Fredric
Jameson ci tiene a precisare, fin da subito, che per comprendere Il
desiderio chiamato utopia bisogna distinguere “l’esperienza
esistenziale” dal “tempo storico”, l’immagine soggettiva e la
destinazione collettiva, le identità e le differenze, i sogni
partoriti dalle ideologie e le variabili architettoniche. Un fatto, a
livello preliminare, è assodato e decisivo: “La forma utopica è
di per sé una significativa riflessione sulla differenza,
sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità
sociale. Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento
fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato
liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una
cometa”. Questo è il senso compiuto su cui prospera Il
desiderio chiamato utopia che poi, nella sua estrapolazione e nel
confronto con la realtà, si svela sempre un percorso tortuoso e
problematico, prima di tutto, perché “il politico è sempre un
errore categoriale che nasce nei momenti di crisi o di più profonda
contraddizione e prende la forma in cui appare in base alla natura
della crisi. Sarebbe allettante ma superficiale limitarsi a osservare
che lo stesso spazio del politico (e del potere) varia in maniera
talmente radicale a seconda del modo di produzione del quale è
funzione da non poter essere generalizzato e da resistere a qualsiasi
definizione concettuale”. Anche l’analisi di Fredric Jameson in
quei frangenti diventa (parecchio) contorta: si avvita in
speculazioni filosofiche, sociologiche e psicologiche fin troppo
erudite, specifiche e comunque ostiche, almeno a una prima lettura.
Del resto, una certa impalpabilità dell’utopia è ammessa dallo
stesso Jameson: “E’ paradossale che una forma che dipende in
maniera tanto assoluta dalle circostanze storiche (fiorisce soltanto
in condizioni specifiche e in rari frangenti) debba sembrare
essenzialmente astorica, che una forma che scatena inevitabilmente
passioni politiche sembri evitare o abrogare del tutto la politica, e
che un testo tanto dipendente dal capriccio e dall’opinione dei
singoli sognatori sociali si trovi disarmato di fronte alle istanze
del soggetto individuale e della sua azione fondatrice”. Funziona
molto meglio dove la dimensione dell’utopia è messa in discussione
nelle invenzioni letterarie, quelle fantascientifiche su tutte, non
solo per la loro capacità di mostrare mondi irraggiungibili e futuri
remoti, ma anche perché evidenziano “un elemento caratterizzato da
una parola decisamente sospetta, entusiasmo. E’ la vocazione
intellettuale nel suo stadio più febbrile e spassionato, al culmine
della propria eccitazione potenziale, impegnata in una missione che
più di qualsiasi altra sembra concentrare ciò che definisce
l’intellettuale, cioè il rapporto con la scrittura”. Fredric
Jameson attinge a una fornitissima bibliografia, con lo spirito di
Philip Dick a vegliare sui romanzi di Michael
Swanwick, Greg Bear, Samuel Delany, Isaac Asimov, Arkady
e Boris Strugatzki, Olaf Stapledon e Ursula Le Guin, la più
citata, a cui tocca il compito di semplificare lo sguardo verso le
architravi delle utopie e delle distopie: “Le cose non hanno uno
scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte
svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? La
cosa non ha importanza, è che siamo una parte. Come un filo di lana
in un tappeto o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e
noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che
soffia sull’erba”. Così, sì, il desiderio, e pure l'utopia, sono chiarissimi.
martedì 31 ottobre 2017
sabato 28 ottobre 2017
Henry James

martedì 24 ottobre 2017
Megan Mayhew Bergman
Forse
è soltanto un’involontaria coincidenza, ma i Paradisi minori
di Megan Mayhew Bergman cominciano dedicando tutta l’attenzione
agli uccelli per finire con i pesci. Quasi un’evoluzione al
contrario, con una specie, quella umana, che resta indefinita e
prigioniera di se stessa, a metà strada tra la sofferenza in
cattività e l’amaro sollievo dell’estinzione. La coabitazione
sullo stesso pianeta di esseri che non sanno ed esseri senzienti e
convinti della propria indifferenza, genera il substrato che pervade
i racconti di Paradisi minori. E’ un tema che si snoda in
sottofondo, per quanto gli animali siano in risalto in ogni storia,
ma che tende a sottolineare l’innata conflittualità degli esseri
umani, le loro complicate relazioni, i frutti dolci e acidi che
maturano nei pensieri, perché “la verità è che siamo pazzi,
malati d’amore, tutti quanti”, come si dice in L’arte della
casalinga. E’ un racconto commovente dove tutto è doppio: due
madri, due case, un pappagallo che ripete, ma soprattutto una donna
che si riflette nello specchio della vita senza ritrovarsi. Un
problema che gli altri animali evidentemente non hanno. E’ su
questo fragile equilibrio che si muove la narrativa di Paradisi
minori: la sensazione che fra noi e gli animali ci sia una
connessione più intensa di quello che sembri, se non altro perché
“siamo parassiti del mondo, tutti quanti”, come dice uno dei
personaggi di Le balene di ieri. E’ uno dei racconti più
interessanti per via dell’intransigenza ambientalista del
protagonista, che è ossessionato dall’incubo della
sovrappopolazione e della resistenza di Lauren, la sua compagna, che
è rimasta incinta. La diatriba genera tensione a sufficienza per
immaginarlo come un capitolo di un romanzo, forse l’inizio, e a
suo modo risolve anche uno dei nodi cruciali dei Paradisi minori
quando Lauren immagina come “tutti i dilemmi cerebrali del mondo
non possano niente contro i fatti fondamentali della biologia”.
