Affrontando
con coraggio “il flusso della storia interrotto da catastrofi”
(va ricordato che Americus risale al 2004), Lawrence
Ferlinghetti celebra, una volta di più, la capacità della poesia di
promuovere “una mediazione fra noi e la realtà di ogni giorno”.
Ferlinghetti non sono percepisce quanto ne abbiamo bisogno
(parecchio), ma individua anche un ideale collocazione, dove la
poesia può funzionare da salutare raccordo perché “la nostra
memoria saccheggia il passato per fare il presente, sogna attraverso
i secoli, baratta il tempo con il tempo dei verbi, mentre la
cinepresa-occhio-segreto-della-mente rallegra e preoccupa il genere
umano (poiché la pallida agenda del pensiero ci rende tutti
codardi)”. La lucidità di questa premessa è più che sufficiente
a capire la volontà di Americus nel rendere omaggio a Charles
Olson (Maximus è una delle principali fonti d’ispirazione
per il titolo), William Carlos Williams (Paterson, in
particolare), Ezra Pound, Mark Twain, Gertrude Stein, Thomas Wolfe.
Sapendo che ciascuno è “un palinsesto del passato di tutti”, le
citazioni sanno essere implicite ed esplicite, persino allegre
quando Ferlinghetti dice che Omero è un rapper e Walt Whitman un
soulman. I continui richiami all’espressione artistica, in
generale, e a quella poetica nello specifico, riconducono comunque
alle origini, alla storia e alla colonizzazione di un continente,
l’America, vista come “il più grande esperimento terrestre con
la più grande chance di creare un essere umano più alto, un’anima
o animo incondizionati, gambe storte e sesso incerto, un tipo strambo
sulla punta avanzata della civiltà, viso pallido o mestizo a
suo agio sui due continenti d’America prodotto da molte culture e
calamità”. Dato che la poesia “serve molti padroni, non tutti
santi”, la riflessione tende a spostarsi, con un piglio maturo e
lirico, dal piano pubblico, verso un tono più personale e
crepuscolare visto che “la vita continua a rotolare” e la memoria
è “una spola fra passato e presente un treno dai finestrini
sbarrati con gli specchi spaccati”. Il refrain del tempo e della
storia ritorna come il tema in una suite jazzistica, eppure, anche
nel formato ridotto ed essenziale, Americus contiene molto
dell’idea di poesia di Lawrence Ferlinghetti, e nella sua parte
centrale elenca i tratti, le virtù, le necessità e la natura di una
scrittura la cui “funzione è smascherare con luce radiosa” e che
“appaga un bisogno e ricompone la vita”. L’incrollabile
esuberanza, nutrita da fame e passione, lo porta a decantare
quella poesia che “in quanto lingua originaria venne prima della
scrittura e ancora risuona in noi, musica muta, musica incompiuta”
e con ciò ammirando di nuovo & per sempre la primordiale unità
tra musica e poesia, Ferlinghetti si erge tra i “propagatori di
epopee velleitarie” e si fa accompagnare da Dante e Platone,
Virgilio e Socrate, Cervantes e Thoreau, Dario Fo e Jack Kerouac. Una
compagnia di ineguagliabili ciceroni che in Americus trova la
sua strada, dove la creatività è sempre in agguato, mentre la
poesia si snocciola in un flusso esotico, brillante e contagioso.
sabato 30 dicembre 2017
giovedì 28 dicembre 2017
Patti Smith

martedì 26 dicembre 2017
Joni Mitchell
Una
sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka
Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di
Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo
secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che
delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il
presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò
che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e
misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui
ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo
fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta
che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano
sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e
rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca
così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché
Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che
l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa
dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata
ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa
incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse
aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un
verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride
Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare
a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides,
Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato
alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con
disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante
gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non
sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida
costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa,
contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue
accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento.
La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si
sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano
quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore
è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”.
Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco
politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da
Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di
specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una
dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle
visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington,
Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che
“se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si
spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto
ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire
un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato
la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è
quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di
emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più
ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha
occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in
diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto
difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un
sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo
in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti
che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda
(“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di
quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione:
“Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere,
eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è
davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.
domenica 24 dicembre 2017
Terry Southern
Inseguendo
il gusto della sorpresa, dello scherno, dello sberleffo, Il grande
Guy incarna uno spirito dispettoso e tormentato, che si diverte a
irretire, provocare, stuzzicare e spargere zizzania, tutto in nome
del denaro, che deve sborsare per rimediare ai danni dei suoi
scherzi. Mecenate facoltoso e visionario, con interessi diversificati
e risorse economiche a quanto pare illimitate, Guy Grand è annoiato
e turbato da quello che è diventato e guardando i suoi colleghi di
tante scorrerie finanziarie, si vede come “un riflesso della loro
stessa pochezza: membro di club, personaggio da invitare a pranzo,
una minaccia, un uomo la cui società rappresentava una promessa e
insieme un pericolo”. A quel punto cominciano tutti gli scherzi che
costituiscono la trama e la spina dorsale del breve romanzo di Terry
Southern e che mettono alla prova molti luoghi comuni: proietta film
rallentati e al contrario, paga dei pugili per interpretare la boxe
in una chiave davvero inedita e se ne a caccia con un obice da
settantacinque millimetri, un’arma impropria perché il rinculo lo
sbalza a dieci metri “dove arrivava come uno straccio, ovviamente
privo di sensi”. Un colpo è sufficiente a mettere in fuga tutta la
selvaggina, e così finiscono anche i safari del grande Guy. Ogni
volta le rappresentazioni di quello che, in effetti, è un mondo al
contrario, generano stupore, imbarazzo, disorientamento, soprattutto
perché non sono chiari i motivi che spingono Il grande Guy a
dilapidare una fortuna in quel modo. Finché, di fronte all’ennesima
provocazione, qualcuno si chiede: “E se si trattasse di una sana
satira dei mass-media?”, domanda si adatta alla perfezione
anche per il romanzo in sé. Comunque sia, Il grande Guy
continua imperterrito e ogni volta alza il tiro, fino alla creazione
di una crociera su una nave di follie, una specie di sontuosa parodia
del Titanic, e alla generazione, nel capitolo conclusivo, di una
caricatura degli sconti commerciali che scatena orde di famelici
consumatori in cerca del negozio più conveniente, che nel frattempo
è sparito o si è trasferito dall’altra parte della città. E’
quello che lascia credere il perfido meccanismo studiato da Guy
Grand, almeno le folle ipnotizzate dai pressi impensabili “così
potevano concludere che non si era trattato di un sogno, non solo, ma
che il miracolo era ancora in corso”. La feroce ricostruzione di
una società votata ai consumi e all’avidità è sempre mitigata
dall’ironia e dalla una leggerezza, anche naïf,
volendo, di Terry Southern, sempre disposto a un tono
accondiscendente, colloquiale, poco spigoloso, umoristico, come è
nella tradizione di Mark Twain o del contemporaneo Richard Brautigan.
Terry Southern, in realtà, ha però una percezione critica e
caustica che filtra nelle battute e negli aneddoti di Guy Grand che
induce a una seria riflessione sulla concezione stessa del libero mercato,
che, proprio nella sua natura, è “capriccioso”. Un modo di dire
la verità, ovvero che è molto pericoloso, con una congrua dose di
senso dell’umorismo, non a caso, la cifra finale che definisce Il
grande Guy.
giovedì 21 dicembre 2017
Andre Dubus
Quando
Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till,
rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel
Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con
il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella
discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett
Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte
a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se
non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine
così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei
cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che
tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le
morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile
serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal
bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è
afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a
condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di
ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si
sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di
alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette
il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni.
Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di
visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la
nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò
che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è
solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina
la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si
incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti,
dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è
stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è
il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito
come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot
americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in
parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un
racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta
collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati
attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza
alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del
dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due
racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una
volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il
quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di
quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si
scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata,
è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più
corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti
parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui
poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra,
ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è
l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto
straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei
marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una
famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in
cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro,
dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota.
Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può
dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett
Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e
scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”.
Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane
nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne
condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando
di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima
inutile serata.
venerdì 15 dicembre 2017
Larry McMurtry

mercoledì 13 dicembre 2017
Charles Simic
La
nutrita selezione di poemi che compone Hotel
Insonnia rappresenta l’antologia
ideale per compiere un primo passo verso la conoscenza di Charles
Simic. Ci sono versi che vanno da Macelleria
del 1971 (“Qualche volta cammino a
notte fonda e mi fermo davanti a una macelleria chiusa. C’è solo
una luce nel negozio, la luce del forzato che scava il suo tunnel”)
al 1999 con Il topo nella radio
(“Dopo gli ultimi notiziari, prendi coraggio, per grattare un paio
di volte alla parete del tuo nascondiglio. Ora che le luci sono
spente, avverti il freddo, la desolata solitudine, e così porgi il
tuo quesito, o forse un saluto sentito? E resta la notte, senza
stelle, interminabile e in ogni caso senza traccia di pietà”)
nonché un’appendice di tre poesie (Gli
scritti dei mistici, Madonne
ritoccate con il pizzo e Nel
mezzo) risalenti alle sue prime
esperienze letterarie. La poesia di Charles Simic è una “spiegazione
parziale” fatta soprattutto di immagini: un Sasso,
le Angurie,
un Mozzicone di matita rossa,
una Forchetta,
un Muro,
dove “un incredibile mondo multiforme che accerchia da ogni lato”
viene riletto attraverso liriche brevi, schegge perfezionate con un
lavoro di intaglio certosino, che punta a sottolineare e a
evidenziare le sporgenze e le asperità e nello stesso tempo ad
armonizzarle. La frammentarietà (come scrive in San
Tommaso d’Aquino: “Ho lasciato
pezzi di me ovunque”) non impedisce a Charles Simic di avere una
visione completa di un mondo dove gli oggetti prendono vita, dove
“specchi & miracoli” sono, in effetti, gli strumenti per
capire, come scriveva ancora in La
vita delle immagini, che “tutti
noi siamo una sintesi di realtà e irrealtà. E tutti noi indossiamo
una maschera. Perfino dentro la nostra mente tentiamo di continuo di
nasconderci a noi stessi, solo per essere ripetutamente smascherati”.
Nel corso di Hotel Insonnia,
che non nasconde la sua precisa collocazione temporale nelle
intemperie della seconda metà del Novecento, Charles Simic si
concede spesso a volto scoperto. Succede in Scena
di strada (“Questo secolo strano,
con la sua strage degli innocenti, e il volo sulla luna, ora mi sta
aspettando, in una città strana, nella via in cui mi sono perso”)
e ancora di più in Leggere la storia
dove confessa: “A volte, quando leggo in biblioteca, intravedo i
condannati a morte dei secoli passati, e i loro carnefici. Me le vedo
davanti quelle pallide facce, come succede a un giudice che legga la
sentenza, e provo meraviglia al pensiero che ancora non esisto”. E’
proprio lì che convivono una dimensione intima, introspettiva,
persino onirica e una più scrupolosa, attenta e “politica”. Non
a caso Leggere la storia è dedicata
a Hans Magnus Enzesenberger, che potrebbe spiegare così quel
delicato equilibrio: “Ora, non si può certo far parte di tutto
ovunque, mi dico, stringo i denti e continuo a leggere”. E’ un
destino condiviso con Charles Simic che, nell’appendice di Hotel
Insonnia, svela le fonti primarie
della sua poesia: “Non esagero quando dico che non posso nemmeno
pisciare senza un libro in mano. Leggo per addormentarmi e per
svegliarmi. Ho sempre letto al lavoro, in tutti i lavori che ho
fatto, nascondendo il libro tra le carte sulla scrivania o nel
cassetto mezzo aperto. Anche nella mia bara aperta, un giorno,
reggerò un libro. Il libro tibetano
dei morti sarebbe molto appropriato,
ma preferirei un manuale sul sesso o le poesie di Emily Dickinson”.
Un’abitudine che non ha controindicazioni o effetti collaterali, se
non la crescita spontanea di una rara sensibilità.
