mercoledì 30 novembre 2022

Raymond Carver

L’uscita di Vuoi star zitta per favore? era stata una svolta epocale. Leonard Gardner scrisse che i racconti di Carver “parlavano del tradimento degli affetti più cari, per debolezza o egoismo, per mancanza di soldi o per rabbia contro una situazione di povertà, o per altro. Gente che non si prende a botte, ma compie questi tradimenti che causano un dolore atroce”. Nel 1976 l’impronta di Vuoi star zitta per favore? aprì uno spiraglio fondamentale nella letteratura americana che sarebbe tornata a guardare da vicino alla realtà ed era frutto della complessa liaison tra Carver e Gordon Lish, l’editor che aveva limato, corretto, modificato in profondità la scrittura delle short story. Ricordava Carol Sklenicka: “Nella stessa maniera in cui, in una registrazione, un tecnico del suono sa mettere in risalto uno strumento rispetto agli altri, Lish eliminò dei dettagli che assegnavano ai personaggi una storia distintiva o vendevano un’ambientazione specifica e intima. A volte cambiava il peso di una frase e, con la sostituzione, sapeva rendere il racconto più esplicito e anche più chiassoso”. Gordon Lish interverrà ancora e con maggior decisione nella raccolta successiva, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore il cui titolo originale era, appunto, Principianti. I racconti passarono almeno tre drastiche revisioni (se non proprio riscritture) e Carver oscillò tra l’entusiasmo iniziale e momenti di totale disappunto (dove parlava di vere e proprie “amputazioni”) che lo portarono a più riprese a chiedere a Lish di sospendere la pubblicazione, come è documentato dal loro epistolario. La riproposizione in Principianti della versione non filtrata di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è un po’ ambivalente. Così come li abbiamo conosciuti, i racconti di Carver, tagliati “fino al midollo”, restano frutto del legame e dei contrasti con Gordon Lish e con ogni probabilità ha senso avere entrambe le versioni, quella passata attraverso le forche caudine di un editing feroce e quella originaria, ricostruita dal lavoro di ricerca di William L. Stull e Maureen P. Carroll. Il motivo è semplice: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è uno snodo contorto e complicato nella biografia stessa di Raymond Carver, e un punto di non ritorno della saga con Gordon Lish, che è celebrata in tutte le sue contorsioni in Principianti. Da lì in poi maturerà lo sviluppo stilistico che porterà a Cattedrale, e alla definitiva consacrazione tra gli autori americani più importanti del ventesimo secolo. Detto questo Raymond Carver racconta essenzialmente una luce, una luce che è sempre tangenziale, obliqua, aurorale o crepuscolare. È sempre una scrittura in bilico, tra la percezione della realtà e la sua descrizione nei contorni di una “spettrale luminosità”, come ha scritto Clark Blaise. Le quinte sullo sfondo sono composte da una desolazione dove il blue è un tema dominante, e non è soltanto una sfumatura dei colori, ma anche un’espressione dell’atmosfera in cui si muovono i suoi personaggi. Aveva ragione Tim O’Brien ad avvertire il lettore che per cogliere il senso dei racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore servono “atti d’immaginazione e deduzione”, e qui diventa chiaro dove ha portato tutto quel lavoro di sottrazione, perché come diceva Carver “in fondo tutto quello che abbiamo sono le parole”, e meritano la giusta attenzione, e anche un po’ di editing.

