giovedì 29 settembre 2016

Bruce Springsteen

Più che l’inevitabile memoir di una rock’n’roll star, più che il racconto autobiografico di un ragazzo della provincia americana “blinded by the light”, Born To Run è un complesso, pensieroso e articolato trattato di resa di Bruce Springsteen con se stesso e con i suoi demoni. Avendo passato una parte importante della vita prigioniero di un sogno e tutto il resto ostaggio di quello che ha creato, Springsteen si è sforzato di comprendere e poi accettare che “per quanto lo desideri, e per quanto mi sforzi, non riesco proprio a venire a patti con le cose come sono”. La soluzione, in concerto, dove è più a suo agio, è una sorta di rito collettivo che produce un’energia gioiosa capace di far rimbalzare tuoni e fulmini. Nelle cinquecento pagine di un libro diventa più difficile, anche perché è vero che “le storie vanno rivendicate: con il duro lavoro e il talento ne nobiliti l’ispirazione, ti sforzi di raccontarle al meglio, dichiari il tuo debito e la tua gratitudine verso di esse. Ambiguità, contraddizioni e complessità delle scelte di accompagnano nella scrittura come nella vita, e tu impari a conviverci, ad assecondare il bisogno di instaurare un dialogo con ciò che ritieni importante”. Essendo costruito attorno all’irrisolto rapporto con il padre e per estensione all’infanzia nel New Jersey, la prima parte di Born To Run resta la più densa ed efficace dal punto di vista narrativo. Gli esordi sono ricchi di volti, di storie, di spunti e il racconto di Springsteen è ironico, picaresco, spesso romantico, anche se il tono non supera mai il perimetro di quello che pare, a tutti gli effetti, un confessionale a porte aperte. L’inversione comincia a metà corsa dove Springsteen confessa di combattere da anni contro la depressione che, a ben leggere tra le righe, è causa e insieme effetto di un’irrisolta crisi d’identità. Il disagio serpeggia, “la ricerca di un senso e di un futuro” dentro una faglia identitaria molto movimentata, comprende, oltre ai conflitti personali, quelli tra realtà e illusione, e, non di meno, i dubbi legati all’essere americano. In effetti, come sostiene Springsteen “per sapere cosa significa essere americani dobbiamo scoprire cosa significava un tempo: solo rispondendo a queste due domande saremo in grado di immaginare cosa potrebbe significare”. E’ più facile che diventi presidente degli Stati Uniti che uno scrittore tout court: se Born To Run non è il grande romanzo americano, Springsteen era e resta un grande storyteller. La seconda parte, soprattutto nelle ultime fasi, è più frammentaria, quasi meccanica nello svolgere i brevi capitoli. Gli aneddoti non trovano sbocchi in una trama più articolata, il linguaggio non si sviluppa e Born To Run risulta, alla fine, un greatest hits di storie che ruotano attorno al nucleo della contrapposizione tra l’età adulta e l’eterna adolescenza del rock’n’roll, una guerra psicologica senza fine, con l’ombra della depressione in agguato. Il contorno è la musica ed è ancora una contraddizione perché quella invece è la sostanza, il cuore di tutta la sua autobiografia, ma Born To Run è un tentativo di rimuovere e ricollocare, aprirsi e nascondersi, sempre con il timore di essere un enorme bluff e che all’orizzonte non ci sia “nessun sogno, nessun futuro, nessuna storia”. Ci sarà un motivo se “credibile” è una delle parole che tornano più spesso. L’altra è “adorabile” e insieme formano un ritornello che riappare con una frequenza regolare perché nel tentativo, anche un po’ goffo, di rendersi accettabile, Springsteen intravede sempre qualcosa di meraviglioso, e vuole bene a tutti (ma proprio a tutti) perché si sforza di riflettersi negli altri, e di voler bene a se stesso. Con la chitarra a tracolla, il trucco funziona (eccome). Dentro le pagine di un libro è credibile, adorabile. La seconda più della prima.

