sabato 30 marzo 2013

Thomas Pynchon

Ieri. Molto tempo fa. E’ il 1984 e nell’incipit di Vineland il fatidico anno di George Orwell coincide con lo zenith dell’epopea di Ronald Reagan. Lungo le frequenze della contea di Thomas Pynchon si sentono ancora i Doors, Jimi Hendrix, i Jefferson Airplane, piccole distorsioni che screpolano il grande freddo, ricordando che sono esistite, ed esisteranno, splendide e caleidoscopiche “forme di dissenso dalla realtà ufficiale”. Le capriole esistenziali di Zoyd Wheeler e dell’ambigua e voluttuosa Frenesi (nonché della figlia Prairie), di Brock Vond e di Hector Zuñiga (“il tipo di desperado il cui assassino ideale è lui stesso: da sé poteva scegliere infatti il metodo, il tempo e il luogo migliori, e avrebbe sempre avuto motivi migliori di quelli di chiunque altro”) accendono una galassia scoppiettante di frammenti tenuti insieme da impercettibili filamenti d’argento. La mappa invisibile che Vineland lascia intravedere nelle caotiche coordinate di Thomas Pynchon è il ritratto di quell’underground, quel lavorìo oscuro e sotterraneo che determina molto, se non tutto, della vita e della storia perché “il personale cambiava, la Repressione andava avanti, si allargava, si faceva più profonda e meno visibile, quali che fossero i nomi al potere, le mosse politiche venivano decise altrove e determinavano gli spostamenti della coppia Flash-Frenesi, cui venivano ora affidate nuove missioni, di volta in volta sempre meno gratificanti, sempre più lontane dai luoghi di potere ove ferve la vita costosamente piacevole, incarichi sempre più meschini, sempre meno arditi, sicché essi venivano utilizzati, adesso, per trappole, ricatti e montature sempre più squallide, per imbrogli e raggiri e stangate di sempre minor ampiezza e tornaconto, contro obiettivi meschini, personaggi estremamente meno potenti di coloro che ordivano le trame, sì da lasciar supporre che fossero in gioco altri motivi, inconfessabili, assai meno luminosi di quello del supremo interesse del paese”. Vineland moltiplica e nello stesso tempo supera il piacere morboso della congiura, la gustosa catena di montaggio di ogni complotto che si rispetti e svela, in modo apocalittico e rudimentale nello stesso tempo, la dimensione dell’epoca e delle sue svolte, perché come dice Hector Zuñiga “non si tratta di un gioco, a Washington, stavolta, chàle èse, non si tratta di manovre a breve termine, questa è una vera e propria rivoluzione”. Lo scopo, e la pirotecnica scrittura di Thomas Pynchon non lascia scampo nell’individuarlo, è mettere tutti davanti a una cinepresa o a una pistola, se è necessario, tanto “tra non molto, riusciranno di nuovo a convincerci che tutti dobbiamo morire davvero. E ci inculeranno di nuovo”. Il caos delle parole che fluttuano irresponsabili tra le pagine fa parte dell’ossessione di Thomas Pynchon ed è, in fondo, relativo. Vineland si legge come si osserva un quadro di Jackson Pollock: non è necessario comprenderlo, basta vedere quello che rappresenta, ovvero “il mondo dissipato, il mondo in frantumi”. Oggi. 

