mercoledì 22 dicembre 2021

Robert Gordon

Nel raccontare la turbolenta biografia di Muddy Waters, Robert Gordon riporta per ben due volte la zuffa, avvenuta in nome dell’autenticità, tra Albert Hoffman, il manager di Dylan, e l’etnomusicologo Alan Lomax. Entrambi avevano ormai una certa età, eppure non trovarono di meglio di darsele di santa ragione. C’è una logica nella rissa e Robert Gordon, con la complicità di Keith Richards, spiega che l’oggetto del contendere era che “la purezza e la semplicità del blues, il suo carattere primitivo, sono un mito. Il blues, come le emozioni, è complesso. Blues è cantare per alleviare l’afflizione, sentirsi bene per il fatto di stare male. È una musica nata dalla sofferenza, che però trasmette piacere, un mezzo che ci consente di passare dal dolore al sollievo”. Quella di Muddy Waters è una vita che spiega il blues, come non si potrebbe diversamente, ma è vissuta a ritmi del rock’n’roll. Un’espressione legata al contesto sociale, che non ha dubbi sulla natura, sull’origine e sulla progressione del blues: “Il blues è un’arte mirabile, ma le condizioni che l’hanno creata erano strazianti. C’è una sola verità riguardante il blues che è rimasta praticamente immutata nel corso dei decenni ed è il fatto che tuttora è considerata una musica che affonda le sue radici nella povertà”. Robert Gordon narra con l’occhio del testimone oculare anche se, nei fatti, la sua ricostruzione è una storia orale, vista l’enorme massa di interviste e commenti che ha raccolto. Nella vita di Muddy Waters si sentono le voci di Honeyboy Edwards, Son House, Johnny Shines, Barbecue Bob, Texas Alexander, Roosevelt Sykes, Junior Parker, Willie Mabon, James Cotton, Chris Barber, Junior Wells, Pinetop Perkins, Alexis Corner, Steve Miller, Eric Burdon e Keith Richards che dice: “Questa musica è stata chiamata blues circa un secolo fa, ma la musica è una sensazione e non è possibile stabilire una precisa data d’inizio per le sensazioni. Le sensazioni nascono dalle persone e penso che questo sia il motivo per cui il blues è universale, perché è parte di ognuno di noi”. Robert Gordon è puntiglioso nel descrivere ogni singolo dettaglio, ogni aneddoto collocandoli nel contesto generale dello sviluppo del blues secondo Muddy Waters, per poi riportarlo alla sua essenza naturale con una definizione estrema, forte, incisiva: “Il blues, nato dalla frustrazione della libertà, cominciava a prendere forma. Il blues traeva origine dalle privazioni e divenne né più né meno di uno strumento di sopravvivenza. Come la musica gospel, il blues significava liberazione, forniva conforto. Il blues riguarda il momento presente e ti impone di dimenticare le tribolazioni passate e i guai futuri, di penetrare in quella canzone e in quella sensazione adesso, di abbandonarti completamente a essa. Anche se attinge da un enorme serbatoio di versi, distici, filastrocche e detti preesistenti, il blues è un genere di musica profondamente personale”. Muddy Waters si definiva “un cantante del ritardo”, perché c’era qualcosa di sospeso nel suo blues e c’è un senso se “in meno di tre minuti, arrivava dritto ai visceri, non servivano occhiali né istruzione”. L’unico segreto è molto semplice ed è stato svelato dallo stesso Muddy Waters: “Amavo la musica, ecco tutto”, e nemmeno il mercato discografico, i cui metodi non sono molto dissimili dalla mezzadria, è riuscito a piegarlo. Il valore delle sue canzoni è parte di un’evoluzione che va ben oltre il valore commerciale perché è un dato di fatto che “la ragione per cui il blues ha attratto tante persone differenti che appartengono a differenti culture, la ragione per cui questa musica continua a parlare al nostro cuore, è che il blues non è legato al luogo più di quanto non lo sia alle circostanze”. Ecco, ripercorrendo l’esistenza di Muddy Waters diventa chiaro che ha trasformato il blues, non solo dalla versione rurale e minimale a quella urbana, dal Mississippi a Chicago, ma anche nella sua sostanza tematica, e questo Robert Gordon lo dice in modo esplicito: “Attraverso Muddy il blues divenne una musica di speranza, non solo d’evasione. Quella che era stata la musica dell’oppressione diventò la musica della liberazione”. Indispensabile.

lunedì 20 dicembre 2021

Barry Gifford

Nella radio, Little Richard canta Lucille e il groove scandito asseconda e sottolinea la conversazione in corso tra madre e figlio, in viaggio attraverso l’America. Le voci si distinguono nitide e seguono un ritmo sincopato, ma non privo di una sua dolcezza. La vita si svolge tutta dentro l’abitacolo dell’auto, Roy, nove anni, è uno sguardo alimentato da una curiosità insaziabile e per la madre è una sorta di riflesso imprevedibile, che rimbalza in continuazione, tappa dopo tappa. Il viaggio non è organizzato, prevede deviazioni di percorso, reali e immaginarie, “una religione della geografia” che comprende frammenti del passato (“Ti ricordi come risuonavano le onde sulla spiaggia a Cuba? Il modo in cui schiaffeggiavano la sabbia, poi facevano una specie di sussurro mentre l’acqua si spargeva ovunque prima di ritirarsi. Una cosa completamente diversa dal suono del fiume a New Orleans”), valutazioni dedicata ai luoghi incontrati di volta in volta (“Secondo me dappertutto è successo qualcosa di importante per qualcuno, solo che certi ci hanno tirato su un polverone, a differenza di altri”) e di persone abbandonate al proprio destino (“Uomini e donne, che non si capiscono tra loro e non hanno neppure voglia di provarci, o non ne sono capaci”). Ogni frase è centellinata a costruire un microcosmo in movimento e l’ossessione di Barry Gifford per i dialoghi trova in Wyoming la sua apoteosi: sono il plasma che genera tutto, dai personaggi che vengono ricreati nel fluidificare del confronto tra madre e figlio alla visione del paesaggio che scorre parallelo alla strada. Le loro voci disegnano una fitta simbologia americana al 100%: una carrellata che scorre senza fine: motel, il serpente reale e quelli arboricoli, i seminole, la wilderness, la guerra di secessione, il Mississippi (“Scommetto che gli schiavi non pensavano che i campi di cotone fossero così belli”), il Texas alle spalle, New Orleans di passaggio, l’Alabama da qualche parte. Il percorso è tortuoso e contorto: un po’ elencano le località, un po’ gli stati che si susseguono, come a voler trovare una posizione, uno schema che nemmeno la mappa riesce a garantirgli. Si passa dentro l’America con una sequenza di città e smalltown, di incroci e mete oscure, evocando figure lontane o scomparse (a partire dal padre di Roy)  o che tendono a dissolversi nei ricordi e nella limitata ricostruzione delle parole. Nel colloquio senza sosta tra madre e figlio, il passato scorre almeno quanto la strada, due componenti che si srotolano apparentemente senza fine. È lì che Barry Gifford lascia intravedere un senso senza rivelarlo: l’impressione è proprio che il loro sia anche un viaggio nel tempo perché “gli anni si perdono, volano via e non riesci a ricordarli”. La vita resta inafferrabile e il Wyoming, tra l’altro nemmeno sfiorato nel lungo tragitto, è un’aspirazione, più che una meta reale, è uno stato della mente, una necessità, forse anche una scusa, proprio come dice Roy: “Mi piace quando siamo a metà strada, tra i posti da cui veniamo e quelli a cui siamo diretti”. Da grande narratore quale è, Barry Gifford non lo dice, ma lo lascia capire: una volta arrivati, è troppo tardi. La felicità resta tutta, sempre e solo nell’incertezza.

