giovedì 28 gennaio 2021

Neil Young

Insofferente ai luoghi comuni dell’industria dello spettacolo, votata a una metamorfosi ininterrotta, la personalità di Neil Young appare, almeno in superficie, inafferrabile e sfuggente. Da più di mezzo secolo imperversa con le sue chitarre, e riuscire a collocarlo all’interno di una cornice è un’impresa improbabile più che difficile. Questa raccolta di interviste trova il modo di accostarsi a un’identità complessa ed eccentrica senza provare a descriverla o a rinchiuderla in uno schema. Nel corso di un arco temporale che va dal 1967 dei Buffalo Springfield al 2015 di The Monsanto Years è una bella traversata negli oceani di Neil Young che si premura spesso di avvisare i naviganti che gli sbalzi e le intemperie sono innati, ripetendo più volte: “Nella vita ho patito ogni genere di emozione e mi sono accadute cose a cui ho reagito in maniera estrema. In tutto quello che faccio è presente la rabbia, anche se a volte è così sfumata da diventare quasi leggiadra. La rabbia è del tutto fuori controllo, ma la mia sregolatezza emerge quasi soltanto nella musica”. Alcune caratteristiche fluttuano da una chiacchierata all’altra, altre restano costanti pur seguendo un’onda sinusoidale che rispecchia gli stati d’umore e d’alterazione di Neil Young. L’attenzione maniacale ai dettagli è uno dei dogmi che viene reiterato in ogni occasione, partendo proprio dall’attività principale (“A mantenere viva la musica sono le piccole cose che su larga scala non si notano neppure. Le novità devono sempre iniziare in sordina”) fino ai particolari più intimi e dolorosi della vita privata o a quelli delle sue passioni, dalle auto d’epoca al fermodellismo. Le divagazioni sono spezie sparse con gusto sul menù che è disposto su alcuni punti cardinali inamovibili. Alla musica, che viene raccontata da tutte le angolazioni possibili (gli estremi comprendono Woodstock con Jimi Hendrix, l’epopea di CSN&Y, il legame con e per i Crazy Horse) si affianca la ben nota sensibilità per l’ambiente (“Siamo tutti parte della natura e tutti animali. Siamo altamente evoluti e dovremmo prenderci la responsabilità di quello che abbiamo imparato”) e, più in generale, l’attenzione a quello che succede nella realtà, sia che si trasformi in canzoni, sia che resti a livello di semplice opinione. A dispetto delle leggende e delle sue idiosincrasie, Neil Young è un interlocutore che si concede con generosità: sì, ha una spontanea propensione a dissimulare e a svincolarsi, ma seguendo le sue risposte, intervista dopo intervista, è impossibile non provare un moto di simpatia e accorgersi della sua unicità. Se ne è accorto, tra gli altri Richard Cook che incontrandolo nel 1982 lo descrive così: “È quasi un miracolo che non abbia smarrito l’equilibrio, tanto curiosa è l’ambivalenza della sua posizione. Da una parte, nell’atteggiamento e nelle esibizioni, ha mostrato un disinteresse verso pubblico, stampa e industria che avrebbe potuto alienargli tutti e tre; dall’altra ha scritto un profluvio di musica irresistibile, sfornato una quantità di dischi e selezionato iniziative e progetti con tale astuzia e monelleria da fare sospettare che ogni rischio, ogni eccentricità sia stata ben soppesata e studiata. Per ogni Rust Never Sleeps c’è un placido Comes A Time. Ogni volta che Young sfida l’abisso torna poi a ritrarsi dall’orlo del baratro. È un uomo intelligente”. Su questo non c’è alcun dubbio, e il modo migliore di scoprirlo si nasconde proprio tra queste pagine.