lunedì 19 settembre 2016

Joseph Heller

Quando Tim O’Brien sostiene che “in una storia di guerra c’è un senso connaturato all’importanza di vita e di morte, che altrimenti uno scrittore dovrebbe costruire in altro modo”, definisce un perimetro molto preciso, per certi versi persino ineluttabile. L’elemento bellico è una distorsione permanente, dove è impossibile domandarsi se “è realtà o un ricordo del passato”, come scriveva Josip Osti in Il libro dei morti di Sarajevo. Solo così si capisce il contorno della bellezza sottintesa da Comma 22: “Ero l’eroe di un film”, dice Joseph Heller. E’ una connotazione importante, per capire, in prospettiva, come si è snoda la sua attualità, che è quella di un classico, e non è soltanto perché la guerra è onnipresente nei secoli dei secoli. Ricordava E. L. Doctorow: “Quando Comma 22 venne pubblicato la gente sosteneva: beh, la seconda guerra mondiale non era certo così, ma quando ci trovammo impantanati nel Vietnam quel libro divenne una specie di manuale per la coscienza dell'epoca. Si sostiene che la letteratura non sia capace di cambiare niente, ma è certamente in grado di influenza la consapevolezza di una generazione”. Lo è diventato perché attraverso Yossarian, il protagonista di Comma 22, Joseph Heller è stato ben più che esplicito nel raccontare cos’è la guerra: “Ogni nuova giornata rappresentava una nuova pericolosa missione contro la mortalità”. Le storie degli avieri americani nei cieli italiani sono narrate in modo lapidario, grezzo, senza alcuna correzione di rotta: “Clevinger era morto. Ecco il difetto principale della sua filosofia della vita. Diciotto aeroplani s’erano abbassati attraverso una nuvola bianca e splendente poco lontano dalla costa dell’isola d’Elba, mentre tornavano un pomeriggio dalla missioncella settimanale a Parma; dalla nuvola ne uscirono diciassette. Nessuna traccia fu mai trovata dell’altro, non nell’aria, e neppure sulla superficie liscia dell’acqua verde di sotto. Neanche un frammento di aeroplano”. Questa è la sfida quotidiana e non c’è via di uscita perché la burocrazia e la disciplina sono altrettanto spietate, come è ribadito dal Comma 22, ovvero “chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. In effetti la follia è un’altra e “quando arrivò il momento in cui il colonnello Cathcart aumentò il numero delle missioni di volo prescritte a cinquantacinque, il sergente Towser cominciò a sospettare che forse ogni persona che indossava un’uniforme fosse affetta da pazzia”. Joseph Heller non si esime dall’affondare nelle radici con cui è alimentata la retorica perché quando non basta la patria, c’è sempre il richiamo alla gloria, come spiega il colonnello Korn: “Sai, questa può essere una soluzione: gloriarsi di qualcosa di cui dovremmo sentire vergogna. E’ un trucco che sembra riesca sempre”. Per quanto si cerchi di mascherare l’effettiva consistenza della guerra, la conclusione è sempre l’inevitabile sovrapposizione con la morte, che Comma 22 celebra con un’amarezza infinita: “C’era un tempo in cui provavo grande soddisfazione quando riuscivo a salvare la vita di qualcuno. Ora mi chiedo che dannato senso può avere, dal momento che devono tutti morire una volta o l’altra”. Sulla scia di Comma 22, l’avrebbe ribadito Rodolfo Fogwill in Scene di una battaglia sotterranea, alla fine è il destino, non la guerra, quello di cui stiamo parlando. Obbligatorio, oggi più che mai.

martedì 6 settembre 2016

Ann Beattie

Le Gelide scene d’inverno di Ann Beattie inquadrano, all’inizio del 1975, la precarietà degli anni americani della sconfitta e della caduta, quando tutti sembravano reduci, o dalla guerra, o da Woodstock. Questa dimensione pubblica si riflette nel disorientamento privato dei personaggi, a partire da Charles, il protagonista, che è ossessionato da Laura, nel frattempo prigioniera del matrimonio con Jim alias il bue (proprio così). Ogni rapporto è un’elisse che ne comprime un altro e nelle Gelide scene d’inverno non c’è spazio di manovra perché un insieme di solitudini non basta a rappresentare una comunità. I tentativi di comunicazione sono tanto insistiti e ripetuti quanto destinati al fallimento e le reiterazioni di Ann Beattie funzionano come colpi di frusta e giri di boa. Non soltanto ribadiscono intere frasi, ma portano il periodo, di conseguenza il dialogo e quindi tutte le Gelide scene d’inverno al livello successivo. Eppure, nonostante lo sguardo ravvicinato, quasi intimo, come se Ann Beattie fosse proprio lì, in mezzo a ogni singola discussione, “l’atmosfera è così impersonale” e sono soltanto le canzoni a ristabilire un po’ di calore. Gelide scene d’inverno è punteggiato in tutti i passaggi più importanti da Janis Joplin, Bob Dylan, Elton John, Billie Holiday George Harrison, Rod Stewart. Per quantità e qualità la colonna sonora ha un valore determinante non soltanto perché “le canzoni non sono mai a sproposito. Qualunque disco si stia ascoltando, le parole si possono sempre applicare alla realtà”, ma soprattutto perché sottolinea e intervalla un romanzo costruito quasi per intero sui dialoghi. Altrimenti Ann Beattie è lapidaria, essenziale, fotografica. Un esempio: “Charles raggiunge Susan alla porta, escono e si avviano alla macchina. Charles nota che gli uccelli hanno finito tutto il mangime e che dovrà mettergliene ancora. C’è da aspettarselo: uno mette fuori il mangime, scompare, ne mette dell’altro, scompare, e così via”. Anche l’uso del presente è spiazzante: Gelide scene d’inverno è una lastra di cristallo, trasparente in superficie, piena di schegge nei suoi angoli più remoti, e comunque senza alcun filtro o protezione. Come ha ammesso la stessa Ann Beattie nella prefazione: “Avevo sviluppato una passione per le storie che si potevano leggere fra le righe e per le narrazioni che risultavano fuorvianti, a volte per una scelta deliberata dello scrittore, a volte semplicemente perché i personaggi non dicevano la verità”. Gelide scene d’inverno resta complesso per il carattere coraggioso, a tratti anche sperimentale e innovativo, delle scelte di Ann Beattie e più che leggerlo, va studiato. Con un po’ d’attenzione, si capirà che è molto doloroso nel riflettere l’amarezza di un’era, in fondo riassunta in una battuta di Charles: “Certo che mi sento solo. Perché continui a ricordarmelo?” La domanda, nel gioco di specchi delle Gelide scene d’inverno, sembra persino rivolta ad Ann Beattie e la risposta, visto che tutti stanno aspettando il nuovo album di Dylan, rimane abbandonata nel vento. 

