Per generazioni, il taglio delle pietre e la costruzione delle case è stata l’occupazione della progenie Belfair. Non c’è molto di più, come dice il capostipite, Papaw: “Solo il lavoro. Solo il mestiere. Nient’altro. Non c’è mai stato nient’altro. Mi sono sempre chiesto cosa fa la gente al di fuori del suo mestiere. E me lo chiedo ancora”. È un’arte e un modus vivendi che “è stato insegnato. Generazione dopo generazione. Per diecimila anni. Adesso nella memoria di un solo uomo quell’insegnamento è stato accantonato come se non fosse mai esistito. Come se non avesse nessun valore. Questo lui lo sa eppure sembra non curarsene”. Lo scenario è il focolare di una famiglia afroamericana, dove il tormentato Ben ha scelto di adeguarsi all’identità di scalpellino, assecondando convinzioni che vengono tramandate da secoli: “Mio nonno dice che si può imparare com’è fatto un orologio smontandone uno o addirittura che è possibile imparare come costruire una casa buttandone giù un’altra”. È una fatica e una sofferenza, la pietra angolare è un miraggio, però è un impiego onesto che garantisce una posizione precisa per tutti, una posizione, oltre al sostentamento quotidiano. È un particolare da non non trascurare perché la maggioranza delle scene della pièce di Cormac McCarthy avvengono attorno al tavolo della cucina, il più delle volte imbandito per la colazione. È lì che Ben colleziona drammi: prima la scomparsa di Soldier, figlio della sorella Carlotta, poi il suicidio del padre, Big Ben, e la morte del nonno Papaw in una cupa dissoluzione che non risparmia nulla ai Belfair. Forse “il mestiere” non è sufficiente di fronte alle pesanti svolte della vita, forse non basta nemmeno a difendersi: ancora una volta Cormac McCarthy mette i suoi personaggi nelle condizioni di decidere, con limitate alternative, dovute (anche) al colore della pelle. Le frasi sono incise non meno della roccia, mentre la convinzione della famiglia Belfair viene sgretolata. Un passaggio descrive la perfida prosopopea razzista, come raramente è successo. A Louisville, Kentucky, arriva il circo e tutti i bambini hanno sentito che ci saranno le scimmie per cui si avventano nel baracchino delle bibite per chiedere dove andare a trovarle e la risposta è questa: “L’uomo ha abbassato gli occhi su tutti noi, bambinetti neri scalzi e cenciosi come una ceppa piena di ragni ballerini, e ha detto: Se non sapevate tornare indietro, perché siete usciti?”. Nei cinque atti, che purtroppo non hanno avuto molta fortuna (capita anche ai migliori), Cormac McCarthy è nello stesso tempo dentro e fuori la rappresentazione e il doppio di Ben gli consente di affrontare una curva nella storia, che va considerata come una prospettiva aggiuntiva, un’angolatura che permette di vedere la disintegrazione della famiglia Belfair in tutte le sue proiezioni. Nell’idea dello scalpellino di tirare fuori dalla pietra qualcosa che esiste già, si riflette l’impegno dello scrittore nell’inseguire forme che devono essere scoperte, non costruite. C’è una bella differenza. Lo si percepisce nel tono tranchant di Cormac McCarthy, nella disposizione delle sequenze (“L’intento, come vedremo, è quello di porre a distanza gli eventi e collocarli in un passato compiuto”) nell’interazione di Ben con il suo doppelgänger, che apre un altro spiraglio: “Pensare è cosa rara in tutti gli strati sociali. Ma un manovale che pensa, be’, sembra più verosimile che il suo pensiero sia temperato dall’umanità. È più propenso alla tolleranza. Sa che nella vita quello che importa è la vita”. Il taglio è drastico (siamo nei dintorni di Meridiano di sangue) e, a riprova, è sufficiente il punto di vista di Mama, che non sbaglia mai: “Se vuoi puoi farti il tuo piano e recitartelo tra le macerie”. Ecco, il mood che avvolge Il tagliapietre è proprio questo: niente sconti, nessuna concessione, solo parole come sassi.