martedì 5 dicembre 2017
Paul Hoover

venerdì 1 dicembre 2017
Robert Palmer

lunedì 27 novembre 2017
Philip Dick

giovedì 23 novembre 2017
Thomas Harris
Quando Hannibal Lecter, nel suo antro sotterraneo dove è rinchiuso senza futuro, dice a Clarice Starling che vive “la memoria al posto del panorama”, s’intravede la sottile filigrana che abbraccia tutto Il silenzio degli innocenti. Il susseguirsi delle scene è scandito da un ritmo preciso, che non sbaglia un colpo ed è dettato da tutta una serie di piccoli agganci e di rimandi nella trama, distribuiti da Thomas Harris senza risparmiarsi eppure con meticolosa accortezza. Tutto è incastrato proprio come il meccanismo di sparo di un’arma da fuoco: semplice, solido, micidiale, ineluttabile. Il silenzio degli innocenti è costruito nello stesso modo, a partire dalla triangolazione che unisce Hannibal Lecter, Jack Crawford e Clarice Starling che è l’architrave di uno schema preciso e reiterato. Tutto ruota attorno ad una serie di figure che si incastrano per le estremità. Clarice Starling, “remota e bella. Una ragazza che sembra un tramonto d’inverno” nella descrizione di Frederick Chilton, è l’elemento catalizzatore che mette in comunicazione linee diverse, le asseconda e, comprendendole, riesce a renderle intellegibili al lettore. Anche nel corso di una storia tutt’altro che semplice, come è Il silenzio degli innocenti. Jack Crawford, elegante e tormentato, acuto e concentrato distribuisce le carte ma è con Hannibal Lecter che Thomas Harris ha colto uno di quei personaggi destinati a pesare per sempre nell’immaginario. Inserita in una cornice ben delimitata, e senza sbavature, la scrittura resta lineare, senza particolari pretese stilistiche, accattivante, eppure Thomas Harris ha uno spiccato senso per il dettaglio, un modo coinvolgente di attirare il lettore e non mollarlo mai. Con molto mestiere, senza dubbio, ma anche con l’abilità raffinata nell’elencare le svolte fondamentali, nel renderli chiari, scegliendo dialogo per dialogo quali leve usare per svelare il passaggio successivo. Come spesso capita nel confronto tra Clarice Starling e Jack Crawford, in particolare quando le dice: “Mi dia retta: un delitto confonde già abbastanza le idee anche senza bisogno che le indagini mescolino le carte. Non si lasci mettere fuori strada da un’orda di poliziotti. Abbia fiducia nei suoi occhi. Ascolti se stessa. Mantenga il delitto ben separato da quanto succede intorno a lei. Non cerchi di imporre a quell’individuo uno schema o una simmetria. Conservi una mentalità aperta, e lasci che sia lui a rivelarsi”. La realizzazione è impeccabile e Thomas Harris alza il tiro perché non sembra importante chi sia il responsabile degli efferati omicidi, piuttosto l’intricato sottobosco di conflitti (psicologici, procedurali, politici) che sottintendono la ricerca dell’assassino e la sua cattura, e ancora di più “le indegnità subite dalla vittima, l’esposizione agli elementi e agli occhi di estranei suscitano collera, se il tuo lavoro ti permette di andare in collera”. Si capisce perché Hannibal Lecter sia sempre al centro dell’attenzione, un magnete malefico e perverso che, come si sa, nasconde, dietro un’affettata cortesia, un maniaco cannibale. Attorno a lui, Thomas Harris ha costruito un romanzo che nello stesso tempo è una sceneggiatura finita e pronta all’uso. Non a caso le differenze con la bella riduzione cinematografica di Jonathan Demme sono (per una volta) al minimo sindacale: la storia era già perfetta così.
lunedì 20 novembre 2017
Jack London

mercoledì 15 novembre 2017
James Ellroy
Los
Angeles è Hollywood e le fotografie sulla scena del crimine hanno
l’atmosfera del cinema noir. Lo scambio è inevitabile, l’osmosi
continua, e figurarsi se questo James Ellroy non lo sa, anzi lo sa e
lo spiega benissimo: “Perché le foto dei morti nelle scene del
crimine sono così belle? Perché sono sempre di qualcun altro, ed è
improbabile che noi finiamo stecchiti davanti a un albergo a
ore della East 5th Street. Perché l’accumulo di particolari da
film suggerisce un mondo che è insieme simile e distante dal nostro.