lunedì 28 novembre 2022

Barry Gifford

Scuoiare un coccodrillo, scrutare le ascelle di una supplente, fare attenzione a chi va in giro con un martello in tasca, schivare i mariti della madre, sopravvivere nella mappa di Chicago, scoprire Elvis: Il mondo di Roy è la celebrazione di una prospettiva unica, che poi è quella dell’infanzia e dell’adolescenza, una corda tesa all’infinito tra opposti ed estremi destinati a collidere. Le storie si susseguono velocissime, come dei flash sparati a raffica, e sono incastrate una nell’altra con un ritmo forsennato, senza una particolare coerenza cronologica, se non l’età di Roy. È un continuum inarrestabile e, a tratti, incontrollabile: la trama è costituita soltanto dalla loro successione e dalla personalità di Roy, che è un osservatore acuto, a cui non sfugge nessun dettaglio, ma è anche un soggetto capace di svolte repentine, motivo per cui Barry Gifford alterna con disinvoltura la prima e terza persona. Attorno a lui ruota un’intera galassia di personaggi: figure singolari e picaresche come quella del Sultano alias James Word, amici e nemici nelle strade, volti del cinema (Hedy Lamarr, Ava Gardner, Orson Welles), del jazz (Art Blakey, John Coltrane, Thelonious Monk, Ben Webster, Dizzy Gillespie) e del rock’n’roll (Buddy Holly ed Elvis, che “fa tutto meglio di chiunque altro”), ma soprattutto una moltitudine di ritratti da cogliere al volo, e in fretta, prima che svaniscano nel nulla. Sparire è uno dei refrain più insistenti che distinguono Il mondo di Roy: è scomparso suo padre, e poi c’è gente rapita dagli alieni, ammazzata per un niente, il più delle volte per un’arma di troppo in circolazione, partita per destinazioni sconosciute o diventata invisibile nei bassifondi o soltanto sbattuta fuori di casa, senza un destino a cui aggrapparsi, se non fuggire. Una panoramica che è un’ossessione americana, e non è così ovvio perché Barry Gifford intinge i dialoghi nelle forme del baseball, delle stazioni di servizio, dei bar, delle automobili, di interi paesaggi a Chicago come a Cuba, freddo e caldo, dentro e fuori, i contrasti che alimentano un vivaio di protagonisti (e un’infinita teoria di nomi snocciolati uno dopo l’altro) che durano meno della fiamma di un fiammifero. Eppure è da quell’effimera e diffusa condizione che Il mondo di Roy (a cui bisogna aggiungere Wyoming) genera un moto propulsivo capace di contenere tuareg e gangaceiro, la scoperta del sesso e la segregazione e le mille avventure assemblate da Barry Gifford in una folle e ipnotica catena di montaggio. Il mondo di Roy è l’America, un’America popolare colta sul fatto nelle sue difficoltà, negli eccessi e nei limiti e che, in gran parte, è svanita insieme ai suoi eroi. Come del resto ha suggerito lo stesso Barry Gifford, Il mondo di Roy è “un tentativo di evocare il ritratto di un tempo e di un luogo che non esistono più, un ritratto su cui ho lavorato per quasi mezzo secolo”. È proprio questa la natura “ellittica” delle storie che si inanellano dentro Il mondo di Roy, con l’atmosfera di tante Polaroid ritrovate e accostate secondo uno schema del tutto casuale, in cerca di un ordito che appartiene alla natura dei sogni e della memoria e che soltanto la scrittura può, infine, svelare.