mercoledì 5 febbraio 2025
mercoledì 29 gennaio 2025
Joan Didion
Senza dubbio una delle voci più rappresentative della letteratura americana, Joan Didion è riletta attraverso le Ultime interviste, che in realtà vanno dal 1972 al 2021, campionando un arco di tempo significativo, e non soltanto uno scorcio finale come il titolo lascerebbe credere. Interlocutrice acuta e sensibile, negli incontri prende forma un dialogo ininterrotto: ogni colloquio una tappa diversa, tutti pieni di schermaglie. Joan Didion è un’ospite affabile, ma tagliente, che non perde mai di vista l’aspetto centrale del confronto, consapevole che “la persona reale diventa il ruolo che ci si è creati”. Lei ha un compito, per non dire una missione perché “il narratore non può raccontarti solo una storia, qualcosa che è successo, per mero intrattenimento. Il narratore deve raccontartela con un motivo” e in filigrana domande e risposte formano anche una specie di manuale di istruzioni riassuntivo per inoltrarsi nella sua biografia e per avvicinarsi al suo lavoro, che poi coincide con la scrittura. Per Joan Didion è soprattutto elaborazione e lo dichiara apertamente: “Per cui se vogliamo capire ciò che pensiamo, dobbiamo lavorarci sopra e scriverne. E l’unico modo di lavorarci, per me, è scriverne”. Oltre all’attenzione al rapporto tra pensiero e scrittura che è una costante, altri temi ricorrenti sono il legame con la California e New York, più avanti il racconto della perdita del marito e della figlia, nonché il suo viaggio in Salvador. In quel frangente dirà, con Sara Davidson: “Non ho mai creduto che le risposte ai problemi umani si trovassero in qualcosa che si potesse definire politico. Pensavo che le risposte se c’erano, si trovassero da qualche parte nell’animo umano”. Il ritorno alle riflessioni sulla scrittura è continuo e assiduo e Joan Didion ci tiene a ribadire: “Non elaboro nulla finché non l’ho scritto”. Se la gestazione dei romanzi, del tempo, delle idee e delle routine sono argomenti su cui si spende con generosità, non mancano chiarimenti sulle sue principali influenze: Hemingway (“Ho capito molto sul funzionamento delle frasi. Come funziona una frase breve all’interno di un paragrafo, e come funziona una frase lunga. La posizione delle virgole. L’importanza di ogni parola”), Conrad (“Le frasi avevano un suono meraviglioso. Ricordo di essermi esaltata molto scoprendo che le frasi più importanti di Cuore di tenebra erano fra parentesi”), James (“È stato importante perché mi ha fatto capire che è impossibile fare la cosa giusta”) nonché quelli avversi (“Non ho mai letto Ragtime. L’ho aperto e mi sono accorta che aveva un ritmo molto pronunciato; quindi, l’ho messo via come un serpente”). È un aspetto su cui ritorna spesso e che la porta a concludere così: “Immagino che tutti i romanzi siano sogni di ciò che potrebbe accadere, o di cosa non vogliamo che accada. Quando ci si lavora, ci si muove come in un sogno. Per cui, in una certa misura, ovviamente, a popolare i tuoi sogni sono sempre gli stessi personaggi”. Alla fine “uno scrittore cerca di trovare la storia” e lei si confida con Dave Eggers: “Mi sembra di non aver fatto tutto nel modo giusto, di poter fare meglio, cose del genere. Dal punto di vista lavorativo, non mi sembra mai di aver fatto le cose per bene. Vorrei sempre averle fatte diversamente, meglio, in modo diverso”. D’altra parte c’è una considerazione più generale che è complementare e altrettanto efficace: “Mi sorprendo sempre di quanto semplici siano le cose che mi rendono felice. Sono felice ogni sera quando passo accanto alle finestre ed esce la stella della sera. Una stella, ovviamente, non è una cosa semplice, ma mi rende felice. Resto a guardarla a lungo. Sono sempre felice, davvero”. Le Ultime interviste sono parte di un lascito che definisce la scrittrice e la scrittura ed è facile essere d’accordo con Patricia Lockwood quando dice che “indizi grandi come una casa ci dicono che siamo di fronte a un soggetto fuori dall’ordinario”. Si era capito.