Anche gli altri racconti sono immediati e fruibili: cesellati con il
gusto dell’artigianato, semplici e raffinati nello stesso tempo,
offrono molti interrogativi sui cui soffermarsi scrutando le parole
che, alla fine, convergono sempre nel ripercorrere tutti gli
spostamenti dei personaggi che, uno dopo l’altro, si allontanano da
casa. L’ecologia dei sentimenti ha una sua specifica e principale
funzione nell’inseguirsi e perdersi, trovarsi e lasciarsi, un’altra
abitudine che gli animali, più fortunati di noi, non hanno. C’è,
in tutto questo movimento, molta America nei Paradisi minori di
Megan Mayhew Bergman con tutta la cultura e le atmosfere della
wilderness e insieme con la radicata convinzione di poter accedere
alla “terra trasformata”, come la chiamava William Cronon. Lo
spazio che siamo chiamati ad abitare non è infinito e quando la
protagonista di Un’altra storia a cui lei non crederà dice
“mi viene in mente che ogni tanto finiamo per abitare in luoghi che
non ci appartengono”, non fa altro che riflettere, oltre alle
proprie condizioni personali, sull’invadenza e la pericolosa
insipienza del genere umano. Megan Mayhew Bergman ha una sua
delicatezza nel confrontarsi con gli animali, domestici o selvatici
che siano, per come penetrano nella nostra esistenza e per come noi
decidiamo e pesiamo sulla loro. L’emblema è il coyote che si
aggira disorientato e affamato nell’habitat stravolto di Caccia
notturna: ci ricorda che gli animali subiscono le tensioni e le
paure che creiamo e sopportiamo noi, solo che non hanno la
letteratura per esorcizzarle.
lunedì 23 ottobre 2017
Stephen Crane
venerdì 20 ottobre 2017
John Barth
I
personaggi, l’ambiente, lo stesso tema sembrerebbero fare di La
fine della strada una coda ingombrante dell’umanità già vista
con L’opera galleggiante: insegnanti logorroici, linde e un
po’ asettiche periferie urbane, nevrosi in carriera, legami in
rapida trasformazione. In realtà, se L’opera galleggiante
tratteggiava la rete mutevole dei rapporti umani, La fine
della strada punta una linea d’ingrandimento sui nodi, sulle
intersezioni, sugli agganci. Il protagonista, Jacob Horner (“Ero un
uomo di notevole onestà entro limiti di un dato stato d'animo, ma
avevo poca resistenza”) insegnante di inglese, si trasferisce in
una cittadina della provincia americana dove diventa ospite fisso dei
coniugi Rennie e Joe Morgan con cui sviluppa un’ambigua e
controversa relazione. Lui resta al vertice di un triangolo, una
figura geometrica particolarmente cara a John Barth, che vede i due
coniugi Joe e Rennie Morgan alle altre due estremità. Ognuno di
loro, con una maschera diversa, con i repentini cambiamenti di umore,
le improvvisazioni sull’anima e le mille piccole deviazioni della
vita quotidiana e del suo linguaggio vengono indirizzati da John
Barth in un abbraccio contrastato, carico di presagi perché la loro
comunicazione viaggia da un estremo all'altro: dai silenzi
imbarazzati alle risate isteriche, dalle lunghe speculazioni
filosofiche a battute ingolfate di sarcasmo. Una voluminosa partitura
di parole che John Barth asseconda con uno spirito tutto suo: “Ma
in fondo al cuore sono ancora un arrangiatore: il mio massimo
piacere, nel campo della scrittura, è prendere una melodia
preesistente e improvvisando come un jazzista all’interno dei
limiti di quella melodia, riorchestrarla a seconda della mie
esigenze”. E’ grazie a questo vortice che La fine della strada
trascina il lettore nel vortice di Jacob Horner e dei suoi
ospiti, un dramma che si percepisce riga dopo riga, una mutazione che
non concede nulla ai protagonisti, che vengono travolti dalla loro
stessa storia. L’abilità di John Barth sta nel trasformarci in una
sorta di voyeur, suggerendoci poche indicazioni, ma mettendoci sempre
in condizioni di vedere l’intera scena, di percepire la tensione di
un dialogo, di condividere le vite alla deriva. A quel punto la
formazione teatrale e cinematografica di John Barth diventa
predominante nell’interpretare La fine della strada: “Per
ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre,
siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto
che il suo dispensare ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria
deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio
chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente
inevitabile, e sembra ad ogni modo necessario se uno vuol raggiungere
il fine che desidera”. Tutto lì, perché poi La fine della
strada è la dimostrazione pratica di quello che John Barth disse
in un’intervista di qualche anno fa: “Nella storia della
letteratura, i grandi romanzi sono sempre riusciti a mettere in scena
dei grandi problemi, senza richiedere una guida alla lettura o un
testo che spiegasse al lettore, dal di fuori, a cosa stava andando
incontro”. Dovrebbe essere sempre così.