giovedì 28 marzo 2013

William Langewiesche

La notte del 31 ottobre 1999 il volo EgyptAir 990 da New York per Il Cairo scomparve nei cieli dell’Atlantico. Nessun allarme, nessun segnale di soccorso, nessun avviso, solo un traccia che nel giro di pochi minuti sparisce dagli schermi dei radar americani. Le torri di controllo, civili e militari, non ottengono risposta e così gli altri velivoli che transitano nell’area e che provano a contattarlo. Almeno fino a quando l’equipaggio di un rimorchiatore della marina mercantile non nota i primi rottami affiorare sulla superficie dell’oceano insieme al terrificante puzzo di cherosene che rende irrespirabile l’aria e conferma che il Boeing 767 con 217 persone a bordo è precipitato. Una prima analisi dei tracciati e delle comunicazioni non offre alcuna spiegazione logica. Una volta recuperato il registratore dei dati di volo alias la cosiddetta scatola nera agli investigatori, americani ed egiziani, si presenta una situazione enigmatica. Non c’è evidenza di un dirottamento, di un attentato esplosivo o di una collisione. Le registrazioni dicono che il primo pilota aggiunto (visto la lunghezza del volo, la EgyptAir imbarca sembre due team) è rimasto solo nella cabina e ha sviluppato una serie di manovre in antitesi con l’idea stessa del volo e, per un lasso non irrilevante di tempo, persino con i comandi del comandante rientrato al suo posto. Non solo, mentre il Boeing 767 precipitava alla velocità del suono, se ne restava calmo e lucido a mormorare, in arabo, una frase monca e criptica. Tutta la storia è avvolta in un’aura misteriosa che ancora oggi offre terreno fertile per dozzine di interpretazioni fantasiose, che vanno dall’allineamento dei pianeti agli immancabili alieni. William Langewiesche, che è stato a sua volta pilota, per cercare di comprendere Lo schianto dell’EgyptAir 990 parte da una constatazione che può sembrare ovvia e banale, ovvero che “in sostanza gli aeroplani sono apparecchi piuttosto semplici, nient’altro che oggetti con le ali studiati in modo da reggersi in aria: progettati per volare, ed è proprio ciò che fanno”. Sono gli esseri umani la parte più complicata e infatti la sua ricostruzione, fatta con una chiarezza disarmante anche quando si tratta di spiegare particolari tecnici non proprio elementari, tocca in modo sensibile l’aspetto dei rapporti tra investigatori americani ed egiziani e le rispettive autorità nazionali. Un serrato confronto tra culture, esigenze (politiche ed economiche), procedure molto diverse eppure condannate a convivere nel nome di una solida e strategica alleanza. Il disastro aereo diventa per William Langewiesche l’occasione convogliare l’attenzione “sulle difficoltà che noi, gli Stati Uniti, con la nostra peculiare forma di governo, incontriamo nel nostro muoverci per il mondo, sul modo con cui affrontiamo la possibilità che altri paesi abbiano agende politiche del tutto diverse dalla nostra, o che cerchino di manipolarci”. Notevole anche la verve per il racconto che va di pari passo con l’accuratezza dell’analisi, molto razionale, molto precisa.

mercoledì 20 marzo 2013

Tom Waits

Anche con le forme dell’intervista, la voce di Tom Waits resta unica e impareggiabile. Del resto, dopo un po’ anche i coraggiosi che incontrano Il fantasma del sabato sera rimangono ipnotizzati dalla sua vena surreale e istrionica e finiscono per parlare come lui. Quella di Tom Waits è stata “un’avventura improvvisata” a partire dai romanticissimi esordi californiani, quando si era presentato come l’ultimo profugo della Beat Generation. Nelle prime interviste che Il fantasma del sabato sera colleziona spulciando tra fogli e fanzine dell’underground, la sua dedizione per Jack Kerouac, Alleng Ginsberg, Lenny Bruce e Charles Bukowski è più esplicita che in altre occasioni. Poi, lasciandosi alle spalle un’intera, lunghissima stagione vissuta con indomito spirito bohémien Tom Waits si è avviato a diventare uno dei più importanti artisti americani del ventesimo secolo, di sicuro il più singolare, coerente e coraggioso: “Me ne accorgo solo adesso. Mi accorgo che ho uno stile di vita, ma non so se lo si possa collegare agli stili di vita che c’erano prima di me o vanno di moda adesso o forse arriveranno domani. Io vivo così e basta”. Le interviste, collocate in ordine cronologico a ridosso delle uscite discografiche, dicono molto della sua biografia, anche se, da Swordfishtrombones in poi, è diventato sempre più elusivo ed enigmatico. “Sono solo una voce che qualcuno ha messo in giro” diventa il mantra con cui Il fantasma del sabato sera incrocia le gesta di Tom Waits che si rivela, una volta di più, uno storyteller convinto e reo confesso, visto che, senza lasciare molti margini all’interpretazione, dice: “Non apprezzo particolarmente la verità. Preferisco una storia ben inventata alla realtà dei fatti”. Scavando tra una battuta e l’altra, un aneddoto e un aforisma si scopre che Il fantasma del sabato è molto meno evanescente di quanto voglia apparire e che la sua eccentricità sia funzionale a qualcosa che somiglia a un empirico spirito di sopravvivenza perché “la verità non esiste. Le persone che sanno veramente come sono andate le cose non parlano. E le persone che non ne hanno assolutamente idea, invece, è impossibile farle stare zitte. E’ lo stesso con i pettegolezzi sulla tua vita e sulla vita della tua famiglia e dei tuoi amici. Siamo immersi nella stessa ipocrisia”. La constatazione non è fine a se stessa perché sia come songwriter che come attore Tom Waits ha creato una moltitudine di outsider e ha seguito un’infinità di tracce di “rain dogs” per non avere un’idea abbastanza precisa della terra che ha attraversato e del viaggio che ha compiuto: “C’è una solitudine comune che si estende da costa a costa. E’ come una crisi di identità collettiva che si allarga a macchia d’olio. E’ la notte americana, calda, scura e narcotica. Spero solo di riuscire ad afferrare questa sensazione prima di conquistare definitivamente un posto al sole, uno di questi giorni”. Una storia ben raccontata, insomma, abbasta sfuggente e volubile, da risultare, trattandosi di Tom Waits, fedele all’originale.