lunedì 20 gennaio 2025
Paul Bowles
Tangeri: un capolinea, l’ultima spiaggia e nello stesso tempo un crocevia brulicante di vita, immerso nella pioggia e in una nube d’alcol. Nelson Dyar ci arriva da New York come un messaggio in bottiglia. Ha lasciato un posto in banca, fonte di sicurezza e di noia, ed è partito con la certezza che “non doveva sussistere un briciolo di dubbio. Una vita doveva possedere tutte le qualità della terra da cui derivava, più la consapevolezza di possederle”. Per lui, quando sbarca a Tangeri “il passato non si poteva ormai più richiamare, il futuro ancora non era iniziato”. Dovrebbe lavorare nell’agenzia di viaggi di Jack Wilcox, ma il condizionale è d’obbligo perché Nelson Dyar si lascia coinvolgere dalle fitte trame di Tangeri, che Paul Bowles delinea attraverso una concatenazione di frasi che, una dopo l’altra, evocano un destino imprevedibile. Per ogni incontro, Dyar tenta di collegare entità che vede vicine ma che sono distanti, se non contrastanti, provando “la sensazione di irrealtà era troppo forte, dentro di lui e intorno a lui. Acuta come un mal di denti, definita come l’odore dell’ammoniaca, e tuttavia impalpabile, inindividuabile, una grossa macchia sullo specchio della sua coscienza”. Tangeri diventa una bolla effervescente sul punto di esplodere ed è anche una palude dove si vende e si compra tutto: un commercio continuo in un labirinto di vie, scalinate, pertugi, albergi disadorni, bar affollati e fumosi in cui “credere o dubitare dipende dalla volontà di credere o dubitare”. Per tre quarti Lascia che accada (almeno finché lo scenario è Tangeri) è un continuo intersecarsi di appuntamenti ad alto tasso alcolico, dove Nelson Dyar non riesce a distinguere le opportunità dai rischi e si muove in un limbo in cui “ogni cosa avvenuta era troppo incredibile, ed egli la considerava con quella indefinibile, distaccata attenzione con cui si guardano le cose in sogno, quel genere di sogni in cui il più semplice oggetto, ogni movimento, persino la luce del cielo sono gravidi di un muto significato”. Questa specifica condizione, a metà strada, in transito e al limite, lo spinge a varcare una soglia invisibile e a trovare un’opzione per elevarsi e compiere quella decisiva trasformazione per cui ha attraversato l’Atlantico. Accetta un lavoro equivoco e poi uno strano incarico ancora più ambiguo. Trova un compagno e/o complice in Thami: anche lui come Dyar è un reietto, ripudiato dalla famiglia perché ha sposato la figlia di un pastore. I due si incrociano e Dyar vede in Thami la possibilità di lasciare Tangeri con una cospicua somma di denaro. Un colpo solo, e la partita è vinta. La traversata sul mare e il viaggio sulle alture delle scogliere è una delle parti migliori di Lascia che accada in cui Dyar si sente parte di un paesaggio impervio e maestoso, dove “la configurazione del suolo appariva come l’espressione di un dramma nascosto di cui doveva a ogni costo scoprire l’enigma”. In quel momento specifico, il passaggio dall’alcol al kif e all’hascisc genera una condizione ombrosa e pericolosa, che sfocerà in un finale inaspettato. Paul Bowles consente ai protagonisti di Lascia che accada di caracollare in libertà in cerca di qualcosa di indefinito, il più delle volte attratti da corrispondenze improbabili, in particolare verso i numerosi personaggi femminili, non accomodanti e spesso fulcro dell’azione: Eunice Good, intenta a “riempire le pagine dei suoi quaderni di parole, qualche volta persino di idee”, Daisy, madame Papconstante e la contesissima Hadija contribuiscono a sviluppare quell’atmosfera in cui “comunque si agisca, tanto l’individuo che il giorno vanno sempre a finire nell’oscurità” e a rendere Lascia che accada una torbida e irrisolta discesa nella dissoluzione.