martedì 26 gennaio 2021

Richard Wright

Gli Otto uomini di Richard Wright sono altrettante estensioni di un’unica personalità che ci porta in posti dove nessuno vorrebbe andare: filtrano in continuazione scampoli autobiografici, ma tra i racconti c’è una fitta serie di agganci e di associazioni, di connessioni e di collegamenti che costituiscono la suggestione di un solo corpo. La pistola (“Per la miseria, un uomo se la merita tutta una pistola, dopo che si è spaccato la schiena tutto il giorno”) e gli spari in L’uomo che era quasi un uomo si propagano anche con L’uomo che visse sottoterra, dove il protagonista la lotta per la sopravvivenza in un underworld cupo e surreale, dove matura un senso permanente di ingiustizia e ambiguità, tanto che “il mondo in superficie” appare “un bosco selvaggio carico di morte”. Una cassaforte lega L’uomo che visse sottoterra a Un nero grosso e buono, ma è ancora il colpo di un’arma da fuoco a distinguere Un uomo tuttofare, dove i contrasti tra nero e bianco viene sommato a quello tra uomo e donna. I ruoli si ribaltano e Richard Wright scrive senza fare sconti, nemmeno al lettore che viene preso per la gola e trascinato in situazioni drammatiche e imbarazzanti nello stesso tempo. La tensione è altissima, lo stile è la lama di un coltello a serramanico pronta a scattare, e colpisce immancabilmente. Le note di speranza sono rare, per quanto liriche, ma avvengono fuori dall’America, dove la sopravvivenza dei personaggi di Richard Wright è una scommessa. Se Un nero grosso e buono è un intervallo ambientato in un porto danese, (qui la pistola rimane nel cassetto), L’uomo che uccise un’ombra, ci riporta “in un mondo diviso in due, uno bianco e uno nero, il primo separato dal secondo da milioni di chilometri di psicologia”, con una violenza inaudita pronta a esplodere in qualsiasi momento. È dove diventa evidente la protervia delle provocazioni razziste, finché “le persone stesse divennero dei simboli di inquietudine, di una privazione che gli evocava il senso della transitorietà della vita, cosa che pareva suggerirgli che su di lui si sarebbero abbattuti certi invisibili, inspiegabili, eventi”. È una corrente continua nei racconti di Richard Wright e si spiega soltanto con le pressioni incalcolabili e l’estrema solitudine dei personaggi che in L’uomo che andò a Chicago  viene centellinata così: “Ogni momento della giornata viene dunque consumato in una guerra contro di sé, una parte sostanziosa delle sue energie spesa per mantenere il controllo delle proprie sregolate emozioni, emozioni che non ha mai desiderato, ma che non può fare a meno di avere. Tenuto a bada dall’odio per gli altri, preoccupato dai suoi stessi sentimenti, è poi continuamente in guerra contro la realtà. Diventa inefficiente, meno capace di vedere il mondo nella sua oggettività”. Il protagonista ammette candidamente che “come ogni altro americano sognavo di mettermi in affari e di fare soldi”, ma la realtà della città è durissima e alla deve ammettere: “Non avevo ancora imparato nulla che mi potesse aiutare a districarmi in quelle indecifrabili relazioni razziali. Accettando l’ambiente che mi circondava, e prendendolo per buono, intrappolato dalle mie stesse emozioni, continuavo a chiedermi che cosa avessero mai fatto i neri per far sì che questo insensato mondo fosse contro di loro”. La successione al ribasso dei lavori che intraprende lo porta ad assistere a momenti triviali e penosi compresa la rissa in un laboratorio, con un finale tragicomico. È l’apoteosi di Otto uomini con cui Richard Wright ci introduce in un tempo sospeso tra il sogno e la realtà, spesso con le tinte della notte e del crepuscolo che si tramandano e si sommano, ma che alla fine giungono alla conclusione che “la nostra America troppo giovane e troppo nuova, vigorosa perché sola, aggressiva perché spaventata, insiste nel vedere il mondo in termini di buono e cattivo, santo e dannato, alto e basso, bianco e nero; la nostra America è spaventata dai fatti, dalla storia, dai processi, dalla necessità. Accoglie la scorciatoia per cui si condanna chi non si riesce a comprendere, si emargina chi ha un aspetto diverso; e ripulisce la propria coscienza ammantandosi di una giustizia che si è cucita addosso da sé”. Un’analisi perfetta, peraltro ancora molto attuale.