giovedì 24 novembre 2022

Stephen Crane

Con tutti i limiti e gli eccessi degli esordi, lo Stephen Crane giovanile non va per il sottile e si immerge nella storia di Maggie. Ragazza di strada come se ci accompagnasse di persona nelle brutture di Devil’s Row o Rum Alley, angoli fatiscenti di una New York che, all’alba del 1983, è già una metropoli condizionata da attriti, tensioni e contrasti. Maggie, come ogni altro cittadino deve sopportare una famiglia devastata, le risse, gli scontri, un conflitto latente che esplode tra le persone incastrate in quartieri e in particolare in abitazioni dove “l’edificio tremava e scricchiolava sotto il peso di un’umanità che s’aggirava pesante nelle sue viscere”. La descrizione è puntuale, fin troppo. La violenza, verbale e non, è endemica, nello sfruttamento e in convivenze forzate e affondate più nella disperazione che nell’alcol, anche se è difficile capire quale è la causa e quale l’effetto. Stephen Crane sa già riportare in un linguaggio crudo, spietato e onesto l’afflato che anima Maggie, disposta a qualsiasi cosa pur di fuggire da una madre sventurata e dal clima opprimente della Bowery, motivo per cui rimane ammaliata dall’ambiguo Pete: “Ecco un uomo che non si curava della forza di un mondo ribollente di pugni. Ecco un uomo che aveva disprezzo per il potere, un uomo i cui pugni potevano risuonare con sfida contro il granito della legge. Era un cavaliere”. È uno dei tanti abbagli che distinguono la parabola di Maggie, un archetipo della ragazza e della sua immersione in una nebbia generata dalla città dalle condizioni invivibili, espressa dalla grezza natura del linguaggio, che Stephen Crane riesce a rendere in tutta la sua natura. Il risultato finale è la dissoluzione nelle strade di New York: anche la bellezza conclamata di Maggie viene compromessa. La sua storia è un tiro di dadi truccato, la fine è già dettata dalle premesse iniziali, che sono desolanti. Stephen Crane non lo dice, e non lo spiega: lo lascia fluire dalle voci dei personaggi, e questo si nota ancora di più nei racconti aggiunti per l’occasione a Maggie. Ragazza di strada. Come scrive alla fine di Quando cade qualcuno, si raduna una folla, è “quasi che fosse un’ingiustizia l’intromettersi improvviso in quel tessuto impenetrabile fra una creatura in sofferenza e la loro curiosità”. L’intruso, con ogni probabilità, è proprio Stephen Crane che cerca di rendere l’atmosfera lasciando fluire i rumori, per esempio, “il suono, nelle sue iniziali note lancinanti che via via calavano fino a trasformarsi in malinconici lamenti, rivelava la tragedia rossa e cupa delle insondabili possibilità dei sogni umani”, così descritto in Un esperimento in tema di miseria, o identificando nell’architettura verticale e brutale della città la feroce indifferenza, come scrive ancora nello stesso racconto: “La moltitudine di edifici dalle spietate sfumature e dalla mole altezzosa era ai suoi occhi emblematica di una nazione che spingeva la testa regale su fra le nuvole, senza mai gettare uno sguardo in basso; e che, intenta a sublimi aspirazioni, ignorava i disgraziati che annaspavano ai suoi piedi”. Come per Maggie. Ragazza di strada, c’è un prezzo da pagare per quelle “speranze cittadine che per lui non erano speranze”, e alle mille luci di New York corrispondono altrettante ombre, che Stephen Crane registra senza particolari aggiustamenti. Riportato nella ricca e esaustiva introduzione di Mario Maffi che traduce e cura la riscoperta di Maggie. Ragazza di strada, Frank Norris sostiene che  “il quadro che ci dipinge l’autore non è un dipinto singolo, composto con cura, serio e finito, studiato scrupolosamente, ma piuttosto una serie di piccole fotografie al lampo di magnesio, colte per così dire di corsa. Di conseguenza, il movimento del racconto dev’essere rapido, breve molto incalzante, poco più di un’occhiata di sfuggita”. Il metodo è funzionale e ha un suo impatto visivo, capace di proiettarci in una dimensione parallela dove il tempo si è fermato, e non solo per Maggie.