giovedì 1 settembre 2016

Mike Davis

Un personaggio descritto nelle note all’inizio della Breve storia dell’autobomba è esemplare per comprendere l’evoluzione di un’arma “di una crudeltà e di una ferocia senza precedenti”. Si tratta di Gundar Yitzhaki, ritenuto l’inventore delle bombe a orologeria e rimasto a lungo un anonimo e spietato artificiere. Facendosi esplodere per errore, nel 1939, ai soldati britannici che lo trovarono dilaniato da un suo stesso ordigno, rivelò così la propria identità: “Il mio nome è morte”. C’è tutta la Breve storia dell’autobomba in quelle ultime parole a piè di pagina. Si tratta di “un’arma universale di distruzione di massa”, la peggiore e la più terribile, la cui diffusione si è propagata come un virus malefico e le cui “conseguenze” esulano di gran lunga gli aspetti bellici. La puntualissima e sintetica ricostruzione di Mike Davis, che parte dall’attentato a Wall Street dell’anarchico italiano Mario Buda nel 1920 e arriva a oggi, è fluida, con il tono avvincente di un romanzo e insieme una serie di valutazioni che spiegano in modo efficace l’intrinseca essenza di quel “manifesto scritto con il sangue degli altri”. La definizione del regista Régis Debray è indispensabile per leggere oltre i risultati devastanti e tragici dell’autobomba. Da un punto di vista strategico, secondo Charles Krauthammer è “il nucleare della guerriglia urbana” e il contesto, o il teatro, per usare un termine più tecnico, porta all’inevitabile conclusione che il suo utilizzo sia “moralmente e tatticamente impermeabile”. Il “sabotaggio urbano” non distingue tra vittime civili e militari, anzi: nel corso della Breve storia dell’autobomba è evidente che gli attentati, le stragi, il terrore sono insieme la causa e l’effetto, l’ordine e il caos, l’inizio e la fine. Come scrive con notevole lucidità Mike Davis, i promotori delle autobombe danno “l’impressione di essere guidati simultaneamente da una disperazione apocalittica e da una speranza utopica”. Questo vale a tutte le latitudini e longitudini, con un’accelerazione preoccupante sul finire del secolo breve perché “gli attacchi dinamitardi degli anni novanta furono una sorta di processo darwiniano che accelerò l’evoluzione dell’autobomba come motore di panico urbano. Il principio era piuttosto semplice: se le esplosioni sono promiscue, e coinvolgono anche i soft targets, porteranno sicuramente a scoprire nuove zone di vulnerabilità. Il nichilismo, se sistematico, funziona sempre”. Su questo non c’è esitazione, sui risultati storici, l’analisi andrebbe ampliata e rivista. Milt Bearden la riassume in “due amare lezioni che non bisogna dimenticare: prima di tutto nessuna nazione che ha lanciato un’offensiva contro una nazione sovrana ha mai vinto; in secondo luogo, ogni rivolta basata sul nazionalismo contro un’occupazione straniera ha sempre la meglio”. Ci sono molte altre implicazioni da valutare perché poi bisogna vedere come “la forma segue la paura”, perché la Breve storia dell’autobomba rivela “una corsia privilegiata per implementare sistemi di sorveglianza orwelliani e usurpare le libertà civili dei cittadini” ed è, nell’insieme, una lettura (necessaria) che non lascia molta speranza per il genere umano.