venerdì 10 dicembre 2021

Harlan Ellison

Secondo Stephen King, la letteratura per Harlan Ellison “è ed è sempre stata un nervoso groviglio di contraddizioni”, e ciò dipende dalla capacità di vedere altrove, di rispondere e corrispondere alle Visioni che fluttuano nel tempo e nello spazio, indagando simboli e miti di società distopiche del futuro che somigliano molto a quelle del passato e del presente, senza nascondere un’aperta avversione per la violenza, il controllo e, in definitiva, l’esercizio del potere. Il voluminoso complesso dei racconti di Visioni consente di avere una copertura totale delle tematiche attraversate da Harlan Ellison, a partire dal rapporto con le macchine, in particolare in Non ho bocca, e devo urlare o in 480 secondi, o la città condannata, dove l’ammirazione per i robot è palese: “Piccoli individui di metallo e plastica. Ho sempre provato simpatia per loro. Volete sapere perché? Chiedono così poco e danno tanto. Sono così gentili che a nessuno potrebbe venire in mente di essere crudele con loro, e perciò la loro è una vita felice. Sono soddisfatti del loro lavoro. Anche se voi non ci siete più le ruote del commercio continuano a girare per opera loro”. Ancora di più in Stazione di soccorso, dove l’uomo e l’automa destinato ad aiutarlo sono entrambi guasti e intrappolati in una sfida mortale, che sfida le regole di Asimov. Il rapporto con il futuro e con la mitologia è un continuum spazio-temporale parallelo all’ossessione per la diversità e l’alienazione che si vede nei personaggi richiamati di volta in volta: Arlecchino, la revisione di Jack lo Squartatore in L’ombra in caccia nella città sull’orlo del mondo, (“Siamo una cultura che crea i suoi assassini e i suoi mostri e poi fornisce loro l’unica cosa che Jack non è mai riuscito ad avere: la realtà”), un viaggio di Gulliver nell’era dei talk show in Ma guarda, un uomo in miniatura, ma anche Django dedicato a Django Reinhardt e ai maquis francesi, fino alla celebrazione di Anubi. È l’apologia per Gli svitati o Gli scarti, dove “ciascuno pensava d’essere meno orribile e ripugnante degli altri”, e l’emarginazione da sistemi omologati e oppressivi diventa un’indispensabile via di fuga. La scrittura è friabile, pop, effervescente, psichedelica (e, sì, contraddittoria), ma ricchissima nel collocare i dilemmi filosofici, i rapporti con creature di altri universi (Il cielo sta bruciando), le mutazioni del nostro pianeta, raccontate con proprietà scientifiche efficaci quando Harlan Ellison spiega Il morso della seggiola e racconta degli “gu” o di uomini e animali parlanti in Un ragazzo e il suo cane, un racconto paradossale in una città devastata dai combattimenti. C’è comunque una guerra che ha distrutto tutto e in Fenice, o Soldato, il senso antimilitarista e pacifista di Harlan Ellison affiora nitido: le sue Visioni sono “un universo oscillante”, ma il valore aggiunto della fantascienza diventa il carburante di una percezione critica. La costruzione dei racconti segue uno schema consolidato, ma non per questo privo di sorprese, perché riguarda sistemi che sono diventati incontrollabili. Le dimensioni si dilatano, le forme mentali e quelle reali tendono a sovrapporsi e a intersecarsi: per esempio, Nel quarto anno di guerra in realtà non parla di un conflitto armato, ma una presenza nella mente, uno scontro schizofrenico, che trasforma una persona in un killer. E così ogni storia è un tuffo senza rete in direzioni impensabili, che Harlan Ellison mostra con nonchalance e nella somma di tutti i racconti il paradosso diventa una logica stringente: “Qualunque cosa avessero pensato di essere, qualunque forma di arroganza avesse dato origine ai loro sogni, ora era giunta ai suoi ultimi momenti e, dopo quei momenti, non c’era nulla. Niente spazio e niente tempo, niente vita e niente pensiero, niente dei, niente resurrezione e niente rinascita”. Le Visioni di Harlan Ellison conservano e tramandano un grande scrittore, capace di forzare l’immaginazione a esplorare mondi impossibili, mondi che non finiscono mai, o che finiscono un’infinità di volte perché contengono “un germe di pensiero” che ci accompagna in dimensioni dove gli esseri umani si rivelano per quello che sono: fallibili.

martedì 23 novembre 2021

Joy Williams

A un certo punto, tra le numerose storie che L’ospite d’onore raduna, Joy Williams ammette, in maiuscolo, che “i presupposti di amore e autoconservazione sono inconciliabili”. Da questo nocciolo ineluttabile, i suoi racconti toccano corde sensibili, sfiorano la mutevole sensazione del tempo che scorre inesorabile e la consapevolezza che “il mondo non distingue tra un tipo di dolore e l’altro. È la tentazione di credere che sia così a tenerci incatenati”. È  il motivo per cui le short story di Joy Williams sono pervase da “una squisita sensazione di irrequietezza”, come capita alla protagonista di Diritto di visita. Una condizione determinata dal termine delle stagioni, dallo sfumare dell’infanzia e dell’adolescenza o da una transizione, spesso violenta e repentina, che porta le vite dei protagonisti ad arenarsi, come balene sulle spiagge. Gradualmente, i meccanismi abituali di Joy Williams risalgono in superficie e si notano nello scorrere dei nomi, nei gesti, nelle case e degli ambienti, mentre tutto intorno le cose prendono pieghe impreviste, si spezzano o semplicemente si consumano. Lo stile è fatto di brevi frasi che scattano a raffica, passando dalla prima alla terza persona, senza distinzione nel tono, che resta secco e incisivo, e non disperde una parola che sia una. Con un gusto un po’ da voyeur, Joy Williams intercetta frasi e dialoghi per strada con un orecchio allenato, ma le colloca in una dimensione speciale, descritta così in Ossa di balena: “Esiste un certo tipo di conversazione che si sente solo da ubriachi ed è come un sogno, impregnato di umorismo, senso di minaccia e valore, un valore profondo. Ed è diverso anche il modo in cui si assiste a qualcosa, da ubriachi. È come indossare una maschera da sub, infilare la testa sott’acqua e osservare cosa c’è sul fondo, il cuore confuso e innocente delle cose”. L’ospite d’onore lascia sentire le voci intrappolate “in un mondo di caos e sentimenti contrastanti” (Il matrimonio), arrivando a considerare il fatto che “forse la comprensione era più importante dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri delle proprie capacità”. Con l’amara certezza, come succede in Chimica invernale, che “l’amore poteva avere molti inizi, ma una sola fine. Qualcuno era destinato a farsi male”. Nell’insieme L’ospite d’onore condensa l’intera fragilità dei uomini e donne, e quando i personaggi piangono, piangono davvero. Detto questo, Joy Williams mostra tutta una particolare empatia per loro, anche se non gli risparmia nulla: “bevono troppo”, sono ipersensibili, spesso indifesi o semplicemente sconfitti. Eppure in ogni singola storia si può trovare uno scampolo di umanità, una piccola scintilla, non fosse altro che una felicità “spuntata fuori dal nulla, per caso” (Fughe). Secondo Joy Williams, un racconto è “una superficie chiara con molto disagio sotto” e il mood malinconico comprende alcuni temi ricorrenti che punteggiano L’ospite d’onore in tutti i suoi episodi: il legame tra madre e figlia e i rapporti coppia (per qualche motivo i personaggi di Joy Williams procedono sempre a due a due), gli aspetti surreali, notturni e onirici (L’escursione, Congresso o Lu-lu, quasi una sequenza di un film di David Lynch), l’onnipresente oceano sul versante atlantico  (“Non vedevamo il mare, ma eravamo consapevoli della sua presenza perché ovviamente era tutto intorno”) e il dolore in tutte le sue declinazioni, a partire da perdite tragiche e irrimediabili (Marabù). I racconti di Joy Williams hanno qualcosa di speciale, pur non avendo niente di particolare: sarà il taglio delle storie (che non fanno sconti a nessuno), saranno i dialoghi o le parole che assumono “la forma di animali pazienti, minacciosi” o quella luce crepuscolare che li sottolinea, ma alla fin fine con il mare, la madre, la notte, la morte bisogna tornare ancora all’illuminazione di Harold Bloom, che concentra tutta la letteratura americana in questi quattro elementi. Per Joy Williams sono una costante matematica e così è vero che L’ospite d’onore (un libro prezioso) contiene “la quintessenza del racconto americano”, parola di Don DeLillo.

