La vita lungo il fiume scorre tranquilla per la borghesia californiana, erede dei pionieri e proprietaria terriera. Tormentati dalla noia, dai rimpianti, dalle istituzioni (famiglia, governo, esercito, chiesa, sindacati, stampa) dall’incombere della seconda guerra mondiale, uomini e donne di una generazione in “uno stato di crisi privo di una ragione precisa”, bevono (in continuazione) sherry, vermouth, bourbon mentre coltivano i loro piccoli e grandi drammi esistenziali, che vanno dall’impellente necessità di godersi l’alcol (“Per tutte le delizie mortali. Ora vediamo se rimediamo un drink prima di pranzo. Forse hai bisogno di fartene uno. Forse anche due”) all’omicidio. Anche se Joan Didion nel progredire di Run River lascia intravedere spesso e volentieri “uno squarcio nel tessuto sociale”, con la trasformazione della California da terra promessa per tutti a paradiso e inferno della speculazione edilizia, la sua osservazione è rivolta con ossessiva attenzione alla parallela evoluzione di un generale e incontrollabile desiderio, spesso fine a se stesso, fino a un esaurimento nervoso collettivo. È il sogno del West incrinato da un’aria di decadenza morbosa, come se le regole stessero svanendo insieme a un vecchio mondo, ovvero “un impero effimero, bisognoso di continuo controllo, di manovre a ogni frazione di secondo”, e questo riguarda in particolare i fragilissimi esseri umani che lo popolano. Lily, la ragazza con la spilla da balia negli occhiali, è senza dubbio il centro della gravità, ma spesso Joan Didion sposta il peso del groviglio di storie sul marito Everett passando quindi al setaccio non solo le dinamiche marito/moglie, ma anche quelle fratello/sorella, genitore/figlio e amico/amante. Gli incontri (e gli scontri) sono un po’ a geometria variabile ma tendono a ripetersi e Joan Didion si concentra su ogni scena (che poi è un cocktail, un party o un brindisi solitario) con la stessa, premurosa considerazione. L’effetto è un po’ straniante: Run River pare soltanto una lunga teoria di appuntamenti perché, nonostante i vincoli, sono estranei gli uni agli altri e la finzione, per sopportarsi nel “fronte domestico”, è all’ordine del giorno. Sia che si tratti dei preparativi per la festa di nozze (e nessuno da invitare) o di essere richiamati nell’esercito, quello che condividono è soprattutto un mood malinconico, “snervante” per le assenze e per le ingombranti presenze. È un teatro amaro, costruito su “un’improvvisazione basata su una battuta d’entrata che un giorno non avrebbe sentito, su caratterizzazioni che poteva dimenticare in ogni momento” dove il “il sorriso più che altro è un tic” e tradimenti, fughe, scenate e riconciliazioni si susseguono senza sosta finché tutti insieme non collimano in “un’unica caduta di stile”. La tragedia della decadenza non si può dissimulare e Joan Didion ha, già all’esordio, la straordinaria capacità di rendere “un vuoto che neutralizzava qualsiasi apertura, ovattava le voci, dissolveva le connessioni”. Certi arabeschi, con un’insistenza maniacale nella ricerca del tono giusto, l’abbondanza delle parentesi e delle reiterazioni che Joan Didion in seguito avrebbe limato e raffinato, e basta pensare per esempio a Democracy, non tolgono nulla a Run River che, con “una piacevole sensazione di discreta licenziosità”, racconta bellezza e tormento californiani, dove la famosa seconda chance non è prevista. L’influenza di Fitzgerald, neanche tanto nascosta (un indizio palese è che un antenato di Everett si chiama Francis Scott), e il richiamo a Čechov delimitano il perimetro in cui è nato Run River, l’inizio di una grande carriera.
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