martedì 19 marzo 2013

William Faulkner

Nelle tre storie raccolte in Una rosa per Emily c’è sempre una finestra socchiusa da cui si intravede la storia, come se William Faulkner volesse farci entrare nei racconti da un passaggio segreto, riservato e particolare. Succede, prima di tutto, proprio in Una rosa per Emily, dove nel profilo di un’ombra si cela una donna che “passò da una generazione all’altra, amabile, ineluttabile, impervia, tranquilla e perversa”. La capacità di concentrare tutta l’evoluzione di un personaggio e della sua esistenza in una dozzina di parole, metà delle quali aggettivi, è eloquente dello stile di William Faulkner che è altrettanto abile nel tenere nascosta e sospesa la trama del racconto fino alle ultime battute. A scoprire cosa si cela nel mistero è il sindaco Sartoris e la sorprendente conclusione di Una rosa per Emily che è a sua volta un nuovo inizio perché la sua apparizione inaugura (il romanzo omonimo uscirà subito dopo) un parte fondamentale dell’universo faulkneriano, quello ambientato nella contea di Yoknapatawpha. Se la presenza di Sartoris suggerisce una connessione, una continuità con i romanzi e la narrativa (in generale) di William Faulkner, anche i racconti di Una rosa per Emily hanno un taglio da classico e sono intrecciati tra loro dal gusto supremo per il dettagli. E’ ancora una finestra a incorniciare la dolorosa vita di Miss Zilphia Gant: una figlia devota alla madre in modo assoluto e insindacabile Anche qui, i personaggi vivono costretti in circostanze claustrofobiche che sono gabbie mentali e linguistiche, prima ancora che ante e porte sbarrate. Sono “le cieche macchinazioni del fato” o “il clamore di una disperazione lontana” a definire quella “specie di felicità negativa”, un ossimoro che appare nell’ultimo racconto, Adolescenza, e che spiega molto della narrativa di Faulkner e che lega una con l’altra le vite e le storie di Una rosa per Emily. La ribelle Juliet, protagonista di Adolescenza, “si sentiva come chi ha appena tirato i dadi e deve aspettare un’eternità prima che si fermino”. Indesiderata e odiata (ricambiata) dalla nuova moglie del padre, Juliet si è rifugiata dalla nonna nel pieno dell’Adolescenza, appunto, un’età di metamorfosi e di mutazioni, “l’età ingrata”, come la definisce William Faulkner. Il paesaggio rurale e selvaggio, l’evolversi delle stagioni che determinano un ritmo, la natura stessa del racconto, le coordinate dei luoghi e delle circostanze, lasciano intuire, in un confronto impari, l’ineluttabile precarietà degli esseri umani: “Ora che il vento era calato, gli alberi erano fermi, incorporei e immobili come riflessi; aspettavano, pagani e indifferenti alle chiacchiere sull’immortalità l’inverno e la morte”. Anche nello spazio aperto “e vuoto e sconfinato” Juliet è circondata e la scoperta di un’amicizia sarà un’effimera e penosa parentesi nella “silenziosa routine delle faccende e nei sogni solitari del crepuscolo”. Sinuosi e snodati come serpenti a sonagli, i tre racconti di Una rosa per Emily mordono sempre nel finale, e lasciano il segno. 