mercoledì 16 novembre 2022

Bob Dylan

Da Johnny Cash a Hank Williams, da Little Richard a Edwin Starr, da Nina Simone a Elvis, il processo di scoperta del songwriting è un’avventura unica e se c’era qualcuno in grado di inoltrarsi tra i suoi misteri, quello è proprio Dylan, e nessuno più di lui. Detto questo, Filosofia della canzone moderna è comunque una gran bella sorpresa: le canzoni vengono trattate dentro short story brevi e brillanti, che declina a modo suo, con nonchalance, e mettendo in risalto momenti e sfumature, percorsi e intuizioni. Il racconto segue un modello binario abbastanza semplice (tenendo ben presente che la semplicità non è ingenuità): per ogni canzone c’è una prima parte legata a impressioni del tutto personali e quindi dylaniane all’ennesima potenza, e una seconda più descrittiva e documentale. L’ordine non è rigoroso, come si può immaginare, e le due prospettive sono annodate, senza nulla di accademico o scientifico: non ci sono teorie o tesi da dimostrare e le iperboli di Dylan sono una sorta di licenza artistica nel tentativo di ricreare “la magia che ha luogo quando le canzoni sono sposate alla musica”. Nelle crepe lasciate dalle strofe, dagli incisi e dai refrain, Dylan costruisce un discorso ininterrotto che segna un punto di non ritorno nell’arte del songwriting. Sapendo che “gran parte dello scrivere canzoni, come accade per tutto lo scrivere, consiste nell’editare, nel distillare il pensiero fino a lasciare solo l’essenziale”, le storie hanno la velocità e la leggerezza delle canzoni, ma a loro volta si riproducono senza sosta. Capita così di affrontare una pratica lezione di biologia che sfata il suicidio di massa dei lemming, di ritrovare James Dean o Lenny Bruce, di scoprire l’invenzione del velcro, di come è cambiato il cinema, o ancora dell’importanza della gestione delle vocali e delle consonanti perché “è importante ricordare che quelle parole sono state scritte per l’orecchio e non per l’occhio. Come con i comici, dove una frase apparentemente semplice si trasforma in una battuta grazie alla magia della performance, quando le parole vengono messe in musica accade una magia inesplicabile. Il miracolo è la loro unione”. Il tono è intimo e diretto, ricco di punteggiature e richiami, e spolverato d’ironia, ma sempre chiarissimo, come la voce di un uomo che non vuole ballare, ma che sa stare al bancone di un bar, e che ama la vita on the road. Un motivo c’è: a parte qualche notevole eccezione (comprese Mack The Knife di Kurt Weill, Pump It Up di Elvis Costello, London Calling dei Clash e Volare di Domenico Modugno), la Filosofia della canzone moderna è una costellazione essenzialmente americana ma si parla, come dice esplorando Truckin’ dei Grateful Dead, di “molto tempo prima che l’America si trasformasse in un uniforme, tentacolare centro commerciale”. C’è un afflato nostalgico per un tempo che è stato, e che resiste solo nelle canzoni, ed è quella la vena che insegue Dylan, ben consapevole che “la gente confonde la tradizione con la calcificazione. Ascoltiamo un vecchio disco e lo immaginiamo sigillato nell’ambra, un pezzo di nostalgia che esiste solo per i nostri bisogni, senza rivolgere un pensiero al sudore e alla fatica, alla rabbia e al sangue che ci sono voluti per realizzarlo, o alla cosa in cui si è trasformato. La registrazione non è altro che la semplice istantanea di quei musicisti in quel momento. Un’istantanea può essere avvincente e artistica, ma è l’aver scelto un singolo istante, pescato dal flusso dei momenti, a renderla immortale”. Dylan lo spiega molto bene, canzone per canzone: può essere un verso, un arrangiamento, un aneddoto, un’allusione (e ce ne sono parecchie) a sottolineare la distanza con il passato perché oggi “tutto è così saturo; tutto ci viene imboccato. Tutte le canzoni parlano di una cosa sola e di una cosa in particolare, non ci sono chiaroscuri né sfumature, non c’è mistero. Forse questa è la ragione per cui al momento il luogo dove la gente ripone i propri sogni non è la musica. I sogni soffocano in questi ambienti non aerati”. Ecco perché la Filosofia della canzone moderna è un frutto del puro desiderio di comprendere e spiegare quello che in effetti è “la musica, che appartiene a un tempo ma è anche senza tempo; una cosa con cui creare memorie, ma anche la memoria stessa”. Compresi nel prezzo: un apparato iconografico suggestivo e la dedica a Doc Pomus, un omaggio che è pura giustizia poetica.