Perché il subconscio è intorpidito da immagini sepolte e frammenti
sinaptici che riemergono dalla memoria razziale e la nostra vita va a
finire nel gorgo di quello spiritus mundi in perpetua
evoluzione che chiamiamo storia, e toccare i confini della vita
orrifica di allora vuol dire affermare il nostro transito
terreno ora, nonché riaffermare entrambi come luminosamente
unici e piattamente banali, perché alla fine siamo tutti uniti come
un solo essere con un’anima sola, e alla fine l’arte è
l’elemento che permette la fusione di vivi e morti, uniti e
riconciliati”. Le immagini inchiodano il momento senza possibilità
di errori o divagazioni. Il rigoroso bianco e nero delle fotografie
coglie qualcosa in più delle due dimensioni, nell’ottica di James
Ellroy che sottolinea a ripetizione “il gesto ambiguo, l’effimera
corrente sotterranea, la consapevolezza pervasiva del fatto che il
gioco è truccato”. Mostrano una Los Angeles di “allora” che è
il seme per quella di “adesso”. E’ un refrain che torna spesso
nei commenti e nelle didascalie di James Ellroy, come se le
fotografie fossero la connessione tra due città nel tempo, quella di
allora con una sua cruda, spietata e distorta eleganza e
quella di adesso, che non esiste. Una Los Angeles che è
sparita e che rimane nella memoria dato che, come spiega Glynn
Martin, “il crimine possiede, per sua natura, una sorta di
continuità immune al passare del tempo”. La Los Angeles di allora
ha ancora un volto umano, persino nella disperazione. Anche se il
vero motto del dipartimento guidato da William Parker era “reprimere
e sopprimere”, che è un po’ diverso da “proteggere e servire”,
la polizia, piaccia o meno, non girava armata come un esercito in
assetto da combattimento. Ci sono smorfie e sguardi molto perplessi
davanti alle posizioni scomposte dei cadaveri di un’omicidio o di
un suicidio. Le foto hanno una dignità geometrica. Sembrerà strano,
ma c’è quasi compassione, più che “disprezzo” e tutto è più
modesto e accurato. Le forme appaiono eleganti: le automobili sono
tutte curve e imbottiture, le strade sono più larghe, libere e
pulite, luoghi che sono stati set cinematografici prima di diventare
scene del crimine, e viceversa. La commistione tra fiction e realtà
è elevata a regola quotidiana. In più c’è un elemento di
nostalgia, nemmeno troppo velato, nei commenti di James Ellroy:
questi sono i suoi luoghi oscuri in una luce diversa, e i continui
richiami a Perfidia, American Tabloid e Dalia Nera
sono riferimenti naturali e spontanei per gli adepti di Los Angeles.
Non si può veramente andarsene, è la città in cui vai “in
vacanza, e torni a casa in libertà vigilata”. Un potere ipnotico
che vale per la prosa di James Ellroy che è inseparabile da Los
Angeles e volutamente volgare. Se per l’occasione cita con rispetto
Saul Bellow e Don DeLillo, le sue fonti di ispirazione sono sempre
quelle sul campo: i “ragazzi del coro” di Joseph Wambaugh, Lenny
Bruce, Charlie Parker e John Coltrane in un buco fumoso e Dexter
Gordon che suona il sassofono in galera. Il film non finisce mai.
mercoledì 8 novembre 2017
Lewis Mumford

domenica 5 novembre 2017
Barry Hannah
Barry
Hannah continua a essere un oggetto non ben identificato nei corsi e
ricorsi della letteratura americana. Basta inoltrarsi in Mezzanotte
e non sono ancora famoso per accorgersi quanto scomoda e
spigolosa sia ancora oggi la sua narrativa: non è politically
correct, non è né accomodante, né consolatoria, meno che mai
riflessiva o indulgente. Il senso dell’umorismo, indispensabile
anche per chi legge, è tagliente, il tono abrasivo, i bersagli
dichiarati senza tanti patemi, e nessuna esitazione. Un tratto
anarcoide che, con gran gusto e disgusto, prende di mira ogni forma
di istituzione, a partire da quella più celebrata, la famiglia. Una
parte rilevante dei racconti di Mezzanotte e non sono ancora
famoso mette in mostra coppie più o meno disintegrate, avventure
impossibili e matrimoni in cui molte cose che non vanno. Succede in
modi e casi diversi con La nostra casa segreta, Amare
troppo a lungo, Moglie e amici a pranzo, Sorda e muta