giovedì 14 marzo 2013

Richard Ford

Canada significa la frontiera, il confine, una linea che, una volta superata, non concede un’altra chance. Il varco prevede una sola direzione perché in Canada “fare le cose per i giusti motivi” è la legge non scritta che regola il giorno e la notte. Dell Parsons, quindici anni, una vocazione per la logica e per gli schemi che si legge nelle sue passioni per gli scacchi e per le api, arriva in Canada dopo aver visto la sua famiglia disgregarsi: Bev, suo padre e Neeva, la madre sono finiti in carcere per una goffa rapina a mano armata e la gemella, Berner, è fuggita. “Le cose accadono quando le persone non stanno al loro posto, e il mondo va avanti e indietro in base a questo principio” scrive Richard Ford e a Great Falls, Montana, un luogo sperduto il cui nome permette con una certa facilità di sentirsi “in mezzo” al nulla, Dell Parsons si ritrova nella parte sbagliata della vita, come in “un miracolo alla rovescia”. Senza alcun motivo apparente, il suo piccolo e traballante ordine infantile è scomparso. Si accorge che quello dei genitori, e per estensione degli adulti, “sembrava lo stesso mondo perché lo condividevano, e perché c’eravamo anche noi. Ma non era lo stesso” e al momento del brusco risveglio è già nella prateria del Saskatchewan dove “per capire dov’eri dovevi guardare il cammino del sole; questo, e ciò che tu personalmente sapevi del luogo: una strada, una staccionata, la direzione regolare da cui veniva il vento. Si aveva l’impressione, quando le colline scomparvero dietro di noi, che non fosse più possibile trovare un punto centrale rispetto al quale altri punti potessero fare riferimento. Lì una persona poteva smarrirsi facilmente o anche impazzire, perché era sempre in mezzo, ovunque si trovasse”. Il paesaggio, che nei romanzi di Richard Ford è fondamentale, in Canada è quasi una pellicola su cui vengono impresse la solitudine e la forza di Dell Parsons e i contorni sfocati di persone che “fuggivano dal passato, che non si voltavano indietro se potevano farne a meno, e la cui vita era sempre in qualche modo qualcosa di imminente”. Quel senso di immobilità e quella luce gelida nei quadri di Edward Hopper: più limpido, senza per questo essere meno appassionato, (sempre) molto dettagliato e preciso, è come se Richard Ford avesse voluto ripulire una storia che si è sporcata per un caso fortuito, per un capriccio del destino. Ai personaggi di Canada, a partire proprio da Dell, concede un sacco di porte aperte (l’epilogo le riassume quasi tutte), preludio a qualcosa che somiglia alla maturità e alla compassione, ma non per questo la possibilità di tornare indietro e invertire la direzione perché i fatti “non sono quelli che inventi”. Dall’angoscia di una visita in carcere al timore in una baracca maleodorante e piena di spifferi, Canada ha un luogo per ogni stato d’animo e i passaggi, obbligatori e a senso unico, non sono solo tasselli importanti di un (bellissimo) romanzo, ma anche “qualcosa, insieme, di astratto e finito”. Qualcosa che somiglia alla vita. 

mercoledì 13 marzo 2013

Mark Twain

Quello che bisogna sapere è già nelle prime due righe dell’incipit: “Non si tratta di un fiume qualunque. Al contrario, tutto ciò che lo riguarda è straordinario”. Il Mississippi è l’America: è movimento, unisce e separa, alimenta e distrugge e il suo bacino, insieme a quello del Missouri, non solo è “la seconda valle del mondo, per grandezza”. Incarna “the face of the nation”, il volto di una nazione che è sempre indefinibile, a maggior ragione trattandosi di un’entità volubile come l’America. Mark Twain non poteva resistere alla tentazione di ricominciare qualcosa rimasto in sospeso, quando aveva percorso il Mississippi come aiuto pilota e decise di assecondare “il desiderio di rivedere il fiume, i piroscafi e quanti dei ragazzi fossero rimasti ancora; pertanto decisi di andarci. Arruolai un poeta che mi facesse compagnia e uno stenografo perché prendesse delle note e mi misi in viaggio verso ovest intorno alla metà di aprile”. L’esperienza giovanile e il viaggio di Vita sul Mississippi sono divise dalla guerra di secessione, tema ricorrente perché come gli fa notare uno gli interlocutori: “Si sarà ovviamente reso conto che parliamo quasi sempre della guerra. Non è perché non ci sia nient’altro di cui parlare ma perché non c’è nient’altro che ci interessi tanto. E c’è un’altra ragione: durante la guerra, ciascuno di noi pare aver testato personalmente tutte le diverse varietà dell’esperienza umana; di conseguenza, non si può menzionare una faccenda pur remota senza rammentare ad un ascoltatore qualche cosa che sia accaduta nel corso della guerra”. Ricollegarsi al Mississippi, ai sedimenti naturali, geologici e storici, all’orgoglio di vivere nel fiume più che sul fiume, è in qualche un modo per tornare all’inizio, alle forme primordiali di un’idea, di uno spirito, persino allo stupore per un territorio e un paesaggio che “è una meraviglia. Una meraviglia e uno spettacolo delicato e ricco. E quando il sole è alto in cielo e distribuisce una vampata rosa qui e una polvere d’oro là e una cortina di foschia color porpora dove ottiene l’effetto migliore, si può stare certi di aver assistito a qualcosa che resterà nella memoria”. La Vita sul Mississippi è quasi un’elegia, nella suo armonioso svolgersi di dettagli quotidiani, a una visione americana, distrutta per sempre dalla guerra civile, come se il fiume con il suo snodarsi attraverso la nazione fosse un riparo e insieme un punto fermo insieme alla certezza che il primo pioniere della civiltà, l’avanguardia della civiltà, non è il piroscafo, non è la ferrovia, non è il giornale, non è il missionario, bensì il whisky! Proprio così. Date un’occhiata alla storia e vedrete”. Siamo già nel finale e Mark Twain non resiste alla sua vena caustica, tanto che diventano chiarissime le parole con cui lo ritraeva Jorge Luis Borges: “Nel caso particolare di Mark Twain, un fatto è indiscutibile. Mark Twain è immaginabile soltanto in America. Non sappiamo, non lo potremo mai sapere, quello che l’America gli ha tolto”. Quello che gli ha dato, è tutto nella Vita sul Mississippi.