venerdì 19 novembre 2021

John Irving

La storia dell’amicizia tra John Wheelwright e Owen Meany si dipana tra il 1953 e 1987, con un continuo saltare attraverso gli anni, perché “la memoria è un mostro: tu dimentichi, essa no. Archivia le cose, ecco tutto. Le conserva per te, o te le nasconde, e le richiama, per fartele ricordare, a sua volontà. Credi di avere una memoria. Ma è la memoria che ha te”. Il presupposto, “brillante ma assurdo” è che Owen Meany, minuscolo rappresentante di una famiglia di cavatori di granito (un dettaglio da non dimenticare, fino in fondo), con una voce altisonante (parla in maiuscolo), con un colpo sfortunato inferto a una palla da baseball uccide la madre di John Wheelwright. Tutto Preghiera per un amico è un gioco a incastri dove, aneddoto dopo aneddoto,   dilaga un mondo di personaggi in ebollizione. Owen Meany è l’outsider per eccellenza, fuori misura, fuori posto, eccessivo, da un certo punto di vista coerente alla storia, ma assolutamente eccentrico nello sviluppo, dove scortica la rappresentazione di Canto di Natale, si scontra con le autorità del college (viene espulso per via delle sue cartoline precetto false, utili per farsi servire da bere), si arruola nell’esercito dove sogna la data e circostanze precise della propria morte. Roba sufficiente per tre romanzi. Sullo sfondo, la società americana è proiettata con somma e irriverente ironia su uno schermo credibile nel conflitto con tutte l’autorità delle scolastiche ed ecclesiastiche e, infine, militari. Va da sé che, una dopo l’altra, vengono messe alla berlina. Come una voce della coscienza incontrollabile, Owen Meany ha comunque le parole giuste e il legame con John è un rapporto che va oltre il tempo e l’amicizia. Insieme scoprono il passato misterioso della madre e vivono gli “anni vietnamiti”, un’epoca di divisioni e fratture per tutti, anche per loro. Mentre John Wheelwright si trasferisce in Canada per proseguire gli studi e diventare a sua volta professore di lettere, Owen Meany si arruola con l’intenzione di andare a combattere in Vietnam. Prende forma così una storia americana parallela, con l’aggiornamento quotidiano delle truppe inviate e dei caduti tornati in un sacco di plastica, con il ruolo via via più invadente e determinante della televisione che John Irving non teme di segnalare più volte: “È quando ti fa assistere al massacro di eroi nel pieno del loro fulgore, a una strage di innocenti, che la televisione assurge alla sua deplorevole grandezza”. In quei frangenti, all’interno dell’amicizia di John e Owen si inserisce anche Hester a rappresentare l’altra parte, quella che cantava Four Strong Winds e  coltivava l’idea illusoria di “rifare il mondo” che invece porterà, di nuovo e ancora e ancora agli anni di Reagan, delle guerre spaziali e della proliferazione nucleare e dello scandalo Iran-contras, perché cambiano i tempi ma resta qualcosa che  “è tipico della politica americana: non essere chiaro, sii deciso”. Lo stile sfrenato di John Irving è torrenziale e pare non avere limiti. Di sicuro, non ha alcun timore a compiere balzi senza rete sapendo che “un buon libro è sempre in moto: dal generale al particolare, dalle parti al tutto e viceversa, avanti e indietro”. È proprio quello che succede in Preghiera per un amico dove soggetti inanimati (persino un manichino) valgono quanto le persone e i loro pensieri perché “la logica è relativa” e nella miriade di riferimenti letterari sparsi, da Graham Greene a Robert Frost, passando per Il grande Gatsby e nel continuo infilarsi in digressioni immaginifiche, la scrittura è avvolgente, ipnotica, tanto che la trama (fittissima ed elaborata, si sarà capito) tende spesso a sfuggire. Al contrario il finale, in puro John Irving style, è pirotecnico, per quanto previsto nei minimi dettagli da Owen Meany. E ha ragione Stephen King quando dice che Preghiera per un amico “è una rara creazione dell’universo ormai esausto del romanzo di fine Novecento”. Notevole.

giovedì 4 novembre 2021

Rachel Carson

Lo studio di Rachel Carson risale al 1962 e, anche se alcuni aspetti da allora sono radicalmente cambiati, proprio grazie alla sua pubblicazione, le conclusioni rimangono solidissime e sempre attuali. L’uso delle sostanze chimiche, non soltanto nel campo dell’agricoltura ma in tutto lo spettro della vita umana, è “un problema di ecologia, di correlazione e di interdipendenza”. È l’assunto principale di Primavera silenziosa a cui segue, puntuale e necessaria, la precisazione sulle decisioni che impongono il loro utilizzo e contiene inevitabilmente una critica al potere costituito perché, come spiega Rachel Carson, “tale arbitrio denuncia la temporanea intrusione di un principio autoritario nell’esercizio del potere. Essa tradisce la buona fede di milioni di cittadini, per i quali la bellezza e l’ordine del mondo naturale hanno ancora un significato profondo e inalienabile”. L’analisi è condotta su rigorose basi scientifiche e spesso e volentieri per affrontare Primavera silenziosa bisogna districarsi in un trattato di chimica industriale, tenendo a portata di mano la tavola periodica degli elementi: Rachel Carson è meticolosa nel provare l’incidenza delle sostanze chimiche sulla “natura reale della vita” attraverso l’inquinamento del suolo e delle acque. La terra è il primo fattore a subire le conseguenze dell’uso sistematico di composti chimici, a partire dall’irrorazione degli insetticidi. I danni ambientali, documentati da Primavera silenziosa con atti ed esami provenienti da tutti gli Stati Uniti, rimangono impressionanti, ma è ancora più grave l’incidenza sulla percezione stessa del territorio. Dice infatti Rachel Carson: “Se è vero che la nostra esistenza basata sull’agricoltura dipende dal suolo, non è meno vero che il suolo dipende a sua volta dalle forme viventi, dato che la sua origine e la conservazione della sua reale natura hanno un’intima connessione con la vita delle piante e degli animali. Il suolo, infatti, è stato parzialmente creato dalla vita, e la sua nascita può considerarsi il frutto di una sorprendente interazioni, in epoche remotissime, tra viventi e cose inanimate”. Lo stesso discorso vale per l’acqua: sia nel suo scorrere superficiale che in quello sotterraneo, quando viene avvelenata dai residui chimici si trasforma da fluido vitale nella catena alimentare degli esseri viventi, dal plancton ai mammiferi, a veicolo di morte e distruzione. Qui, la riflessione di Rachel Carson si estende a una considerazione più ampia e approfondita, che merita di essere affrontata per esteso: “Per le sorti del genere umano, ciò che più importa non è la vita dei singoli individui, ma il retaggio genetico, questo vincolo che ci lega al passato e al futuro. Plasmati attraverso millenni di evoluzione, i nostri geni non soltanto fanno di noi quello che siamo, ma racchiudono nella loro minuscola natura ogni prospettiva dell’avvenire, ricca di promesse o gravida di minacce”. La destinazione a cui giunge Primavera silenziosa, partendo dall’abuso delle sostanze chimiche, comprende una paio di considerazioni insindacabili nella complessità della presenza umana sulla terra: 1) “Il controllo della natura è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’età di Neanderthal, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo”; 2) “La vita è un miracolo che va oltre i limiti della comprensione umana ed esige rispetto anche quando ci troviamo costretti a combattere contro di essa”. Diretta conseguenza di questi due postulati, la conclusione di Rachel Carson è in effetti il richiamo a un’assunzione di responsabilità, che non è più rimandabile: “Spetta dunque a noi decidere. Se, dopo aver tanto sopportato, abbiamo finalmente rivendicato il nostro diritto di sapere, e ci siamo accorti allora che ci viene richiesto di affrontare rischi insensati e spaventevoli, perché mai dovremmo dare ancora ascolto a chi ci esorta a cospargere il nostro mondo di veleni chimici? Guardiamoci piuttosto attorno e cerchiamo di vedere se esiste un’altra soluzione”. Per cui più degli slogan e dei proclami servono “migliaia di piccole battaglie destinate a far trionfare il buon senso e la ragionevolezza nel nostro adattamento al mondo che ci circonda”. Impegnativo, ma necessario.

mercoledì 3 novembre 2021

Johnny Cash

Ebreo, fariseo, cittadino romano, sarto e studioso, persecutore e martire, la figura di Paolo alias Saulo di Tarso è ancora oggi discussa dagli esegeti sia per il mutevole contesto, sia per numerosi dettagli storici e biografici. Dal canto suo, Johnny Cash la racconta collocando in una cornice necessariamente semplificata l’occupazione romana, il Sinedrio, e poi Gamaliele, Pietro, Giacomo, Barnaba, Sara e tutta una pletora di personaggi che, nella dimensione del sogno, delle visioni e dei miracoli, corroborano la trasformazione dell’apostolo Paolo. Nella sostanza, la forma è quella di un romanzo storico che Johnny Cash in modo molto pragmatico riesce a trasformare in una ballata districandosi tra tre lingue (ebraico, greco, latino) e estrapolando dalla Bibbia le frasi, i versetti, i salmi che finiscono accanto alle sue parole, senza timori reverenziali e senza soluzione di continuità. Un’operazione di equilibrismo, tra teologia e narrativa, che rende l’interpretazione della conversione di Paolo secondo Johnny Cash quasi un western, almeno nella scenografia e nella descrizione dei paesaggi e delle azioni, che risultano avvincenti. Attorno alla figura di Paolo, che troverà compimento a sua volta con il martirio, scatta un processo di identificazione, in gran parte irrisolto, perché come diceva Johnny Cash nella sua autobiografia: “Avrei voluto avere la sua stessa forza”. Non di meno, Paolo si adatta benissimo alla visione di Johnny Cash che, secondo uno dei biografi più accreditati, Steve Turner, “scriveva del peccato non in modo astratto, ma come qualcosa che aveva conosciuto intimamente”. Anche la storia di Paolo, in fondo, è ispirata dalla ricerca della redenzione, che diventa il leitmotiv inseguito con ostinazione da Johnny Cash. All’inizio della metamorfosi siamo ancora a Gerusalemme ed è nell’affermazione dell’illustre Nicodemo che vanno percepiti i primi segnali: “Questi occhi hanno visto molta morte e, dopo aver riflettuto, devo dire che gli uomini farebbero meglio a smetterla di assumersi la responsabilità di causare la sofferenza e la morte di altri uomini”. Nella ricostruzione di Johnny Cash, Paolo, che all’epoca aveva ancora il suo nome originale, Saulo, si rende complice del martirio di Stefano e il suo eccesso di zelo nel condannare e perseguire le comunità protocristiane, ovvero “i seguaci del nazareno”, lo conduce verso Damasco. Sulla strada, in una scena raccontata da Johnny Cash senza fare economia di effetti speciali, giunge, come è noto, la proverbiale conversione in un tripudio di luce, da cui discende anche il titolo, L’uomo in bianco. Nella fede, ecco, c’è il comune afflato verso gli ultimi: come diceva nella prima lettera ai Corinzi “siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. È una condizione familiare per Johnny Cash che riesce a vedere in Paolo un modello: “Era un uomo con una missione precisa, incapace di stare fermo, sempre preso da nuovi progetti, e in questo gli assomiglio molto. Il suo modo di fare è diventato il mio. Mentre sono in viaggio e devo affrontare nuove strade, cerco di fare leva sulla stessa forza che Paolo aveva trovato”. Poi nella costruzione pratica del romanzo, Johnny Cash si concede qualche libertà, che generano piccole sviste, e un paio di situazioni curiose. In un passaggio parla di fare le valigie, un termine che avrebbe senso giusto all’inizio del ventesimo secolo, e in un altro della forza di gravità, che sarebbe stata scoperta soltanto millecinquecento anni dopo, ma come direbbe Sant’Agostino “il tempo non è inoperoso né oziosamente trascorre sui nostri sentimenti e produce nell’animo meravigliosi effetti”. Interessante.