mercoledì 18 ottobre 2017
Emily Dickinson

lunedì 16 ottobre 2017
John Williams
Con
Augustus,
John Williams riparte dove finiva il Giulio
Cesare di Shakespeare. Ottaviano,
che in quel dramma aveva il compito di celebrarne la conclusione, è
il cardine attorno al quale ruota tutto “un mondo concreto, fatto
di cause e conseguenze, parole e fatti, vantaggi e privazioni”,
come scrive Strabone di Amasia. Il terreno fertile e infido, nello
stesso tempo, dove è potuta fiorire la congiura che ha portato
all’assassinio di Giulio Cesare. Fin dalle prime avvisaglie,
quell’ombra, e quello spettro, determinano il tenore generale di
Augustus:
anche la verità è ambigua nel gran teatro romano, perché come
sentenzia il Giulio Cesare
di Shakespeare “l’abuso della grandezza si ha quando scinde il
rimorso dal potere”. Per Ottaviano accade ben presto, una volta
tornato nel “mondo di Roma, dove nessuno può distinguere gli amici
dai nemici, la dissolutezza è venerata più della virtù e i
principi sono ormai asserviti all’egoismo”. La definizione è
della saggia madre, Azia, che è convinta che sia “ancora possibile
condurre una vita onesta nell’intimità dei nostri animi e dei
nostri cuori”. Un’asserzione che suona più come un accorato
desiderio, che una flebile speranza: il groviglio di cospirazioni,
manipolazioni, scontri e guerre civili che ha generato il passaggio
dalla repubblica al principato mostra un giovane e fragile Ottaviano
diventare un Augusto malato e cinico, a dispetto delle conquiste e
delle riforme. Solo che John Williams delinea la sua figura
attraverso le numerose prospettive e i punti di vista di
quell’eterogeneo epistolario che è, nei fatti, Augustus.
L’effetto ottenuto è sorprendente perché le parole viaggiano
veloci, la forma immaginata e costruita da John Williams scorre come
una lezione di storia orale, e si fa trascinante perché il
linguaggio, limato e levigato, viene reso adeguato all’epoca, ma
asseconda anche un ritmo moderno, e senza voli pindarici o
concessioni alle leggende. Augustus
è un romanzo monumentale, eppure fluttuante: non ha un centro di
gravità preciso, un protagonista assoluto (sì, è Augusto, ma
celebrato da un’orchestra di voci) e il senso della storia è
soverchiato dalle trame romane, continue, assidue, spietate. Quando
il matrimonio, il divorzio, l’adulterio, il pettegolezzo diventano
forme di dialettica per e contro le tante fazioni che si contendono i
resti della repubblica, vale quello che dice Giulia, la figlia di
Augusto spedita in esilio: “Tutto è divenuto oggetto di una
curiosità indifferente, e nulla ha più valore”. John Williams si
prende ogni libertà necessaria per sostenere la singolare struttura
di Augustus,
poi si porta a ridosso degli eventi storici con circospezione, e
sempre attentissimo allo spirito del romanzo, lascia che siano i
personaggi a dominarlo. “Il potere sarà ciò che vorremmo che sia”
dice Quinto Salvidieno Rufo, ma non è mai così, anche se ogni gesto
è celebrato alla spasmodica ricerca del consenso, “in nome della
prosperità e del benessere dei cittadini e della gloria della
città”. Come scriveva Don DeLillo in Rumore
bianco, “tutti gli intrighi
tendono alla morte. E’ la loro natura”, e quando gli onori
diventano soltanto la cornice di un’infinita malinconia restano le
sibilline parole di Atenodoro, filosofo e maestro di Ottaviano: “C’è
il rischio che certi barbari diventino perfino più romani di noi,
che occupiamo ancora il cuore della patria”. Non è soltanto
quello: nel Giulio Cesare,
Cassio si chiede “in quante età future questa nostra scena sublime
verrà recitata, in stati ancora non nati e con accenti ancora
sconosciuti”, e, alla luce di Augustus,
forse non si riferiva soltanto al rappresentazione in sé, ma
soprattutto al dramma intrinseco all’ascesa e alla caduta di ogni
impero, di ogni potere.