mercoledì 15 gennaio 2025
Evan Wright
Tra le prime forze di terra che hanno inaugurato l’invasione dell’Iraq nella primavera del 2003, i marines non hanno mai messo in discussione i motivi, le armi di distruzione di massa che non esistevano o il controllo delle forniture petrolifere o qualsiasi altro obiettivo geopolitico dichiarato o non. Il loro comandante James Mattis (soprannominato Mad Dog, cane pazzo; nome in codice: Chaos) ha mandato il battaglione First Recon, un’unità d’élite addestrata ad arrivare sul campo di battaglia via mare, a solcare il deserto a bordo di veicoli su quattro ruote. Una scelta che è già abbastanza bizzarra, ma non è l’unica. Non preparati, non attrezzati, per i marines ogni singolo dettaglio è una questione, a partire dalle necessità primarie: bere e mangiare, dormire, sopravvivere. Eseguono gli ordini, che spesso sono contraddittori, il cibo e l’acqua sono scarsi, il movimento dal Kuwait a Baghdad è a singhiozzo, tutta la missione sembra fatta apposta per finire di proposito in un’imboscata, come se fossero esche. Si scoprirà, in effetti, che il tragitto del First Recon rispetto alle altre forze statunitensi e britanniche è un vero e proprio diversivo. Sono accompagnati da un reporter, Evan Wright, che riesce a cogliere gli aspetti drammatici e a tratti surreali che avvolgono tutta l’operazione, a partire dalla cultura stessa del corpo dei marines, che si alimenta di una specie di argot farcito di insulti, improperi, bestemmie e volgarità assortite, il più delle volte razziste e omofobe. Senza un attimo di tregua: il linguaggio crudo, rozzo e spietato è l’elemento trainante di Generation Kill e nella rappresentazione di Evan Wright è un non stile: la scrittura è scabra, immediata, senza filtri e, se non altro, appropriata al contesto. Nonostante sia un giornalista embedded, con tutte le relative restrizioni, osserva e prende nota in tempo reale delle tempeste di sabbia, delle strade disseminate di spazzatura, rottami e cadaveri, dei cani randagi, degli stop and go in mezzo alla sabbia nonché dei combattimenti, del fuoco amico e delle vittime civili. Le regole di ingaggio sono in contrasto con l’istinto e la memoria muscolare dovuta all’addestramento e i marines hanno a disposizione un arsenale spaventoso che, oltre alle armi personali, comprende elicotteri, artiglieria, carri armati e bombardieri. I tragici risultati li conosciamo ed Evan Wright ha la premura di approfondire le condizioni folli ed estreme in cui si ritrovano i marines del First Recon, età media poco più di vent’anni. Spinti da un “adolescenziale senso di invulnerabilità” condito da talismani, precauzioni, superstizioni (compresa l’ossessione per le caramelle dalle razioni da campo che vengono scartate perché portano sfortuna), costretti a passare la notte nelle buche e le giornate esposti agli elementi, alle incombenze delle catene di comando, nonché ai colpi di un nemico sfuggente o ai proiettili vaganti degli alleati, i marines sono così tesi e nervosi da scambiare una scoreggia per un attacco di mortaio. Non manca nemmeno l’aspetto più comico, in Generation Kill: l’impossibilità di distinguere le notizie reali dalle voci, dalla propaganda e dalla “nebbia di guerra” non impedisce a Evan Wright di tessere una sottile trama incisa dialogo per dialogo. Ne viene fuori una testimonianza a distanza ravvicinata dentro una brutale ordalia di violenza senza fine a cui, dal suo punto di vista, concede solo l’onore delle armi. Durissimo, ma onesto.
venerdì 10 gennaio 2025
Peter Straub
Qualcuno ha approfittato delle storie e le storie si sono ribellate perché hanno un potere incontrollabile ed è vero che “abbiamo tutti bisogno d’essere razionali”, ma poi qualcosa sfugge al controllo e l’imprevedile, l’inafferrabile e l’inaudito scatenano il caos contro la realtà. La Chowder Society di Frederick alias Ricky Hawthorne (e della moglie Stella), John Jaffrey, Lewis Benedikt, Sears James, ed Edward Wanderley che è morto giusto un anno prima, ha un grossa responsabilità per quello che accade nei giorni di Natale, a Milburn, un villaggio suburbano nello stato di New York. L’inverno è già abbastanza allucinante, ma il circolo di letture e racconti corroborato dal whisky si trova a confrontarsi con le ombre del passato e allora chiede aiuto a Don Wanderley, nipote dell’illustre membro scomparso e scrittore, che è un po’ (suo malgrado) l’anfitrione e la guida di Ghost Story. Combattuto perché “spesso le cose terribili che immaginava, le cose peggiori, non succedevano; sul più bello il mondo si scuoteva e ogni cosa tornava a posto”, si ritrova nell’epicentro di un lotta impari al punto di avere “la sensazione che tutto ciò che succede abbia un rapporto diretto con il mio scrivere”. Un’intuizione che sarà molto utile nel corso degli eventi. L’evocazione di spiriti e di misteri è l’inizio di un big bag spaventoso. Milburn viene attaccata, ma è un’implosione, a ben vedere: le pericolose relazioni sotterranee e le tensioni accumulate emergono all’unisono e la città pare attraversata da un’onda di follia. Don Wanderley, che resta il più accorto tra i protagonisti di Ghost Story, si premura di avvisare: “Vedete, abbiamo luoghi in cui occorre stare attenti di notte, gli anni non ci hanno lasciato tutti incartapecoriti