martedì 8 novembre 2022

Mark Leyner

Quando Mark Leyner scrive al suo editor, Peter Guzzardi, è chiaro che ci si addentrerà in un luna park effervescente e caotico dove succederà di tutto. La corrispondenza comincia così: “La mia vita è stata un unico, lungo incubo ipercinetico e ultraviolento. Eppure sì, sono uno scrittore. (Ma anche un addestratore di cani: Peter, ho insegnato alla mia cucciola Carmella a bere caffè nero bollente dalla sua ciotola sul pavimento!)”, e siamo soltanto all’inizio. Mark Leyner e il famigerato Team Leyner che assiste e promuove la carriera dello scrittore verso l’infinito, e oltre, si adoperano con metodi non convenzionali, per usare un eufemismo, e comunque apertamente dichiarati: “Occasionalmente tengo dei workshop di scrittura creativa. Ci vado sempre accompagnato dalla mia attempata falange di guardie del corpo bioniche, alcune delle quali armate fino ai denti e piazzate in punti strategici all’interno dell’aula e dello stabile, altre iscritte invece in incognito e presenti al corso come normali partecipanti”. Gli studenti più bravi e promettenti vengono visti come una minaccia allo status di Mark Leyner e, una volta rapiti infilandogli la testa in un sacco, sono sottoposti a un programma di interrogatori e rieducazione che prevede “la soppressione delle ore di sonno, l’esposizione alle basse temperature, la falsa fucilazione e svariate altre tecniche psicologiche”, e non è finita qui. Con Mark Leyner le parole compiono capriole che disorientano: la formula fluttua irritante e indisponente, lui è il narratore e il protagonista, l’alter ego (smisurato) e il lettore di se stesso, in spregio a ogni bon ton letterario ed editoriale. Il ritmo è martellante e trascinante a patto di non volere per forza trovare un significato o decifrare ogni singola frase perché con simboli, metafore e ogni genere di strumento di distrazione, Mark Leyner ci va pesante e la sua scrittura diventa un frullatore psichedelico che macina di tutto: l’ossessione per il corpo (comprese le reminiscenze di Mio cugino, il mio gastroenterologo, richiamato a più riprese), scrittori, attori, rock’n’roll star e altri personaggi più o meno famosi convergono (non colpevoli, non responsabili) con il suo costante affondare nella storia. È  come se nuotasse e fosse l’acqua nello stesso tempo: Mark Leyner giostra le parole con una nonchalance che stupisce ancora oggi. Per restare in tema del famoso “cugino” e della sua formazione ippocratica, è come se digerisse una massa piuttosto ingombrante di segnali per poi rigurgitarla in una forma sorprendente, giocosa e brutale. Lo stesso Mark Leyner, che non si fa troppi scrupoli di sorta dice che Ehi tu, baby! è “una superba e irresistibile miscela di umorismo e indeterminate traiettorie, brulicante di tossiche creatura da farsa”. Il pirotecnico svolgersi dello stile può apparire ingannevole: c’è zapping, ci sono Ballard e Burroughs in dosi cospicue e uno humour abrasivo. L’aneddoto di come comincia a scrivere le note di copertina dei dischi che coinvolge Julianne Phillips, Bruce Springsteen e Patti Scialfa è irresistibile, ma bisogna fare attenzione perché dietro l’angolo spuntano “microscopiche e rigide creature allo stato larvale sfrecciano nel tempo come cannoli bellici catapultati in cielo e pronti ad affondare a velocità supersonica nelle fauci spalancate del mondo”. Una follia verbale inarrestabile, impietosa e fine a se stessa: inutile cercare un senso appropriato dove non ci deve essere, anche se in filigrana è chiaro che c’è qualcosa di più, la trascrizione del folle bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti, che sia intenzionale, oppure no. Fidatevi di Tom Robbins, che all’epoca descriveva la scrittura di Ehi, tu baby! “sintetica, radioattiva, speziata, confezionata in serie di un verdolino accattivante, un vero frappé del nostro spirito dei tempi, baby, e gustosa da impazzire”. Prima, però, leggete attentamente le avvertenze, e usate con cautela, è roba forte.

