venerdì 7 novembre 2025

Joan Didion

È molto difficile orientarsi tra i miraggi posticci di Hollywood e Las Vegas, i due poli che definiscono l’ambito territoriale di Prendila così, romanzo di Joan Didion del 1970, diventato un film un paio d’anni dopo. L’insostenibile leggerezza della fiction, che tende a sbriciolare le distanze tra le chiacchiere, i sogni e la realtà, ha un prezzo piuttosto alto da pagare. La confusione di ruoli, percezioni, momenti e legami, alimentata da un flusso senza fine di additivi, richiede una sorta di aderenza totale e insindacabile verso un lifestyle sopra le righe, spumeggiante e allegro in superficie, pericoloso e inesorabile nella sua essenza. Maria Wyeth lo ha assecondato fin dove ha potuto per poi capitolare: attrice e moglie di un regista, si è vista caracollare da un party all’altro, sentendosi via via sempre più estranea a tutti e persino a se stessa perché “non sapeva che cos’era che temeva, ma era qualcosa che aveva a che fare con scatole di sardine vuote nell’acquaio, bottiglie di vermouth nel cestino dei rifiuti, una sciatteria irrimediabile”. Joan Didion è irraggiungibile nel delegare a una processione di singoli dettagli il deterioramento psicologico di Maria che subisce un aborto, il divorzio e l’impossibilità di avvicinarsi alla figlia, Kate. Il tracollo è nell’aria: agenti, amici, amanti, colleghi si confondono nelle notti californiane, ogni tentativo di restare aggrappata a uno scampolo di identità viene frullato nei dialoghi evanescenti al telefono e arriva al capolinea in squallide camere di motel. Quando Maria si accorge “dell’irrevocabilità di ciò che sembrava essere ormai accaduto”, attorno le rimane soltanto il deserto, e non soltanto in senso metaforico. Il capolinea è un set nel Mojave, dove la polvere, il calore e la luce accecante sono un confine invalicabile per Maria che si ritroverà in una clinica a provare a riordinare le sequenze di una vita evaporata senza approdare a nulla di concreto. Joan Didion trova una formula perfetta per dare voce alle apparenze e ai fenomeni che affollano la trama inafferrabile di Prendila così: brevi costruzioni che stanno su una pagina o due, frammenti di episodi, brandelli di dialoghi e scorci di paesaggi dove la desolazione ambientale è consona e complementare alla dissoluzione personale. La pena è il tentativo di sopravvivere ai rimpianti che Maria cerca di evitare nella sua nuova collocazione: “Mi sforzo di vivere nel presente e di tenere lo sguardo fisso al colibrì. Non vedo nessuno di quelli che conoscevo un tempo, ma del resto me ne importa pochissimo di un sacco di persone. Voglio dire, forse avevo tutti gli assi nella manica, ma a che gioco giocavo?”. La partita è truccata ed era chiaro fin dall’inizio: Prendila così è un romanzo doloroso perché Joan Didion è inflessibile nella lettura delle deformazioni dello star system e lucidissima nel rappresentarlo con un linguaggio asciutto, spigoloso ed essenziale, che non fa sconti. L’unica attenuante concessa suona sibillina: “Fosse stato un film avrebbero anche potuto sembrare una famiglia”, ma era soltanto l’ennesimo sforzo di immaginazione, destinato ben presto a soccombere. L’unica consolazione di Maria, prima del ricovero finale, che poi è l’inizio di tutto, è il vagabondare in automobile da un highway all’altra, secondo il carattere e le geografie indefinibili di Los Angeles, ma se la strada è la salvezza, non resta molto altro.

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