giovedì 21 ottobre 2021

Larry McMurtry

Il matrimonio è un’incombenza sociale. Gli uomini sono tutti transitori. Le crisi di nervi sono all’ordine del giorno e l’amore è la grande incognita di Voglia di tenerezza: ne sono tutti alla ricerca, ma seguono le strade e le tracce sbagliate. Il desiderio, l’attrazione, persino la conoscenza e l’amichevole compagnia di anni e anni, non sono sufficienti e ogni gesto torna a ripetersi attorno a goffi tentativi, spesso impetuosi, ma destinati a fallire. Nel complesso, un coro tragicomico composto da una piccola folla costretta a rilanciare un bluff che ha pochissime speranze. È un’incapacità latente e diffusa, solo Aurora Greenway riesce a nasconderla dietro a una maschera brillante e mutevole come il suo umore e grazie alla laconica certezza per cui “lo scopo della civiltà è procurarsi qualcuno con cui bere il tè alla fine di una serata”. Per quanto insopportabile, Aurora celebra quell’energia che spinge uomini e donne innamorati alle catastrofi. Vedova, volubile, con una mezza dozzina di pretendenti, Aurora conserva un Klee e un Renoir, ed è una forza catalizzatrice e magnetica che attrae e respinge nello stesso tempo, con la convinzione che “la vita era ancora interessante, ed era meglio di niente”. È perennemente al centro dell’attenzione (e anche dell’azione): tutti ruotano intorno a lei, ma con molti margini di deviazione. Quando lei attrae qualcuno, e succede spesso e volentieri, le posizioni degli altri personaggi convergono insieme verso un nucleo di forze indefinite. Nei passaggi in cui Aurora si adombra e si ritrae in un angolo, le relazioni e le connessioni deflagrano e Voglia di tenerezza ha momenti rocamboleschi, come l’irruzione di Royce Dunlup, il marito di Rosie, la storica governante di fiducia, in una sala da ballo o il suo accoltellamento, ma il più delle volte si snoda attorno ai dialoghi sferzanti, in cui s’impone il tono di Aurora Greenway. L’eloquio è capace di mettere in soggezione l’intera Houston, Texas: le sue frasi fatte, le battute lapidarie, i silenzi, sono espressione di un carattere inafferrabile, ma ricco nelle sue formalità, che le permettono di saltare letteralmente fuori dalle pagine e avvinghiare il lettore. In questo c’è molto dell’arte sopraffina di Larry McMurtry che fa vivere i personaggi, le loro identità, le voci e i tic con una scrittura ricca ed essenziale nello stesso tempo. Non c’è alcun spreco di parole o immagini: i dialoghi sono fittissimi, senza esclusioni di colpi e sono frutto di un’abilità nel ricondurli nei limiti del racconto che è straordinaria, come se fosse possibile vedere i protagonisti muoversi al rallentatore, mentre camminano sull’orlo del precipizio. Succede nella frattura tra Royce Dunlup e Rosie, una liaison coniugale tormentata e pericolosa che scorre parallela, e soprattutto nel rapporto tra Aurora e la figlia Emma. Un confronto portato all’ennesima potenza, dalla scena in cui lei dice alla madre che è rimasta incinta all’ultimo colpo di coda del romanzo, quasi un’altra storia che sfugge al personaggio principale di Aurora, ma nello stesso tempo la celebra per l’ennesima volta. Mentre Emma diventa a sua volta protagonista, nella sfumatura finale di Voglia di tenerezza, Aurora si trasforma, ma resta ancora sulla linea più avanzata dei legami, perché “nessuno vuole una madre rassegnata”. In quegli attimi conclusivi, e dolorosi, Aurora, più di ogni altro, si accorge che “la vita sarebbe andata avanti un altro po’”, lasciandosi alle spalle una lunga scia disordinata di emozioni, catturate alla perfezione da Larry McMurtry.

mercoledì 20 ottobre 2021

Jack Kerouac

 Riuniti in un solo volume, Sulla strada, I sotterranei, I vagabondi del Dharma, Big Sur, Angeli di desolazione compongono, come è evidente, una selezione più che rappresentativa dell’esperienza e del linguaggio di “uno strano solitario folle cattolico mistico”. Manca la poesia, ma nell’insieme si tratta di un quadro sufficiente a riassumere le dimensioni di un classico: leggere Jack Kerouac è comunque una manifestazione di speranza contro “un nuovo tipo di efficienza sinistra”, che via via nel tempo si è fatta sempre più invadente e prepotente, e ogni occasione è buona per ricordarlo. Meritano di essere rispolverate le appendici che, partendo da un frammento di Visioni di Cody, radunano scritture sparse, a formare una sorta di riepilogo che funziona come celebrazione di quel “gruppo festante di nuovi americani invasi dalla gioia” che si immedesimava nei suoni e nelle visioni di Wardell Gray, Lester Young, Dexter Gordon, Willie Jackson, Lennie Tristano e Stan Getz, “il supremo genio jazzistico della Beat Generation”, ma prima e più di tutti, Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Il ripasso comprende La filosofia della Beat Generation proposta da Kerouac come “la visione di una generazione di pazzi hipster illuminati che improvvisamente spuntano e scorrazzano per l’America, seri, curiosi, vagabondi che si spostano ovunque in autostop, straccioni, beati, belli di una nuova aggraziata bruttezza, una visione balenata dall’aver sentito come la parola beat veniva usata per strada in Time Square e nel Village nella notte dei quartieri del centro di altre città nell’America del dopoguerra, beat che significa giù e fuori, ma pieno di un’intensa convinzione”. L’identificazione, o meglio l’apologia, è approfondita e reiterata nelle dissertazioni di Sulle origini di una generazione, dove Kerouac è prodigo di spiegazioni sulla genesi e sulla natura della Beat Generation. A più riprese, vengono riscoperte le radici jazzistiche: “Ad ogni modo gli hipster, la cui musica era il bop, sembravano criminali ma parlavano continuamente delle stesse cose che piacevano a me, lunghe descrizioni di esperienze e visioni personali, intere notti di confessioni piene di quella speranza che era stata messa al bando e repressa dalla guerra, inquietudini, brontolii sordi una nuova anima (la vecchia anima umana di sempre)”. È proprio da lì che hanno attinto quelli che Kerouac chiama “gli eroi sotterranei che avevano finalmente voltato le spalle alla macchina della libertà occidentale e che prendevano droghe, amavano il bop, avevano lampi di genio, sperimentavano il disordine dei sensi, parlavano strano, erano poveri e contenti, profetizzavano uno stile nuovo della cultura americana”. Gli strumenti vanno cercati tra i Fondamenti di prosa spontanea, Credo & tecnica della prosa spontanea e L’inizio del bop che delineano teoria & pratica della Beat Generation che infine Kerouac condensa così: “Come si può fare una cosa del genere nel nostro pazzo mondo moderno di molteplicità e milioni? Praticando un po’ di solitudine, svignandosela da soli ogni tanto per far provvista del tesoro più prezioso che esista: le vibrazioni della sincerità”. Una somma di propositi considerati il più delle volte utopici, ma spesso anche disturbanti come ricorda anche l’Appello scritto al giudice italiano, dettato nei frangenti nel processo per oscenità dedicato a I sotterranei. Nel ricorso al “procuratore generale” firmato il 23 maggio 1963, Kerouac scriveva: “Secondo la mia opinione, che è mia e solo mia, I sotterranei sono un tentativo del sottoscritto di usare la prosa spontanea moderna per scrivere la biografia di qualcun altro in un dato tempo e in una data circostanza nella maniera più completa possibile senza offendere i gusti umanistici, e comunque umani, miei o di chiunque altro, per amore dello svago, ma anche dell’attenzione sofferta e dell’edificazione di qualche lettore seduto accanto al caminetto in una notte d’inverno”. Una beata innocenza che ammaliò anche i giudici, proprio come aveva già convinto mezzo mondo.