giovedì 14 gennaio 2021

Edith Wharton

Attorno a una tavola imbandita per una cena pantagruelica, la famiglia Raycie si appresta a salutare il figlio Lewis in partenza per l’Europa, per il classico tour di scoperta prima di affrontare le responsabilità dell’età adulta. Tra “mandorle caramellate e mentine rigate”, “cosce di tacchino in salsa piccante, pasticcio di pollo alla crema, pomodori e cetrioli affettati” e un’alluvione di sciroppo d’acero, Edith Wharton presenta con meticolosa e studiata precisione, la figura del capostipite, Halston Raycie: “Egli credeva nella primogenitura, nell’eredità, nel diritto di successione, insomma, in tutti i principi su cui si fondava la tradizione dei ricchi proprietari terrieri inglesi. Nessuno esaltava più di lui le istituzioni democratiche del paese in cui viveva, ma egli non prendeva neanche in considerazione il fatto che potessero influenzare quell’altra istituzione, più privata ma più importante, costituita dalla famiglia, a cui erano riservate tutte le sue cure e i suoi pensieri”. Circondato dai commensali provenienti dalla borghesia altolocata di New York, ormai destinata alla decadenza, il padre incarica Lewis di riportargli grandi tele barocche, destinate a un lussuoso vernissage metropolitano. La scelta dei quadri distingue anche i progetti del padre sull’unico figlio maschio nell’intento di preservare  lo status delle dinastie coloniali, ormai avviato a un irreversibile declino. L’ostentazione della ricchezza, come simbolo del potere, svela il differente rapporto con l’arte, che sarà il nucleo dello scontro tra padre e figlio, ma non sarà l’unico motivo. Lo sfuggente Lewis ha già maturato altre scelte, e vorrebbe sposare Treeshy Kent, osteggiata dai genitori. Il racconto è tessuto da Edith Wharton con estrema raffinatezza nel ricamare i dettagli e, attorno a questi, le figure e i rapporti, compresa l’epifania sul Monte Bianco, grazie all’incontro con John Ruskin, il grande critico d’arte e autore di Pittori moderni, convocato in prima persona per dare peso e forma alla svolta di Falsa partenza. Qui Edith Wharton sfrutta anche un riscontro storico, perché John Ruskin, è stato effettivamente in Italia nel 1845, arricchendo Falsa partenza di un particolare significativo. Dimenticati Sassoferrato, Guido Reni, Carlo Dolce, Spagnoletto, Capraci e Raffaello, Lewis si dedica ai cosiddetti primitivi italiani e comincia ad acquistare piccole opere del Trecento e del Quattrocento, attratto dal loro intrinseco misticismo, così evidenziato da Edith Wharton: “Era un mondo di fiaba quello in cui viveva, popolato da giovani flessuosi e da fanciulle con le guance tonde e le labbra sporgenti, da uomini anziani dall’incarnato roseo e da mori color dell’oro brunito, da graziosi uccellini, gatti e rosicchianti coniglietti, il tutto avviluppato da un intrico di balaustre dorate, colonnati rosa e azzurri, ghirlande di lauro che pendevano a festoni da balconi d’avorio, cupole e minareti che si stagliavano contro il mare estivo”. I quadri recuperati da Lewis saranno descritti in seguito come “una delle collezioni di primitivi italiani più belle del mondo”, che comprende l’Adorazione di Macrino d’Alba, San Giorgio del Carpaccio, Giotto, Mantegna, Piero della Francesca e che nella definizione di Daniel Arasse in L’uomo in prospettiva mostravano “una nuova formula di figurazione del mondo e dell’uomo, fondata su una coscienza progressiva delle proprie dimensioni storiche e che talvolta si configura come un appello a farsi carico della storia nel suo insieme”. Si capisce perché, a quel punto, la diatriba nella famiglia Raycie, che diventa devastante nel finale di Falsa partenza, non sia solo estetica, e generazionale: è una perfetta miniatura di Edith Wharton che, con grande eleganza, racconta la dissoluzione di un’intera epoca. 