domenica 3 marzo 2013

Charles Bukowski

Quando uscì Factotum uno dei suoi fans più accaniti e convinti, Tom Waits, colse al volo l’occasione per descrivere Charles Bukowski così:  “E’ probabilmente uno degli scrittori più vivaci e importanti di fiction, poesia e prosa contemporanea. Per me sta in prima posizione; mi fa sentire a posto”. Questa complicità diventa una componente naturale, quasi obbligatoria quando si legge Bukowski alias Chinaski in Factotum perché il suo è un sacrosanto sberleffo alla cosiddetta civiltà borghese e benpensante: passa da un lavoro all’altro come un’irriverente falena impazzita che schizza da una luce all’altra ed è evidente che dei lavori in sé non gliene può importare di meno. I suoi interessi sono radunati e circoscritti in un trittico inespugnabile: bere, scopare, scrivere, e non necessariamente in questo ordine. L’identità di Henry Chinaski è tale che non può essere scalfita nemmeno in modo superficiale dai disordinati tentativi di trovarsi un lavoro qualsiasi: li prende e li tiene quanto basta per raccogliere qualche spicciolo e poi dedicarsi agli scopi di cui sopra. Finito il gruzzolo, si ricomincia daccapo Un metodo piuttosto primitivo che Chinaski ammette in modo candido: “Mi comportavo così per istinto più che altro. Cominciavo sempre un lavoro con la sensazione che l’avrei lasciato presto o sarei stato licenziato, e questo mi conferiva un modo di fare rilassato che veniva scambiato per intelligenza o consapevolezza di avere qualche asso nella manica”. Nel suo curriculum (si fa per dire) i lavori migliori sono quelli “umili”, la normalità è formata da una lunga teoria di quelli “infimi”, a cui va spesso aggiunta una nota alterata e pittoresca. E’ una costante, in Factotum, che serve  a Bukowski per svelare l’anima del suo pensiero. La vera necessità non è il lavoro e, parole sue, “ecco di cosa aveva bisogno un uomo: speranza. Era l’assenza di speranza a scoraggiare un uomo. Ricordai i giorni di New Orleans, quando mangiavo solo due tavolette di cioccolata da cinque cents al giorno per aver tempo di scrivere. Ma purtroppo morir di fame non faceva diventare veri artisti. Anzi. L’anima dell’uomo ha radici nello stomaco. Chiunque scrive molto meglio dopo una bistecca di manzo e una pinta di whiskey che non dopo una tavoletta di cioccolata da cinque cents”. Nella scrittura, Chinaski prova a ripristinare il rubinetto rotto del suo destino e cerca di rileggere la sua disordinata vita non tanto come un’esperienza bohemienne, piuttosto come l’espressione  dell’estrema coerenza di uno stile. Unico nell’inventarsi anche una vendetta in fondo alla deprimente trafila dei rifiuti: i racconti che manda alle riviste gli tornano indietro tutti, senza tanti complimenti, fino a quando non gliene viene accettato uno. Lo scrittore qualsiasi avrebbe festeggiato brindando. A Chinaski, che vive con il bicchiere in mano, basta il tripudio del titolo: La mia anima strafogata di birra è più triste di tutti gli alberi di Natale morti nel mondo. “Spettacolare”, parola di Tom Waits, uno di cui ci si può fidare.