mercoledì 13 ottobre 2021

Steven Blush

Premesso che Please Kill Me di Legs McNeil e Gilliam McCain, resta il caposaldo e un giro di boa per chiunque voglia raccontare una rivoluzione musicale, New York Rock di Steven Blush seguendo proprio quell’impronta è una storia orale che ripercorre il suono della città, che è in realtà molti sound diversi, anche se il ritmo del rock’n’roll è la linfa sanguigna che è rimasta più a lungo, nel tempo, e più diffusa nei quartieri. New York è vista contemporaneamente dall’alto e dal basso, come qualcosa di vivo e pulsante, di animalesco, persino, con un fermento che parte dall’evoluzione urbanistica della metropoli, dalle attività immobiliari, ovvero dalla speculazione edilizia e dalla gentrificazione di intere aree e dall’alternarsi dei flussi di abbandono e occupazioni di edifici fatiscenti, decadenza e affitti ridotti, e poi gli interventi perentori delle istituzioni e del mercato a spazzare via tutto. Ma finché è durata, e Steven Blush prende come capolinea la definitiva chiusura del CBGB’s, lo storico locale sulla Bowery dove è successo tutto, ormai nel 2006, nei bassifondi si sono susseguite  ondate musicali che via via hanno portato a galla le singole storie di un’umanità fluttuante, che viveva soprattutto nelle strade, a caccia di un’emozione, una sensazione, un’invenzione. Come un netturbino all’alba del mattino dopo, Steven Blush raccoglie tutto, facendo soltanto un minimo sindacale di cernita: legami e scontri, disturbi e ossessioni, abusi e disastri, canzoni e rumori ed elenca le vite brevi e brucianti di dozzine di rock’n’roll e quelle, altrettanto fulminee, delle tappe del nightclubbing. Ne emerge la cartografia di come una repubblica underground indipendente e autonoma, che assorbe il carattere cosmopolita della città con tutte le tensioni e ha il “vaffanculo facile” come parola d’ordine e strumento di combattimento nelle strade. Come dice lo stesso Steven Blush, New York Rock “è una confluenza di dure realtà urbane, predisposizioni artistiche volubili, auto-promozione e rituali di intossicazione”. Il corollario di morte (per violenza, per droga, per AIDS) che cala un sudario sulla città è riportato fedelmente, e senza censure, ma nulla toglie all’inarrestabile proliferare di musica che ha visto protagoniste declinazioni e deformazioni estreme e radicali, destinate a diventare dei classici moderni. Il ruolo dei Velvet Underground su tutti, per aprire una saga di generazioni nel rapporto biunivoco tra rock’n’roll e arte che ha generato il magnetismo di New York, è irrinunciabile. Forse in New York Rock manca all’appello un approfondimento dei legami in parallelo con le realtà artistiche, peraltro annunciati spesso con i nomi di Andy Warhol, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat. Ma si capisce che il flusso corrisponde più all’istinto che a una ragione storiografica, ed è così che Steven Blush interpreta quel magma che ha cominciato ribollire negli scantinati e nei vicoli: “Il punk si è rapidamente evoluto in un movimento onnicomprensivo per anticonformisti dall’attitudine provocatoria. Un aspetto fondamentale del punk era la sua forte reazione alla fuga dalla realtà diffusa dagli hippie degli anni Settanta. I punk abbracciavano la realtà, catturando l’insolenza della scena glitter nel tentativo di rivitalizzare il rock. Ecco perché i capelli corti, la musica veloce, e il vaffanculo facile si sono rivelati così accattivanti per qualcuno, e una vera minaccia per lo status quo”. Sono i New York Dolls (forse più dei Ramones) a scatenare l’inferno e a sovvertire le regole, costumi compresi, sia secondo Johnny Thunders (“I Dolls hanno dimostrato che non bisogna essere geni della tecnica per suonare rock’n’roll. Tutto dipende da stile, energia e attitudine”) che David Johansen (“Avevamo una visione molto informale del mondo”). Poi non si fanno sconti e la lista dei caduti, il dissolvimento di intere comunità e l’arrivo di una nuova epoca, “da quanto hanno sbiancato Manhattan” (Iggy Pop dixit) rende il lavoro di Steven Blush un documento grezzo, non filtrato, molto prezioso. Come diceva Lydia Lunch: “New York era sporca, violenta, fallita, invasa dalle droghe e ossessionata dal sesso, in una parola, incantevole. Malgrado ciò, ridevamo tutti, perché o ridi o sei morto”. Ecco, questa è New York Rock.

martedì 5 ottobre 2021

Johnny Cash

Con il passare del tempo, si è creata attorno a Johnny Cash un’aura mitologica, frutto di una vita al limite associata all’indiscutibile importanza assunta nella cultura americana, e non. Su molte ricostruzioni è necessario fare un po’ la tara e, in particolare, va detto che l’autobiografia contiene, per ammissione dello stesso Johnny Cash, “leggende e bugie, pazzi e ubriachi, vecchi amici e angeli”, ed è da questa cernita che bisogna partire. Nelle parti iniziali del racconto la voce è forte, scorrevole, perfetta per un senso del narrare informale, come se fosse l’incipit di una lunga ballata. L’infanzia in una famiglia povera, dove condivide il raccolto del cotone e la vita rurale, al punto di riflettere che “la terra non appartiene a noi, siamo noi ad appartenere a lei”, la morte tragica del fratello, il rapporto controverso con il padre, che osteggiava la vocazione, o meglio “il dono” per la musica, costituiscono i momenti più sofferti e intensi. Poi, dall’iniziazione in Germania dove è di stanza come addetto alle trasmissioni, bisogna distinguere un po’ i fatti dalle storie. Uno degli episodi su cui si è formata tutta un’aneddotica è il primato di Johnny Cash nello scoprire la morte di Stalin. Una notizia riportata anche Nick Kent in The Dark Stuff, mentre una delle più credibili biografie, quella di Steve Turner, non la confermava. Come succede spesso, c’è una porzione di verità, perché era davvero lì nel 1953 (in primavera venne trasferito in Italia) ma è enfatizzata perché nel suo lavoro di intercettazione Johnny Cash usava il codice Morse, ma non conosceva il russo, né gli elementi di crittografia per decifrare i messaggi. Resta una certa suggestione, pensarlo al centro di un istante storico della guerra fredda, ma comunque sia le parti più significative sono quelle che riguardano la musica: l’incontro con Sam Phillips, la Sun Records, gli albori del rock’n’roll con Elvis, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, il country vissuto come  una comunità, l’ossessione per il gospel, l’amicizia con Roy Orbison. Johnny Cash è candido ed eccessivo, non nasconde nulla delle dipendenze che hanno distinto gran parte della sua vita, o delle numerose intemperanze, perché “è stato vittima di un’inquietudine cronica e di spinte profondamente autodistruttive”, come scriveva Nick Kent, ed è comunque il protagonista di un’autoritratto credibile. È in compagnia di una danza di fantasmi che lo accompagnano lungo tutto l’arco del racconto, facendo da contorno a “un vero eroe americano” come l’ha descritto Kris Kristofferson. Questo nell’autobiografia traspare in modo molto chiaro, sia quando elenca gli incontri formali con i presidenti (Nixon, Carter, Ford, Reagan), non sempre irreprensibili, sia quando celebra le amicizie più profonde, come nei frangenti spassosi con Faron Young e Waylon Jennings. La struttura è frammentaria, con un equilibrio sostanziale tra momenti drammatici e divertenti che si alternano, ma sempre all’interno di alcuni temi che restano costanti: la musica, la fede, la famiglia. È proprio nella seconda metà che Johnny Cash si dedica a un riconoscimento costante agli incontri e al suo inner circle, a partire dalla moglie per arrivare ai colleghi preferiti fino all’incontro (fondamentale) con Rick Rubin e alla gestazione degli American Recordings. Con il progredire della storia, diventa difficile distinguere la creazione dalla realtà, le ombre e le luci si contendono la scena e il personaggio, ancora una volta, prende il sopravvento lasciando Johnny Cash avvolto in un alone di mistero, che poi rimane il motivo principale del suo inalterato fascino.