domenica 10 gennaio 2021

Louise Glück

Nella fragile primavera del New England, un giardino segreto si anima con voci dei fiori. Ogni pianta ha la sua voce, che Louise Glück ricama attraverso i riflessi della natura, della wilderness, delle stagioni con una lingua ritmata, sincopata, incisa attorno a immagini esplicite: le rocce, gli abeti, le albe e i crepuscoli e la differenza nella percezione del mondo esterno rispetto a quello interiore. Una poesia fatta di brusche impennate e di suoni sorprendenti, come un ramo che si spezza all’improvviso. Ma più spesso è il silenzio dell’osservazione, della contemplazione, e dell’ascolto: ogni parola ha un peso specifico nella costruzione dei versi e la mano è ferma, precisa. La poesia sgocciola frase per frase. Condita dal silenzio di un’estate che non è estate, la vita dei fiori è una specie di riflesso dell’esistenza umana e l’antropomorfizzazione di Margherite e Viole permette a Louise Glück di esprimere attraverso le singolari presenze vegetali tutti gli aspetti della sua ricca poetica. Un florilegio che è la quintessenza della poesia: fiori che parlano e che diventano parole, pur sapendo come si evince da Lamium, che “non tutte le cose vive richiedono luce nella stessa misura. Alcuni di noi si fanno luce da soli: una foglia d’argento come un sentiero che nessuno può usare, un sottile lago d’argento nell’oscurità sotto i grandi aceri. Ma questo lo sai già. Tu e gli altri che pensate di vivere per la verità e, di conseguenza, amate tutto ciò che è freddo”. Le parole giungono a destinazione con precisione millimetrica nonostante l’insolita prospettiva, e questo è già un valore aggiunto in sé nella sua poesia, che è frutto di un linguaggio semplice, ma di una costruzione complessa. Il tono è tutt’altro che accondiscendente: il dialogo è vigoroso, i fiori si spendono con generosità e l’inizio è anche la fine, come scrive in Zizzania: “Non mi serve la tua lode per sopravvivere. Ero qui prima, prima che tu fossi qui, prima che tu abbia mai piantato un giardino. E sarò qui quando rimarranno solamente il sole e la luna, e il mare, e il campo largo. Costituirò il campo”. Le sentenze verso gli esseri umani che, come dice Il biancospino, “lasciano segni di sentimento dovunque”, sono ancora più tranchant, e i piani tendono a sfaldarsi. Scrive Louise Glück in Mattutino: “Vedo che con te è come con le betulle: non mi è concesso parlarti in modo personale”, ed è solo l’inizio di una conversazione ininterrotta con un perentorio Trifoglio (“Dovreste porre queste domande voi stessi, non lasciarle alle vostre vittime”), con la scadenza del puntuale Tramonto, (“La mia tenerezza dovrebbe esservi chiara nella brezza della sera d’estate e nelle parole che diventano la vostra stessa risposta”) e con l’inevitabile Crepuscolo di settembre, (“Andate e venite, ciascuno di voi imperfetto in qualcosa”). È poi la La rosa bianca a siglare L’iris selvatico con un ammonimento, una sorta di conclusione: “Questa è la terra? Allora non è posto per me”. È una resa coraggiosa, in fondo, alla fine della metamorfosi, che diventa esplicita con il Primo buio: “Come potete capirmi quando non potete capire voi stessi? La vostra memoria non è abbastanza rigorosa, non si spinge dietro abbastanza”. Harold Bloom, già estimatore di Louise Glück in tempi non sospetti, diceva che “il pensiero poetico è sempre una modalità della memoria” e la dispersione delle singole voci floreali non deve ingannare: L’iris selvatico dice chiaramente che “tutto ciò che ritorna dall’oblio ritorna per trovare una voce”. Notevole.