e innocenti”. Si aprono porte reali e oniriche e tutta una progenie di femme fatale si incarna via via in Alma Mobley, Anna Mostyn, Ann-Veronica Moore ed Eva Galli, figure evanescenti e crudeli assecondate da “creature della notte” che affollano sogni e incubi. Quello che hanno fatto (e nascosto) negli anni della gioventù gli adepti alla Chowder Society cambia di prospettiva e così i fantasmi diventano delle possibilità come se “si fossero ormai da molto inseriti in un tempo in cui la follia forniva un quadro degli avvenimenti molto più attendibile della razionalità”. Cliché, simbolismi e metafore del caso ci sono tutti e la dissoluzione riguarda vittime e carnefici, in un finale tumultuoso e convulso, uno spettacolare capitolo di un “interminabile fumettone dei diseredati d’America” dove non c’è differenza (o quasi) tra vivi e morti, a riprova, come sostiene Peter Straub, che “le storie dell’orrore funzionano quando sono grandiose e sgargianti, quando la loro dinamica non viene ostacolata”. Ghost Story è proprio uno di quei casi e, dentro lo sviluppo di un moderno gotico, c’è un compendio di tutti i capisaldi del soprannaturale: si trovano Vincent Price ed Edgar Allan Poe e La notte dei morti viventi ed è attraversato da vampiri, lupi mannari, forme mutanti mostruose, affamate e perse nei secoli e, naturalmente, dozzine di spettri che scorrazzano impuniti per le strade di Milburn. È allora che Don Wanderley capisce come “nella vita nulla si risolve, nulla quadra” e, non a caso, con lui tutti i cittadini terrorizzati “udirono la musica echeggiare nella città, squilli di tromba e sassofoni, la musica dell’anima nella notte, la liquida musica del ventre d’America” che va a sommarsi alle canzoni di Dolly Parton, Loretta Lynn, Willie Nelson, Count Basie, Aretha Franklin e Benny Goodman e con questa colonna sonora, una volta arrivati in fondo, si comprenderà anche l’enigma di una bambina con un uomo e un pugnale con cui Ghost Story era cominciato.
giovedì 9 gennaio 2025
Louise Glück
Una lingua piana, parlata, semplice che si adatta alla quotidianità di tutti i giorni è la materia specifica della poesia di Louise Glück e, a maggior ragione, nell’avvicinarsi a Una vita di paese è, in pratica, una scelta tanto obbligata quanto convinta. Nell’osservazione meticolosa della vita di una small town, il lavoro di descrizione e memoria ha bisogno di rinnovare le motivazioni, ben sapendo che “ogni persona ripone la propria speranza in un luogo diverso”. Questa collocazione nella vita in campagna, in corrispondenza della terra, offre la dimensione ideale per una ricognizione ravvicinata delle interazioni tra gli abitanti e l’habitat circoscritto compresi gli animali (anche i lombrichi), le piante (l’ulivo, tra gli altri) e gli elementi del territorio (il fiume, più spesso di tutti). Non solo hanno la stessa dignità degli esseri umani, sono anche l’occasione propizia per ridefinire un punto di vista, come poi succede con l’apparizione dei Pipistrelli: “Ci sono due tipi di visione: vedere le cose, che rientra nell’ottica, e di contro vedere oltre le cose, che deriva dalla privazione”. Questo è un passaggio particolarmente rivelatorio che colloca Louise Glück in un ambiente limitato, circoscritto e molto preciso da dove può scrutare un’idea, quella che rende esplicita in Crepuscolo: “Nella finestra, non il mondo, ma un paesaggio squadrato che rappresenta il mondo. Le stagioni cambiano, ciascuna visibile solo per alcune ore al giorno. Cose verdi seguite da cose dorate seguite dal bianco, astrazioni da cui derivano piaceri intensi, come i fichi in tavola”. Le osservazioni toccano lo scorrere dei periodi di passaggio in passaggio come avviene in Marzo (“Il sole batte sulla terra, che lussureggia. E ogni inverno, è come se la roccia sotterranea si sollevasse sempre più e la terra diventasse roccia, fredda e respingente”) o semplicemente dell’avvicendarsi del giorno con la notte in Abbondanza (“La luna è piena. Dal campo arriva un suono strano, forse il vento”) come l’accorgersi di un ritmo che supera i calendari, così descritto in Alba: “Anni e anni, ecco quanto tempo trascorre. Tutto in un sogno”. Una vita in paese consente di valorizzare atti e scenari bucolici: per esempio, raccogliere e “bruciare le foglie” diventa una sorta di ritornello, o forse un rituale che si ripresenta spesso, quasi a ricordare i limiti, ovvero i contorni, i cicli, le radici. La forma è sempre diretta, immediata: i versi di Louise Glück trasmettono come non mai un senso di appartenenza fuori dal comune espresso in Solitudine: “Ora ritorniamo a essere come eravamo, animali che vivono nell’oscurità senza linguaggio o visione”. Le coordinate partono un angolo remoto per arrivare a una dimensione più ampia, e in gran parte da esplorare. Ancora in Crepuscolo Louise Glück vede e sente un “mondo visibile, linguaggio, stormire di foglie nella notte, odore d’erba alta, di fumo di legna”, e siamo di nuovo nell’ambito locale e rurale, più vicino alla terra che al cielo, ma in Una vita di paese le sorprese, a saperle trovare, sono dietro l’angolo, come specifica in Trebbiatura: “Quella volta nel bosco: quella era la realtà. Questo è il sogno”. Le parole, anche plain spoken, offrono un’altra possibilità, molto più grande, se non proprio universale.