o (è chiaro fin dal titolo) in Osservate l’estremo strazio del
marito. Quando Barry Hannah li lascia trasportare, l’eccesso è
inevitabile, come succede nelle due pagine urticanti di Pete
resiste all’uomo della sua vecchia stanza, nel caotico Venir
vicino a Donna, e ancora di più nell’irriverente E’
proprio vero, con lo psicologo Lardner, che raccoglie (e
commenta) le registrazioni dei suoi pazienti, annotando a margine che
ormai “le grandi domande sembrano averci risparmiato”. Barry
Hannah non concede nulla nemmeno agli agli eroi: dall’attualità
del conflitto in Vietnam (la raccolta risale al 1978) riportata in
Testimonianza di un pilota e nell’apoteosi di Mezzanotte
e non sono ancora famoso, ai “southern accents” della guerra
di secessione in Strappato a forza dalla tomba e Quo vadis,
sporcaccione?, i toni grotteschi celebrano in una luce acida le
gesta belliche, che poi, nel trionfo comico e brutale di Sapevo
che non era il tipo per me, eppure l’ho seguito vengono
riassunte così: “Siamo solo dei predoni e dei maniaci: lo capisco
dalla luce che guizza nello sguardo degli uomini. Tutti stanno
diventando sempre più pazzi pere la semplice pazzia d’esser troppo
lontani da casa per farvi decentemente ritorno”. In realtà tutti i
protagonisti di Mezzanotte e non sono ancora famoso sono
comunque fuori posto: hanno sempre qualcosa da nascondere, una
menomazione, un difetto, una lacuna, che spesso determinano una
svolta nelle singole storie. C’è soprattutto l’imprevedibile,
che è il dato caratteristico di Barry Hannah, lo sbalzo, la nota
stridente: un racconto non finisce mai come comincia, la sorpresa è
dietro ogni angolo, e, per quanto brillante, l’urto scomodo tocca
tutti i partecipanti. Nessuna compassione, nessun rimpianto: i
racconti di Mezzanotte e non sono ancora famoso sono collegati
uno all’altro da minuscoli riferimenti, un nome, un’ossessione,
un tema ricorrente, ma soprattutto dall’infausto destino che
associa i protagonisti. Un’unica elegia, a suo modo significativa,
s’intravede in Tutti quei vecchi volti intenti lungo la
ringhiera, dove un manipolo di anziani che osserva Oliver
manovrare la sua barca con a bordo la ragazza “come a Pearl Harbour
nel 1941” commentano dal molo, e con uno scampolo di saggezza: “Qui
siamo tutti abbastanza vecchi da capire che fine faranno gli
sciocchi”. E’ un messaggio che Barry Hannah scrive con
l’inchiostro simpatico, da usare con le dovute precauzioni.
giovedì 2 novembre 2017
Wallace Stevens
martedì 31 ottobre 2017
Fredric Jameson
Fredric
Jameson ci tiene a precisare, fin da subito, che per comprendere Il
desiderio chiamato utopia bisogna distinguere “l’esperienza
esistenziale” dal “tempo storico”, l’immagine soggettiva e la
destinazione collettiva, le identità e le differenze, i sogni
partoriti dalle ideologie e le variabili architettoniche. Un fatto, a
livello preliminare, è assodato e decisivo: “La forma utopica è
di per sé una significativa riflessione sulla differenza,
sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità
sociale. Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento
fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato
liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una
cometa”. Questo è il senso compiuto su cui prospera Il
desiderio chiamato utopia che poi, nella sua estrapolazione e nel
confronto con la realtà, si svela sempre un percorso tortuoso e
problematico, prima di tutto, perché “il politico è sempre un
errore categoriale che nasce nei momenti di crisi o di più profonda
contraddizione e prende la forma in cui appare in base alla natura
della crisi. Sarebbe allettante ma superficiale limitarsi a osservare
che lo stesso spazio del politico (e del potere) varia in maniera
talmente radicale a seconda del modo di produzione del quale è
funzione da non poter essere generalizzato e da resistere a qualsiasi
definizione concettuale”. Anche l’analisi di Fredric Jameson in
quei frangenti diventa (parecchio) contorta: si avvita in
speculazioni filosofiche, sociologiche e psicologiche fin troppo
erudite, specifiche e comunque ostiche, almeno a una prima lettura.