giovedì 3 novembre 2022

Mark Seal

Di rivelazioni la “storia, epica, leggenda” del Padrino ne offre parecchie. Nella saga della famiglia Corleone, cominciata con il romanzo di Mario Puzo e arrivata ai tre film di Francis Ford Coppola si affollano moltitudini di personaggi e interpreti che legano e uniscono tutte le follie americane, dai set cinematografici di Hollywood alle strade di “quei bravi ragazzi” a New York. L’unico modo per affrontare “l’inverosimile fusione di forza bruta, scelte artistiche, esigenze di mercato, genio e fortuna sfacciata”, che ha distinto la produzione del Padrino, era “una profonda immersione in un pozzo senza fondo”. L’immagine inserita da Mark Seal nella prefazione è consona non solo all’enorme lavoro di ricerca e di assemblaggio delle fonti, ma alla natura stessa del Padrino in sé, che dalla sua apparizione sugli schermi, giusto cinquant’anni fa, è diventato un successo intramontabile, un classico e un fatto sociale. Ed è ancora più incredibile se si pensa un attimo che tutto è cominciato ed è rimasto a lungo sull’orlo del disastro. Quando scrisse Il Padrino, Mario Puzo era arrivato in fondo a un vicolo buio: aveva una famiglia da mantenere, un vizio (il gioco d’azzardo) che lo prosciugava e pochissime alternative. Grazie alla casuale indicazione di un editore, cominciò a riflettere sulla mafia e sui contenuti dei best seller che avevano “personaggi memorabili sopra le righe, linee di trama multiple e un po’ di sesso”. Nel Padrino c’è molto di più, perché, come scrive Mark Seal, “la storia che racconta è eclissata dalla storia di come è nato. Anni prima che i dialoghi venissero scritti su carta, tutto era iniziato con un corpo avvolto dalle fiamme, città atterrite dalla paura e veri criminali sopravvissuti per svelare un mondo di violenza e tradimenti al di là dell’immaginazione di qualsiasi scrittore”. Per la ricchezza delle immagini e del linguaggio, il romanzo era destinato al cinema, ma ci arrivò a sua volta dalla porta di servizio. La Paramount, che era un passo dal fallimento, acquistò i diritti per 12.500 dollari, ma nessuno voleva saperne, finché non apparve un’offerta della concorrenza (la casa di produzione di Burt Lancaster) per un milione di dollari. Quello fu il momento in cui Robert Evans, produttore della Paramount, decise di farne un film. Così funziona a Hollywood e da lì Mark Seal procede nella ricostruzione del Padrino attraverso tutte le sue fasi: le scelte di Francis Ford Coppola, le trattative economiche (che arrivarono a coinvolgere Michele Sindona) e la sceneggiatura, il casting e i costumi, la fotografia e i “posti per uccidere la gente”, le scelte di tempo e di budget, Marlon Brando e Al Pacino, le ansie e i complotti sul set, e nella realtà, i rischi e le minacce e la vera mafia, dietro l’angolo. Mark Seal ha trovato il modo giusto per rendere affascinante ogni singolo dettaglio, anche i particolari più scabrosi ed eccelle nel descrivere la realizzazione della scena del matrimonio, dove convoglia un po’ tutte le logiche del Padrino perseguite da Coppola. È molto preciso il ricordo dello scenografo Dean Tavoularis: “Voleva mostrarli come essere umani e far vedere il lato umano delle loro vite, il lato familiare delle loro vite: amare i figli e poi voltarsi e commettere i crimini più terribili e gli omicidi più brutali”. Se grazie all’appassionata e coinvolgente rivisitazione, il “making” del Padrino si legge a sua volta come un romanzo, protagonista è, alla fine, l’ossessione per il potere, declinato attraverso tutte le forme narrate da Mark Seal: non soltanto le “famiglie” (nella fiction come nella realtà), ma anche tutte le transazioni e le collusioni tra Hollywood e Las Vegas, celebrate, tra i tanti aneddoti, anche dalla rissa tra Frank Sinatra e Mario Puzo, due pesi massimi.

