. Nella tregua tra una guerra e l’altra “pareva che non ci fosse vita in tutto questo tratto di costa tranne sotto la luce filtrata di quegli ombrelloni, dove qualcosa avveniva tra il colore e il brusio”. All’inizio sulla riva francese del Mediterraneo è “una successione infinita di magnifiche possibilità”: Dick e Nicole Diver sono al centro di ogni attenzione, i prototipi di quella che Fitzgerald chiama “l’evoluzione massima di una classe”, che, almeno in apparenza, pare non aver un problema che sia uno. L’ideale proclama di  una generazione è dell’iperbolico Dick Diver: “Voglio fare una festa proprio sconveniente. Proprio così. Voglio fare una festa con risse e seduzioni e gente che torna a casa offesa, e donne assassinate del cabinet de toilette. Aspetta e vedrai”. La moglie acconsente e condivide, coadiuvata da uno stuolo di camerieri, autisti, baby sitter, nonché da un plotone di amici e conoscenti. Sono “affascinanti figure di un balletto” che interpretano “un minimo di dramma”, definizione riduttiva e sibillina, visto che la trama è inestricabile dalla realtà di Scott e Zelda Fitzgerald e in un certo senso la sublima: Tenera è la notte è pervicace, ossessivo, martellante anche se la vita dei suoi disperati eroi, eroine e reprobi si trastulla con un vuoto (morale) micidiale. Scorre un fiume di alcol che “rendeva le felici cose passate contemporanee al presente, come se stessero ancora avvenendo, contemporanee persino al futuro, come se stessero per accadere di nuovo” e nelle sue continue ellissi, cresce, anche nelle pieghe del rapporto tra America ed Europa, la dissoluzione di un’era. Un senso di oppressione avvolge tutto il romanzo come se Dick Diver fosse un congegno ad orologeria, e non avesse alcuna possibilità di uscita, imprigionato in “un’illusione creata dall’incanto della musica”, che poi è il “nuovo jazz americano” e con lui, gli altri, “tutti perduti nella nullità della bellezza spietata”. È un modo di vivere, non tanto al di sopra delle proprie possibilità economiche, che restano indefinite, quanto molto al di là delle risorse psicologiche. Dick Diver è l’artefice incontrastato di un doppio se stesso, in una partita con il destino persa fin dall’inizio. L’abilità (geniale) di Fitzgerald, nella lunga e complicata gestazione di Tenera è la notte, è nel separare e legare gli atti di una tragedia che rimane indefinita, come sospesa nella sua controversa essenza. L’intensità di Tenera è la notte è nello stile, più che nella storia e un senso di perdita, sfuggente alle logiche e struggente nel tono avvolge tutti i protagonisti: Tenera è la notte è un groviglio di emozioni che si trasmettono contagiose attraverso la scrittura ipnotica di Fitzgerald. La spirale verso il fondo di Dick Diver (un nome che è una premonizione) è un capovolgimento della situazione iniziale. In Tenera è la notte la prima metà è uguale e contraria alla seconda e si rispecchiano una nell’altra. Come un foglio piegato in due, le figure di Dick Diver e di Nicole si scambiano il posto sul palcoscenico di una celebrazione senza alcun sipario finale perché “c’è qualcosa che ispira soggezione in un uomo che ha perso ogni ambizione, che farà qualunque cosa. Naturalmente gli facciamo poi pagare il suo momento di superiorità, il suo momento di imponenza”. Per lui, costretto a rivivere le sue passioni come se fossero errori, rimane la certezza che “vi sono ferite aperte, a volte ridotte alle dimensioni di una punta di spillo, ma sempre ferite. I segni della sofferenza sono confrontabili piuttosto con la perdita di un dito o della vista di un occhio. Possiamo non perderli neanche per un minuto all’anno, ma se li perdessimo non ci sarebbe niente da fare”. La trasformazione comincia ad assumere i toni malinconici della nostalgia: le ombre fosche che si avvitano sulla Costa Azzurra, e sul mondo intero, collimano con la caduta verticale di Dick Diver che scopre come “allontanandosi da un dolore, pare necessario rifare gli stessi passi che ci hanno condotto ad esso” e all’improvviso, nel volgere di un ultimo brindisi, quella spumeggiante stagione gli appare remota. Tenera è la notte è, per dirla con lo stesso Fitzgerald alias Dick Diver, “un tributo a cose indimenticate, inconfessate, inespurgate”. Epocale, nel senso più ampio e completo del termine.