martedì 5 gennaio 2021

Doug Dowd

Il Blues americano di Doug Dowd, professore universitario e attivista politico, è “la formazione di uno scettico” che somma le vicende personali e i passaggi storici degli Stati Uniti d’America, dagli inizi del ventesimo secolo a oggi, per arrivare a concludere, e forse bisogna ricordarlo più spesso, che “la politica di cui abbiamo bisogno è quella che persone normali possono contribuire a costruire”. Nato nel 1919, Doug Dowd ha l’età perfetta per partecipare alla seconda guerra mondiale, e si arruola in un corso di addestramento per piloti. Da lì, l’aneddotica si fa fitta e variopinta: nel Pacifico è aggregato a una unità d’assalto con Norman Mailer, e assiste sgomento ai bombardamenti atomici, secondo lui, prologo alla guerra fredda. Rientrato in patria, oltre a dissezionare le fobie e i luoghi comuni imperanti, si ritrova ben presto con Howard Zinn e Noam Chomsky a fronteggiare la guerra in Vietnam (e Cambogia, e Laos). Un impegno che lo ha visto tra i principali esponenti del movimento pacifista e che occupa una parte consistente del Blues americano, anche perché quella tragedia fu biunivoca, come precisa Doug Dowd: “Facemmo tutto il possibile per distruggere il loro amato paese, e ci riuscimmo anche troppo; e adottando quei metodi, distruggemmo una parte importante del nostro stesso paese, rendendoci più difficile amarlo”. Sono gli anni di Nixon e Kissinger, poi l’avvento di Reagan, e qui il “nuovo” che avanza merita di essere visto sotto una luce storica un po’ più chiara. John Updike scriveva che “gli americani sono condizionati al rispetto del nuovo, qualunque ne sia il prezzo” e  la prosopopea degli anni Ottanta viene smascherata perché dietro la millantata efficienza si nasconde quel “caos socioeconomico” che si è protratto indefinito fino a oggi, dato che “al cuore delle reaganomics non c’era quella che si può ritenere economia (il che non implica che sarebbe andato tutto bene se ci fosse stata): più forte era il desiderio ideologico e politico (ed emozionale) di aumentare le spese militari, ridurre le tasse ai redditi personali elevati e alle società di capitali, tagliare le spese sui programmi sociali”. È proprio quello che successe, e Doug Dowd non fa alcun sconto, segnalando tutte le contraddizioni, le tentazioni, gli interventi per ribadire una supremazia o per tutelare i presunti interessi americani nel mondo, con i risultati ben noti in Nicaragua ed El Salvador. Questo si sviluppa anche seguendo le traiettorie delle presidente Bush (padre e figlio), Clinton fino a Obama, con crisi economiche, guerre e abusi di potere che si ripetono a cicli pressoché regolari nel distillare il Blues americano. Nessuno è esente dagli strali di Doug Dowd che comprende e prevede (l’originale Blues americano è del 1997) molti degli sviluppi dell’involuzione politica e sociale odierna, proprio perché si accorge che “noi abbiamo permesso, e incoraggiato, la trasformazione del naturale egoismo umano in avidità smisurata; e, per quanto non abbiamo affatto inventato il razzismo, lo abbiamo permesso e lo abbiamo fatto diventare sempre più profondamente radicato nelle nostre vite, nonostante i reiterati tentativi di disturbo o porvi termine”. Mentre Doug Dowd riepiloga gli affanni nevralgici degli Stati Uniti, gli elementi dannosi (il consumismo, la finanza, il militarismo) e le difficoltà della politica, il racconto alterna le analisi (sempre molto circostanziate) ai toni confidenziali, le digressioni economiche e i risvolti personali e sentimentali, a casa e in Italia (Doug Dowd ha insegnato per anni a Bologna) e così come scrive Bruce Dancis nell’introduzione se “la sua critica al capitalismo americano è incisiva come sempre, sono i ricordi e gli aneddoti della sua notevole vita che sono unici”. È in quelle testimonianze che si sente il suo blues, come l’effetto di una miscela che comprende “il dolore con la rabbia con la speranza con l’amore”. Tutto molto americano, e molto vero.