mercoledì 22 settembre 2021

Richard Lange

La desolazione del paesaggio umano di Richard Lange è quella già vista in molta letteratura americana e ormai costituisce una sorta di standard, o almeno una cornice che si riconosce subito, fin dalle prime battute nei racconti di Come morti. Un’atmosfera sfuggente, friabile, che si sbriciola nel sapore del fumo degli incendi incendi californiani, nella polvere delle strade che portano in Messico, nella limitata igiene dei motel da quattro soldi, dove la noia è in agguato. I racconti di Richard Lange sono amari, a tratti visionari e onirici, ma collimano con i “contorni minacciosi” del mondo che per gli outsider rappresentano i confini di una gabbia e di una decadenza bella “come uno specchio rotto”. Come morti è popolato da disperati, inconcludenti, illusi e confusi, gente con la tendenza alla fuga, e a sparire, tanto che uno di loro ammette: “È come se fossimo finiti fuori asse”. Sullo sfondo, su uno schermo al contrario, le luci di Los Angeles vengono scambiate per stelle e Hollywood è arsa e disperata, un pulviscolo di false partenze e film di serie b. Richard Lange somma tutto con una scrittura stringente, dura e aspra che non lascia nessun spiraglio: le emozioni sono sfregiate e le ossessioni, le piccole ossessioni che non lasciano scampo, ricordano ogni volta che “qui è sempre buio”, e Ogni bellezza è lontana, proprio come recita il titolo dell’omonimo racconto, definizione che si estende a tutte le short story di Come morti. È una disgregazione continua e il danno è già compiuto. Non c’è la seconda chance prevista per gli americani e ci sono tutti i tranelli della vita, tutte le trappole che scattano come tagliole, e che spesso (se non sempre) i personaggi si infliggono da soli. La frammentazione delle relazioni, i confronti famigliari ridotti all’osso, se non proprio inutili o dannosi, generano un tempo sospeso in cui tutto può succedere, compresa l’esplosione della violenza (in Prevenzione perdite: una rapina disastrosa con la colonna sonora di Neil Young e con special guest: Scarlett Johansson) o che la fuga finisca a casa della mamma (succede in Ritratto di eroe) perché poi lì “ti risollevi e vai avanti. Tutto qui. Per l’ennesima volta”. È l’eccezione che conferma la regola, perché se “a volte la felicità ti sorprende come una canzone portata dal vento”, ci sono momenti di una tristezza infinita e lacerante come in Perso di vista, un “canto di Natale” in cui va tutto a rotoli, come se non ci fosse una rete di salvataggio, o con La difesa-bogo indiana, dove un’urna funeraria viene rubata e sostituita con i resti di un barbecue. Va da sé che il protagonista del racconto “sapeva sempre qual era la cosa giusta da fare o da dire, ma solo perché nella vita aveva commesso un sacco di errori”. La tensione è costante e consuma le storie, anche quando una specie di lieto fine sembra apparire all’orizzonte. Succede in Banca d’America, un racconto costruito attorno a un gruppo di rapinatori dilettanti, che hanno una doppia vita, e sono pure fortunati, al punto che uno di loro dice: “Sembrerà una storia pazzesca sentita in giro, più che una parte della mia vita”. La linea di partenza, si capisce, è Carver, ma gli sviluppi sono più articolati e i dettagli più diluiti: i personaggi sembrano parlare ad alta voce, come quel tizio in Uccello-telefono, che riesce a sostenere che “Prima le cose mi succedevano, adesso invece sono io a decidere quando succedono”, o quell’altro in Prodotti realizzati da non vedenti che dichiara così la sua resa: “Ho tirato avanti. Ho lasciato passare gli anni. E adesso sto bene”. Ma siamo all’apice della rassegnazione: intorno c’è solo il deserto, la birra e il whisky al bancone di un bar, un’auto (a noleggio e in riserva) e un’idea fugace dell’amore, impalpabile come il crepuscolo ai limiti della civiltà occidentale.

Charles Wright

Il mare (“Il peso del mare uccide: te lo porti dietro per sempre. Spostalo, smistalo; te lo porti dietro, madre blu, per sempre”), la terra (“La terra è saliva, ciò che s’attacca come colla fresca. È per camminarci, è per distendersi, un lenzuolo sicuro per la risurrezione. La terra è quel che viene dopo di te, seguendo i tuoi passi, contandoti i denti, padre e figlio, padre e figlio del figlio, un coltello, un seme, piantati profondi quanto basta”), la luce (“La luce dalle stelle fa l’ombra uguale al corpo, la luce dal fuoco la fa più grande, là, sotto la parola”), l’incerto destino (“La polvere, com’è certo, risorge, allora risorgeremo, e ci raduneremo nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, una cascata nella cascata del mondo”) e un’intera visione viene ricondotta nei versi di Breve storia dell’ombra, un’accurata ed estesa antologia che racchiude tutta l’esperienza poetica di Charles Wright, comprendendo mezzo secolo di versi, dal 1975 a oggi. Una tensione costante verso il sublime, rintracciato e osservato con assiduità nella natura, cercando con convinzione di dimostrare che “in tutta la bellezza c’è qualcosa d’inumano, qualcosa che non si può sapere: nel nerbo e nel midollo d’ogni radice, d’ogni fiore; nella vena di sangue d’ogni roccia; nel polmone nero d’ogni nuvola, il seme, il seme infinitesimale che ti condanna, che ti rende un nulla, si nutre dei suoi confini e cresce”. Gli estremi richiamati con insistenza sono Dante e William Blake, maestri indiscutibili di ombre e guadi: Charles Wright deve aver pensato proprio a loro quando ha scritto che “il mondo è un libro magico, e noi le sue frasi. Lo leggiamo e leggiamo noi stessi. Si chiude, si volta pagina e non si torna indietro, restituiti a ciò che eravamo un tempo prima di diventare ciò che siamo. Ecco la storia che racconta il mondo, ecco come finisce”. La forma della poesia di Charles Wright è costante, un segmento che si ripropone lungo una linea precisa, senza sbavature, senza deviazioni: ineccepibile nell’enunciazione, ma i temi sono salti sorprendenti dalla descrizione della wilderness all’introspezione fino alla levigatura maniacale dei dettagli. Un metodo svelato in una poesia notturna dato che, “come la memoria, la notte è gentile con noi, cancella gli inutili dettagli”. Lo stupore è facile, perché “ogni parola, come uno scrisse una volta, contiene l’universo”. E c’è qualcosa di aulico, metafisico nelle poesie collezionate in Breve storia dell’ombra, un rapporto intimo, viscerale con le parole, eppure un modo distaccato, a volte persino leggiadro di affrontarle con uno stile rigoroso nella metrica, eppure fluido e sorprendente dato che, come dice il poeta, “anche se le situazioni e i concetti sono ampi, spero che le divagazioni portino nei pressi di casa”. L’indirizzo resta sconosciuto perché “ognuno è il suo inizio; ognuno, in sé, una fine” e alla fine anche Charles Wright diventa a sua volta un traghettatore che mostra la direzione, con un’indicazione sibillina, senza svelarla: “Cercateci presto sull’altra sponda dove la strada smotta, svoltano nella città invisibile”. In mezzo ci sono enormi silenzi, una componente irrinunciabile nelle allegorie di Charles Wright che, come ammette in Figliastri del Paradiso: “Con o senza lingua, c’è sempre spazio per un’altra vita. Abbiamo scaricato questa in un’incertezza inquieta, facendo un po’ di questo e un po’ di quello, mentre il tempo, disfattore vero, ci erode la punta delle dita, lasciandoci la memoria e la sua mossa finale, carta del cielo sfocata nella luce nera”. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, non sono molti i poeti che vantano questa artigianale raffinatezza nel lavorare le parole, e sono ancora più rari quelli che l’hanno fatto con la discrezione e l’umiltà di Charles Wright che in Riunione confessa: “Scrivo poesie per liberarmi, far penitenza e sparire dall’angolo alto a destra delle cose, per rendere grazie”. Un grande poeta, un libro prezioso.

martedì 7 settembre 2021

Barry Lopez

I capodogli spiaggiati e le reazioni della gente e delle istituzioni, le migrazioni degli uccelli, il deserto e il ghiaccio, i tori e i cowboy: lucidissimo osservatore, Barry Lopez tiene un filo perfettamente riconoscibile nel labirinto del paesaggio americano. Il suo “considerare ogni elemento del paesaggio, un canyon, una vita, un canto, come foriero di possibilità” è un lavoro di tessitura che cerca con costanza di “familiarizzare con l’ambiente”, perché è proprio lì che “talvolta basta concedersi di indugiare su colline e rive di fiumi senza pretese per sentire il cuore sazio di ciò che a lungo ha bramato”. Anche in condizioni estreme riesce a cogliere e a raccontare con precisione le connessioni dell’essere umano con il territorio, con la flora e la fauna: Barry Lopez è un narratore acuto e scrupoloso: consapevole che “ogni singola argomentazione in favore della difesa degli spazi incontaminati è tener conto del peso che questi ultimi possono avere nell’imprimere una direzione alla vita umana”, focalizza una splendida simbiosi tra passione e rigore, come quando nota “un’esplosione di fotoni che sprigiona nell’aria un tripudio di colore, giallo zafferano e ocra, rosa albicocca, rosso di robbia, verde perlaceo e grigio verde, rame, ambra e terracotta”. Le sue analisi del paesaggio sono mappe dettagliate e precise, ma anche visioni, ascolti, percezioni dettati dalle emozioni e nello stesso tempo dalla consapevolezza che “siamo capaci di riconoscere la bellezza di uno stormo di oche delle nevi che si staglia contro un cielo in tempesta così come riconosciamo la bellezza di una suite di violoncello; e da questo, a mio parere, si fa presto ad arguire che, se lasciamo che spettacoli simili vengano violati o distrutti per ragioni economiche o più frivole ancora, ne usciremo tutti profondamente e irrimediabilmente impoveriti”. Questo perché, seguendolo Attraverso spazi aperti, si incontra la distinzione (e la comunione) tra un “paesaggio esteriore” e un “paesaggio interiore”, dove “il paesaggio interiore risponde alla qualità e alla complessità di un paesaggio esteriore; la forma della mente è plasmata dalla collocazione geografica dell’individuo tanto quanto lo è dai geni”. È un equilibrio fondamentale e Barry Lopez tiene a precisare che “oltre a questo, al fatto che il paesaggio interiore è una rappresentazione metaforica di quello esteriore, che la verità si rivela più pienamente non nel dogma ma nel paradosso, nell’ironia e nelle contraddizioni che caratterizzano le storie migliori, oltre a questo c’è solo il fallimento dell’immaginazione: nel campo scientifico il riduzionismo, in quello religioso il fondamentalismo, il quello politico il fascismo”. Lo stato di precarietà del visitatore, l’empatia per la natura e la terra tout court, smuove quel  “sentimento per eccellenza che gli spazi aperti sono capaci di suscitare, questo sentirsi parte di un sistema di relazioni complesse che non ruotano intorno all’uomo, può essere inebriante quanto superare una serie di rapide particolarmente difficili. A volte le due cose coincidono addirittura”. In questo, Attraverso spazi aperti celebra “il potere della narrazione di nutrire e guarire, di lenire le pene dello spirito, si fonda su due aspetti: l’abile evocazione di fonti attendibili e la consapevolezza, in chi ascolta, dell’assenza di ipocrisia e inganno nel racconto”. Tradotto nell’afflato di Barry Lopez per il paesaggio (interiore ed esteriore) questo vuole dire “vivere la vita, qualunque vita, implica una sofferenza grande, intima, che perlopiù taciamo. In luoghi come l’Inner George questa sofferenza ci scivola via dalle dita. Lì non regna un silenzio reale, né si è così lontani dal tutto, da riuscire a sentirsi pensare; quello viene dopo. Prima senti il cuore che batte. Prima senti la vita”. Dopo aver letto Barry Lopez, si esce di casa e si vede il mondo in un modo diverso.