Del resto, una certa impalpabilità dell’utopia è ammessa dallo
stesso Jameson: “E’ paradossale che una forma che dipende in
maniera tanto assoluta dalle circostanze storiche (fiorisce soltanto
in condizioni specifiche e in rari frangenti) debba sembrare
essenzialmente astorica, che una forma che scatena inevitabilmente
passioni politiche sembri evitare o abrogare del tutto la politica, e
che un testo tanto dipendente dal capriccio e dall’opinione dei
singoli sognatori sociali si trovi disarmato di fronte alle istanze
del soggetto individuale e della sua azione fondatrice”. Funziona
molto meglio dove la dimensione dell’utopia è messa in discussione
nelle invenzioni letterarie, quelle fantascientifiche su tutte, non
solo per la loro capacità di mostrare mondi irraggiungibili e futuri
remoti, ma anche perché evidenziano “un elemento caratterizzato da
una parola decisamente sospetta, entusiasmo. E’ la vocazione
intellettuale nel suo stadio più febbrile e spassionato, al culmine
della propria eccitazione potenziale, impegnata in una missione che
più di qualsiasi altra sembra concentrare ciò che definisce
l’intellettuale, cioè il rapporto con la scrittura”. Fredric
Jameson attinge a una fornitissima bibliografia, con lo spirito di
Philip Dick a vegliare sui romanzi di Michael
Swanwick, Greg Bear, Samuel Delany, Isaac Asimov, Arkady
e Boris Strugatzki, Olaf Stapledon e Ursula Le Guin, la più
citata, a cui tocca il compito di semplificare lo sguardo verso le
architravi delle utopie e delle distopie: “Le cose non hanno uno
scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte
svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? La
cosa non ha importanza, è che siamo una parte. Come un filo di lana
in un tappeto o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e
noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che
soffia sull’erba”. Così, sì, il desiderio, e pure l'utopia, sono chiarissimi.
sabato 28 ottobre 2017
Henry James

martedì 24 ottobre 2017
Megan Mayhew Bergman
Forse
è soltanto un’involontaria coincidenza, ma i Paradisi minori
di Megan Mayhew Bergman cominciano dedicando tutta l’attenzione
agli uccelli per finire con i pesci. Quasi un’evoluzione al
contrario, con una specie, quella umana, che resta indefinita e
prigioniera di se stessa, a metà strada tra la sofferenza in
cattività e l’amaro sollievo dell’estinzione. La coabitazione
sullo stesso pianeta di esseri che non sanno ed esseri senzienti e
convinti della propria indifferenza, genera il substrato che pervade
i racconti di Paradisi minori. E’ un tema che si snoda in
sottofondo, per quanto gli animali siano in risalto in ogni storia,
ma che tende a sottolineare l’innata conflittualità degli esseri
umani, le loro complicate relazioni, i frutti dolci e acidi che
maturano nei pensieri, perché “la verità è che siamo pazzi,
malati d’amore, tutti quanti”, come si dice in L’arte della
casalinga. E’ un racconto commovente dove tutto è doppio: due
madri, due case, un pappagallo che ripete, ma soprattutto una donna
che si riflette nello specchio della vita senza ritrovarsi. Un
problema che gli altri animali evidentemente non hanno. E’ su
questo fragile equilibrio che si muove la narrativa di Paradisi
minori: la sensazione che fra noi e gli animali ci sia una
connessione più intensa di quello che sembri, se non altro perché
“siamo parassiti del mondo, tutti quanti”, come dice uno dei
personaggi di Le balene di ieri. E’ uno dei racconti più
interessanti per via dell’intransigenza ambientalista del
protagonista, che è ossessionato dall’incubo della
sovrappopolazione e della resistenza di Lauren, la sua compagna, che
è rimasta incinta. La diatriba genera tensione a sufficienza per
immaginarlo come un capitolo di un romanzo, forse l’inizio, e a
suo modo risolve anche uno dei nodi cruciali dei Paradisi minori
quando Lauren immagina come “tutti i dilemmi cerebrali del mondo
non possano niente contro i fatti fondamentali della biologia”.