mercoledì 2 novembre 2022

T. C. Boyle

Nelle storie di T. C. Boyle raccolte in Se il fiume fosse whisky si trovano tutte le ossessioni che popolano la sua narrativa. Si comincia con le sottolineature alle apparenze che dominano i nostri tempi moderni con Fugu pietoso, un delizioso racconto che inquadra la sfida tra lo chef Albert e Willa Frank, critica enogastronomica impietosa e irraggiungibile. Quel tono, in perenne equilibrio tra ironia e sarcasmo, è altrettanto pungente in Amore moderno, dove l’ipocondria è il riflesso dell’esigenza di un’esistenza sterile e perfetta, comprensiva di un preservativo da usare per ricoprire tutto il corpo, onde prevenire contatti indesiderati con virus più o meno letali. Ancora più sprezzante è Via quella barba con un consulente (hollywoodiano) che non va molto per il sottile nel tentativo di riposizionare l’immagine pubblica degli ayatollah. Il titolo dovrebbe già suggerire il tenore del racconto, che si collega a La mosca umana, una short story bellissima e malinconica sulla fama e sul prezzo da pagare.  Nel destino di Zoltan, un personaggio indimenticabile, e delle sue bravate da novello Houdini c’è un po’ di commedia e un po’ di dramma con Los Angeles sullo sfondo, che troviamo anche per La casa che sprofondava. Le ossessioni suburbane valgono nello stesso modo a New York e diventano l’ingrediente nascosto nel patto faustiano tra Il diavolo e Irv Cherniske, in un ambiente dove “ogni sera, verso l’ora di cena, quando un urlo lacerante fendeva l’aria del quartiere, c’era sempre qualcuno che si portava alle labbra un aperitivo annacquato e diceva, con un sospiro, che gli urlatori stavano ricominciando”. Se in un placido quartiere dove tutti si ignorano, pur conoscendosi a memoria, avvengono strani eventi soprannaturali, è dovuto al fatto che T. C. Boyle ha frequenti divagazioni psichedeliche in parallelo alla sua percezione dei personaggi. È un’immersione totale, dalla condivisione dei problemi (e sono sempre tanti) e delle sofferenze, come succede in Il berretto, ambientato in Alaska con l’ombra di un orso invadente. T. C. Boyle ha una spiccata sensibilità per il rapporto degli esseri umani con il resto del mondo animale, che è portato alle estreme conseguenze in La signora delle scimmie in pensione. Nella rocambolesca avventura con Konrad, lo scimpanzé adottivo della protagonista, Beatrice, spicca il finale sorprendente, che lascia aperto più di un orizzonte. I colpi di scena non mancano anche con Il re delle api, dove il disagio psichico  si innesta dirompente in dinamiche famigliari non meno complesse. Molte convivenze hanno parecchie falle, a partire da una limitata concezione del matrimonio e vale per Il risveglio, una storia d’amore che non funziona, con l’acqua protagonista, uno degli elementi ricorrenti nel simbolismo di T. C. Boyle, così come con Per amor di pace, dove prevale la sensazione di essere “circondati”. La sicurezza e le deviazioni, le inquietudini e le idiosincrasie americane (e non) alimentano molti dei temi e dei soggetti dei racconti di Se il fiume fosse whisky che sono centrali nella visione di T. C. Boyle e troveranno ulteriore collocazione e ampliamento tra i romanzi (su tutti, e sempre consigliato, Gli amici degli animali), ma va ricordato anche Il piccolo freddo, fotografia di una reunion tra amici, come se fosse una una curiosa operazione di rilettura e riscrittura di una scena tagliata dalla sceneggiatura del Grande freddo, Marvin Gaye compreso.