venerdì 20 agosto 2021

Colum McCann

Come ricorda Colum McCann “Borges scrisse che bastano due specchi l’uno di fronte all’altro per formare un labirinto”, ed è proprio così che Apeirogon nasce da una spirale sterminata di sofferenza, riuscendo comunque, nonostante tutto, a risparmiare un alito di speranza. Non è poco, e comincia dall’incontro tra Bassam Aramin e Rami Elhanan, che hanno perso le rispettive figlie, Abir (per un proiettile di gomma) e Smadar (in un attentato suicida). Dovrebbe essere relativo che Bassam sia palestinese e Rami, israeliano, perché l’atrocità del dolore non conosce confini, ma se il confronto tra i due padri esula dal contesto, nello stesso tempo è la tragedia stessa di quel contesto. Si rivedono uno nell’altro ed è un gioco di rifrazioni ingannevoli, un dedalo morale che si sovrappone alle difficoltà dei loro pellegrinaggi. Per trovarsi, e per parlare, i due protagonisti devono subire le stesse vessazioni: posti di blocco, controlli, sorveglianza continua, ossessiva. Ogni volta le asfissianti procedure si presentano con cieco accanimento, ma poi non è finita perché la loro richiesta di dialogo è vista in modo ambiguo, come se vittime, e padri di vittime del tutto innocenti, dovessero avere le risposte a secoli di faide e caos. La percezione di Colum McCann è insieme una panoramica dall’alto, dove il volo degli uccelli incontra quello dei droni, degli elicotteri, dei missili e di altri oggetti non identificati, e una scrupolosa cernita dei dettagli che trova nella raffinata scrittura la soluzione ideale per ammettere infine: “Chi può dire dove finiscono le cose? Le cose vanno avanti. È così questo mondo. Capite cosa intendo? Non so se riesco a dirvi esattamente quello che intendo. Abbiamo le parole, ma a volte non bastano”. È così: le due voci si attraggono e nello stesso tempo si respingono, per le condizioni in cui si trovano, proprio come poli magnetici, e attorno a loro Colum McCann costruisce un’elaboratissima architettura perché non si può semplificare un problema complesso e forse non lo si può nemmeno spiegare. Per renderlo intellegibile, si lascia trasportare dalle divagazioni e dalle estrapolazioni finché “la storia che si trasfigura in un’altra” svela una struttura che prevede molte deviazioni di percorso, con interazioni che toccano l’ornitologia, le arti figurative e performative, la musica (dai Talking Heads a John Cage) che Colum McCann interpreta e assembla come un mosaico la cui dimensione si intravede soltanto alla fine. La costruzione di Apeirogon è immaginifica e razionale nello stesso tempo: ogni piccola (piccola?) variazione implementa un nuovo moto di direzioni, possibilità, visioni e tutti i sensi sono mobilitati per mostrare la terra divisa e insanguinata. Per poterla attraversare si deve affidare al concetto borgesiano di “irrealtà visibile” ed è lì che Colum McCann incornicia questo flebile, ma necessario tentativo di comunicazione in un viaggio senza meta, a tratti disturbante, che si sviluppa con gradualità, e con insistenza, grazie al ritmo proprio della scrittura e trova una sua continuità come se fosse una trasmissione radiofonica clandestina, in diretta, senza interruzioni. Il senso, in effetti, è un po’ quello: non risolve le fratture, le distanze, ma le colloca sotto una luce diversa cercando di realizzare “una comunità di sentimento” e “una mitologia delle pulsioni”. Apeirogon è “un poligono con un numero infinitamente numerabile di lati” e, per la precisione, “dove l’infinitamente numerabile è la più semplice forma di infinito. Cominciando dallo zero, è possibile ricorrere ai numeri naturali per contare senza sosta, e sebbene tale conteggio possa andare avanti per sempre, è tuttavia possibile raggiungere un qualsiasi punto dell’universo in un lasso di tempo finito”. Il paradosso matematico è la fonte di un lavoro poderoso e insieme fragile perché basta un nonnulla per perdere il filo e ritrovarsi al punto di partenza, disorientati. Ma c’è un’armonia che tiene insieme questo strano libro ed è la certezza che “non finirà finché non parliamo”. Ci vuole del coraggio ad affrontare le divisioni, lo stacco, la spaccatura, l’odio, i muri e le barriere, la violenza quotidiana continua e assurda. E così in un elenco di ipotesi, un romanzo costruito su una storia vera e poi sviluppato come un modello matematico che si espande con una progressione autonoma, Colum McCann, pur con tutta la fallibilità del linguaggio e delle parole, riesce a districarsi in un mondo folle e feroce. È un processo certosino, svolto con cesello e lente di ingrandimento, un puzzle che si rivela passaggio dopo passaggio e più ci si inoltra nel perimetro infinito di Apeirogon, più Borges si rivela la guida, è la voce che emerge cadenzando il racconto di Colum McCann che tocca l’anima della desolazione con un’approssimazione scientifica nel metodo e millimetrica nel dettaglio, che lascia senza fiato. Deve essere stato un sfida scriverlo, almeno quanto leggerlo, perché proprio come diceva Borges in L’artefice: “È strano che ci siano sogni, specchi che il logoro, consueto repertorio d’ogni giorno comprenda l’illusorio orbe profondo ordito dai riflessi”. Apeirogon è un formidabile miraggio, ed è tutto vero.

mercoledì 11 agosto 2021

James Ellroy

Freddy Otash è una conoscenza di lunga data negli inferni hollywoodiani di James Ellroy che, romanzo dopo romanzo, si è guadagnato un posto in prima fila, fino ad assurgere al ruolo di protagonista come già succedeva in Ricatto e come si ripete e si moltiplica nel bis di Panico. Per cui, niente di nuovo sul fronte occidentale: Freddy Otash ordisce trame, intrighi e complotti senza soluzione di continuità. Ha legami e connessioni con l’intera Los Angeles e, come è tradizione nell’area, vive in macchina e la strada è la sua casa. Si nutre di alcol e anfetamine, sguazza nella merda con grandi soddisfazioni e notevoli fallimenti, ma se dice qualcosa, il romanzo di James Ellroy, è che rimane solo una parte irrilevante, un piccolo, infinitesimale ingranaggio di un meccanismo molto più grande, complesso e micidiale. Non invisibile: nell’indefinita rincorsa al potere, la commistione tra politica, fiction e disinformazione che nel corso degli anni ha prodotto veri e propri effetti monstre, e non solo in America, come ben sappiamo. Per dirla con Freddy Otash: “Hollywood ti incula sempre quando nessun altro è disposto a farlo”, e anche questo, bisogna dirlo, è un dato di fatto. Ma Panico va a fondo, all’inizio di tutto, nel ventre della bestia, e James Ellroy, dall’alto della sua posizione cinica, distorta e irrispettosa crea un furibondo frullatore che macina senza pietà e con divertita brutalità miti, leggende, realtà e invenzioni americane. Nel Panico ci finiscono un po’ tutti: James Dean e Rock Hudson, Charlie Parker e Art Pepper, nonché Marlon Brando, ma soprattutto Caryl Chessman in attesa di essere giustiziato, figura attorno alla quale ruotato le ossessioni di Freddy Otash e un po’ tutto il senso della storia. Neanche a dirlo, naturalmente non manca neanche  John (o Jack) Kennedy, qui in versione astro nascente, promettente senatore e vulnerabile animale notturno. Dal 1949 al 1960, Panico è l’ennesima immersione senza via di scampo in una Los Angeles torbida e frenetica, descritta come “una corsia d’ospedale per malattie polmonari” e illuminata dai bagliori dei test nucleari nel deserto: uno sfondo perfetto per un teatro di ricatti e omicidi, di appetiti incontrollabili e decadenza senza fine. Non ci sono colpevoli o innocenti, solo capri espiatori. Indizi, non prove. Segreti, e una pioggia acida di pettegolezzi che allineano avidità, lussuria, e tutti i peccati capitali messi in fila in un’apocalisse di turpitudini, trascritta come se fossero gli appunti per un romanzo, piuttosto che un romanzo vero e proprio. Prendere o lasciare: con sommo piacere e celebrandolo sull’altare del caos, James Ellroy diventa Freddy Otash, “un poliziotto corrotto e un gorilla che usa le maniere forti con troppo passato e nessun futuro da perdere”. L’esecuzione risulta disturbante con quel martellare parossistico di allitterazioni e reiterazioni e con l’assenza (non una novità) di una prosa formalmente compiuta, ma qui è tutto scorretto, sgangherato, deviato e, in breve, davvero caustico. Per fortuna, anche perché con ogni probabilità non esiste un altro modo per raccontare queste storie. Del resto, sia James Ellroy che Freddy Otash convengono nel dire che “noi siamo fedeli alla nostra merda”, e Hollywood nel Panico è una fogna a cielo aperto, ma resta ancora il più grande sogno di tutti e di sempre.