Anche gli altri racconti sono immediati e fruibili: cesellati con il
gusto dell’artigianato, semplici e raffinati nello stesso tempo,
offrono molti interrogativi sui cui soffermarsi scrutando le parole
che, alla fine, convergono sempre nel ripercorrere tutti gli
spostamenti dei personaggi che, uno dopo l’altro, si allontanano da
casa. L’ecologia dei sentimenti ha una sua specifica e principale
funzione nell’inseguirsi e perdersi, trovarsi e lasciarsi, un’altra
abitudine che gli animali, più fortunati di noi, non hanno. C’è,
in tutto questo movimento, molta America nei Paradisi minori di
Megan Mayhew Bergman con tutta la cultura e le atmosfere della
wilderness e insieme con la radicata convinzione di poter accedere
alla “terra trasformata”, come la chiamava William Cronon. Lo
spazio che siamo chiamati ad abitare non è infinito e quando la
protagonista di Un’altra storia a cui lei non crederà dice
“mi viene in mente che ogni tanto finiamo per abitare in luoghi che
non ci appartengono”, non fa altro che riflettere, oltre alle
proprie condizioni personali, sull’invadenza e la pericolosa
insipienza del genere umano. Megan Mayhew Bergman ha una sua
delicatezza nel confrontarsi con gli animali, domestici o selvatici
che siano, per come penetrano nella nostra esistenza e per come noi
decidiamo e pesiamo sulla loro. L’emblema è il coyote che si
aggira disorientato e affamato nell’habitat stravolto di Caccia
notturna: ci ricorda che gli animali subiscono le tensioni e le
paure che creiamo e sopportiamo noi, solo che non hanno la
letteratura per esorcizzarle.
lunedì 23 ottobre 2017
Stephen Crane
venerdì 20 ottobre 2017
John Barth
I
personaggi, l’ambiente, lo stesso tema sembrerebbero fare di La
fine della strada una coda ingombrante dell’umanità già vista
con L’opera galleggiante: insegnanti logorroici, linde e un
po’ asettiche periferie urbane, nevrosi in carriera, legami in
rapida trasformazione. In realtà, se L’opera galleggiante
tratteggiava la rete mutevole dei rapporti umani, La fine
della strada punta una linea d’ingrandimento sui nodi, sulle
intersezioni, sugli agganci. Il protagonista, Jacob Horner (“Ero un
uomo di notevole onestà entro limiti di un dato stato d'animo, ma
avevo poca resistenza”) insegnante di inglese, si trasferisce in
una cittadina della provincia americana dove diventa ospite fisso dei
coniugi Rennie e Joe Morgan con cui sviluppa un’ambigua e
controversa relazione. Lui resta al vertice di un triangolo, una
figura geometrica particolarmente cara a John Barth, che vede i due
coniugi Joe e Rennie Morgan alle altre due estremità. Ognuno di
loro, con una maschera diversa, con i repentini cambiamenti di umore,
le improvvisazioni sull’anima e le mille piccole deviazioni della
vita quotidiana e del suo linguaggio vengono indirizzati da John
Barth in un abbraccio contrastato, carico di presagi perché la loro
comunicazione viaggia da un estremo all'altro: dai silenzi
imbarazzati alle risate isteriche, dalle lunghe speculazioni
filosofiche a battute ingolfate di sarcasmo. Una voluminosa partitura
di parole che John Barth asseconda con uno spirito tutto suo: “Ma
in fondo al cuore sono ancora un arrangiatore: il mio massimo
piacere, nel campo della scrittura, è prendere una melodia
preesistente e improvvisando come un jazzista all’interno dei
limiti di quella melodia, riorchestrarla a seconda della mie
esigenze”. E’ grazie a questo vortice che La fine della strada
trascina il lettore nel vortice di Jacob Horner e dei suoi
ospiti, un dramma che si percepisce riga dopo riga, una mutazione che
non concede nulla ai protagonisti, che vengono travolti dalla loro
stessa storia. L’abilità di John Barth sta nel trasformarci in una
sorta di voyeur, suggerendoci poche indicazioni, ma mettendoci sempre
in condizioni di vedere l’intera scena, di percepire la tensione di
un dialogo, di condividere le vite alla deriva. A quel punto la
formazione teatrale e cinematografica di John Barth diventa
predominante nell’interpretare La fine della strada: “Per
ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre,
siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto
che il suo dispensare ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria
deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio
chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente
inevitabile, e sembra ad ogni modo necessario se uno vuol raggiungere
il fine che desidera”. Tutto lì, perché poi La fine della
strada è la dimostrazione pratica di quello che John Barth disse
in un’intervista di qualche anno fa: “Nella storia della
letteratura, i grandi romanzi sono sempre riusciti a mettere in scena
dei grandi problemi, senza richiedere una guida alla lettura o un
testo che spiegasse al lettore, dal di fuori, a cosa stava andando
incontro”. Dovrebbe essere sempre così.
mercoledì 18 ottobre 2017
Emily Dickinson

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