martedì 10 ottobre 2017
Val Brelinski

giovedì 5 ottobre 2017
Lewis Mumford
A
ben guardare, la forma delle utopie è ricorrente nel richiamare
l’attenzione alle necessità collettive. Istruzione, lavoro,
bisogni primari di sussistenza e di convivenza civile, sono le
urgenze che ne delimitano la prospettiva ed è proprio quella
l’identificazione preliminare di Lewis Mumford: “Quasi tutte le
utopie criticano implicitamente la civiltà in cui nascono, e sono
allo stesso tempo un tentativo di scoprire le possibilità che le
istituzioni esistenti o ignorano o seppelliscono sotto la crosta
delle vecchie usanze e abitudini”. Nel ricostruire la Storia
dell’utopia, Lewis Mumford
premette di tenere conto “in ogni schema, delle ribellioni, delle
opposizioni, dei conflitti, del male e della corruzione, poiché sono
presenti nella storia di tutte le società”. E’ nell’etimologia
stessa della parola, che va cercata tra i vocaboli greci “eutopia
“(il buon posto) e “outopia” (nessun posto), dove l’utopia si
colloca in una terra di nessuno di trasformazioni e di cambiamenti.
Nell’introdurre uno studio altrettanto approfondito, Il
desiderio chiamato utopia, Fredric
Jameson scriveva: “La forma utopica è di per sé una significativa
riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla
natura sistemica della totalità sociale. Nonè possibile immaginare
un qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra società che non
sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante
scintille dalla coda di una cometa”. La percezione resta infinita e
indefinita e il paragone astronomico non è una coincidenza, visto
che ricorre anche con Lewis Mumford quando dice: “Noi dormiamo
sotto la luce di stelle che da molto tempo hanno smesso di esistere,
e prendiamo come modelli di comportamento delle idee che non sono più
reali nel momento stesso in cui smettiamo di credervi”. All’elenco
dei bagliori collezionati dalla Storia
dell’utopia non sfuggono le tesi
di Tommaso Moro, La città di Dio di
Sant’Agostino e La
città del sole di Tommaso
Campanella, Campi, fabbriche e
officine di Pëtr Kropotkin, e la
Nuova Atlantide di Francesco
Bacone, e tutte le ipotesi, dal villaggio alla nazione,
dall’economira rurale nelle vallate alla rivoluzione industriale
nelle città, da “erewhon” a “nowhere”, da Freeland a
Coketown, “il mondo delle idee”, diventa “un organico insieme
di parti suscettibile di migliore organizzazione, di cui è
importante mantenere l’equilibrio, come in ogni organismo vivente,
al fine di favorire la crescita e il progresso”. L’utopia non è
un paradiso minore, neanche quando riguarda la “fuga”o la
“ricostruzione” e l’inventario (e la cernita) di Lewis Mumford
non è un elenco di luoghi impossibili e fantastici, ma la
constatazione che “quando vi è una frattura tra il mondo reale e
il mondo superiore dell’utopia, noi ci rendiamo conto della parte
che la tendenza all’utopia
ha giocato nella nostra vita, e vediamo la nostra utopia come una
realtà diversa”. La panoramica compresa nella Storia
dell’utopia si conclude con un
proposito molto intonato perché se “appare chiaro che in un mondo
così pieno di frustrazioni come quello reale, siamo costretti a
svolgere una gran parte della nostra vita intellettuale nella sfera
dell’utopia”, il cui destino ultimo è comunque rendere più
“tollerabile” quel mondo, è altrettanto evidente che “il
compito più importante che ci aspetta in questo momento è di
costruire castelli in aria”. Sposta il baricentro dall’utopia
come necessità, come “mito sociale”, a momento ineluttabile del
pensiero, a riprova e a conferma che l’unica utopia possibile è
l’utopia delle idee.
lunedì 2 ottobre 2017
Sarah Manguso

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