lunedì 9 agosto 2021

Jordan Farmer

L’essere umano è costituito in larga parte di acqua, anche quando deve condividere le deformità del corpo, come succede a Hollis Bragg, songwriter talentuoso e tormentato e ritiratosi a vita privata, ben sapendo che “la musica è l’unica forma d’arte che ti permette di nasconderti”. Di motivi per rifugiarsi nell’anonimato ne ha parecchi: un’infanzia permeata dalla figura funesta del padre, un ambiguo predicatore e il legame con Angela Carver, interprete delle sue canzoni e per un breve quarto d’ora, compagna nel successo. Le loro storie sono come placche tettoniche che muovendosi un flashback dopo l’altro, generano quel particolare attrito che muove Un diluvio di veleno con un ritmo sincopato e rocambolesco che tocca una realtà ineluttabile e la marchia di rosso. Hollis Bragg è testimone involontario dello scempio compiuto a Coopersville, dove le falde acquifere sono state intossicate da un gravissima perdita di sostanze chimiche. La Virginia occidentale è un territorio particolarmente bersagliato dai veleni, come già è stato ben illustrato in Dark Waters, il film based on a true story di Todd Haynes che  raccontava l’inquinamento da acido perfluoroottanoico rilasciato dalla DuPont. Quello che succede con Un diluvio di veleno non è dissimile, solo che invece delle aule dei tribunali, a Coopersville si passa alle vie di fatto e una strana rock’n’roll truccata da film horror, decide di punire il responsabile del disastro ecologico. Suo malgrado, Hollis Bragg viene coinvolto nell’esecuzione del complotto, che sovrappone (almeno) tre piani simbolici. Le maschere dei giustizieri vanno consumandosi mentre la violenza, che è l’elemento più tossico, prende il sopravvento. I conflitti con i padri, che assillano un po’ tutti i personaggi, svelano un senso del tempo sfuggente, che le devastazioni della terra ormai segnano come un conto alla rovescia irreversibile. Infine, il guado ripetuto più e più volte verso casa, è per Hollis Bragg un sorta di ordalia verso la salvezza che è rappresentata dalla musica. È l’elemento che compensa e mitiga le sferzate ballardiane di Jordan Farmer, che lascia ammettere al suo songwriter preferito che “le vere canzoni, quelle che si impiantano nel profondo di ognuno di noi, sono quelle che ci sembra di conoscere da sempre. Sono diverse l’una dall’altra eppure danno istintivamente conforto come la voce di una madre”. È proprio lì che va cercato il senso di Un diluvio di veleno, quando Hollis Bragg dice: “nella mia immaginazione, l’uomo sta suonando per il bambino la stessa canzone che usava cantare a una donna quando gli alberi germogliavano in primavera, quando le stagioni come la primavera esistevano ancora e c’erano ancora i prati verdi su cui sdraiarsi”, è inevitabile tornare a ricordare quello che Rachel Carson scriveva in Primavera silenziosa: “L’acqua va anche considerata dal punto di vista di tutta quella catena di esseri viventi che da essa trae nutrimento, dal pulviscolo di verdi cellule noto come il nome di fitoplancton alle minuscole dafnie ed ai pesci che filtrano il plancton per il loro nutrimento e sono a loro volta divorati da pesci più grossi, o da uccelli e procioni, e si snoda in un ciclo continuo di dare ed avere da un individuo ad un altro. Sappiamo che i minerali presenti nell’acqua passano attraverso tutta la catena alimentare. Come non pensare che le sostanze nocive immesse nell’acqua entrino in gioco anche in questi cicli naturali?”. È quello che lascia intendere Un diluvio di veleno: è una civiltà morente quella che uccide i fiumi.

mercoledì 14 luglio 2021

Jennifer Pashley

Siamo a Spring Falls, nello stato di New York, dove tutti sanno tutto di tutti ed è impossibile fuggire agli sguardi. Il clima è impervio, l’inverno dura per tre quarti dell’anno, i boschi si estendono inestricabili, la speculazione edilizia è in agguato, gli outsider vagano immersi in un’atmosfera densa di antidolorifici e alcol, o si nascondo ai margini, nelle ombre. Questo è il milieu dell’America suburbana e Kateri Fisher ci arriva da Syracuse, dopo un brutto incidente, che le ha lasciato cicatrici profonde, e non solo sulla pelle. È un’agente di polizia, una donna sola, come sono sole tutte le donne che popolano Gli osservati. È sola Pearl Jenkins, che è sopravvissuta all’incendio della sua casa con il figlio Shannon. Il marito, Park, è in carcere per averlo appiccato, e così ha voluto la giustizia dello stato. Pearl ha avuto un’altra figlia, Sparrow Annie Jenkins alias Birdie, ma la tiene nascosta, e ha i suoi motivi per farlo. Ci sono traumi che è meglio evitare e, per tenere insieme la famiglia, dice Shannon “ci accettavamo a vicenda per quello che eravamo e non facevamo domande”. Il caso che deve affrontare Kateri matura proprio dentro quei silenzi: Pearl scompare, la casa è imbrattata di sangue, Birdie viene scoperta in uno ripostiglio. È solo l’inizio di una storia labirintica, dove tutto ruota attorno a un pugno di personaggi che, nelle singole solitudini, si riflettono uno nell’altro, una nell’altra. Così l’ambiguo Bear Miller, che gestisce le attività immobiliari della madre e ha intravisto un’obiettivo nei terreni di Spring Falls, trova un corrispettivo in Shannon. In altri modi, Kateri deve confrontarsi con il collega, Hurt (e anche i nomi nascondono e/o rivelano un ulteriore percorso che si snoda attraverso Gli osservati) per districarsi in una coltre di desolante freddezza condita da rabbia, rifiuti, abbandoni, violenze. Jennifer Pashley non molla la presa nemmeno per sbaglio, il ritmo è serrato e i dialoghi sono frustate, ma sullo sfondo c’è il contrasto, ed è sempre più nitido nell’inoltrarsi del romanzo, tra l’America dei Miller e dei loro avvocati, una versione più edulcorata e appariscente dei predatori nelle foreste e quella dei Jenkins, che cerca di tirare avanti ai limiti della sussistenza. L’attrito è inevitabile perché i desideri e le speranze, le ambizioni e i sogni sono destinati a incrociarsi, ma non hanno una terre comune da condividere. È proprio lì che Kateri e Hurt devono intervenire, cercando di dipanare una matassa di dubbi, provando a cogliere l’innocenza nascosta nell’oscurità, provando a non farsi sorprendere dai segreti occultati negli angoli di famiglie traballanti di “poveri bianchi del cazzo”. La trama del thriller è seguita da Jennifer Pashley con una discrezionalità particolare: gli elementi classici sono tutti al loro posto, ma interpreti e ruoli, nello specifico (e semplificando) vittime e carnefici, sono intercambiabili ed è questo che genera l’incalzante sequenza di sorprese che Gli osservati riserva fino al finale. Nel complesso, Kateri Fisher ha il ruolo dell’anfitrione ed essendo un personaggio che, nelle sue sofferenze, riesce a condensare un po’ tutti gli altri, è facile intuire che potrebbe essere soltanto un primo episodio di una (si spera) lunga serie. Ma è anche il simbolo di un’America disorientata, di fronte a divisioni sempre più radicali e brutali, che Jennifer Pashley sa intravedere e poi manifestare, senza un accenno di moralismo, solo mostrando attraverso un linguaggio aspro, martellante eppure congruente, i limiti estremi di una civiltà ossessionata dal successo non meno che dal fallimento.