martedì 7 gennaio 2025
Mark Davidson, Parker Fishel
Per sopravvivere in un mondo spietato, ci vogliono “sogni fatti di ferro e acciaio”, quelli a cui Dylan ha dedicato una vita intera, raccontata ancora una volta in Mixing Up The Medicine. In un modo un po’ diverso: l’introduzione per sommi capi di Sean Wilentz, che elenca sintomi e postumi della dylanite acuta, lo considera “una sorta di biografia alla rovescia”. Non è ben chiaro cosa voglia dire, se non assecondare la direzione indicata da Dylan in No Direction Home: “Gli artisti non devono mai ritrovarsi a un punto in cui pensano di essere arrivati da qualche parte... Bisogna rendersi conto di essere continuamente in divenire, e finché si riesce ad abitare quello spazio, in un certo senso si starà bene”. Gli archivi dylaniani di Tulsa da cui ha preso forma Mixing Up The Medicine costituiscono un elemento da affrontare con cura perché il processo di scrittura, di composizione non si ferma (come sappiamo) alla canzone più o meno conclusa, ma segue tutta un’evoluzione senza sosta, come evidenzia la poetessa nativa Joy Harjo: “Nel corso degli anni, è capitato spesso che Dylan, suonando e registrando la canzone, cambiasse le strofe, aggiungendo e sottraendo elementi. Ammiro questo tipo di approccio, perché riflette il cambiamento costante delle storie. Cambia il modo in cui le raccontiamo, in cui le viviamo, mentre ci muoviamo nel tempo e nella storia”. Take dopo take, taccuino dopo taccuino, è una metamorfosi continua perché la sua tensione è proprio quella che cantava in Tombstone Blues: “Vorrei poterti scrivere una canzone tanto pura, che ti impedisca di impazzire”. Una bella missione. La ricchezza delle esplorazioni dylaniane è ben documentata e il tono dei due curatori è sempre molto attento e adatto a collegare le numerose testimonianze. Al loro testo, adatto agli esegeti come ai neofiti, vanno sommati i contributi di artisti e appassionati assortiti (John Doe, Richard Hell, Tony Glover, Mike Campbell, Jeff Slate, Greil Marcus, Tom Piazza, Amanda Petrusich) che, proprio a partire dalle canzoni, conducono dentro una generosa offerta che secondo Michael Ondaatje è “piena di spettacolari possibilità”. La più importante è poter osservare l’infinito work in progress dylaniano da vicino, come scrive Lucy Sante: “Lo vediamo in auto, nei bar, negli aeroporti e nelle stazioni di servizio, nei portici e nei salotti, magari con gli occhiali da sole, mentre fuma sigarette, incontra persone interessanti, ascolta la radio in auto o in cucina, libera parole e frasi dall’accumulo del suo subconscio e le lascia volare, finché queste non completano il loro migrare e tornano a casa. È bello come guardare un film”. La sensazione cinematica in effetti è costante: le immagini di Dylan si susseguono e dall’archivio di Tulsa erompe un’iconografia altrettanto florida delle parole. L’idea di un “artista visivo” rispecchia in modo adeguato una storia lunga mezzo secolo perché le mutazioni dylaniane vengono osservate attraverso gli “oggetti” che sono importanti, come scrive Lee Ranaldo, e i ritratti, non a caso i fotografi accreditati sono almeno il doppio degli scrittori. Un’esperienza multiforme, tra Nobel e Oscar, tour e dischi: la musica ti viene incontro con un senso di movimento mentre stai solo leggendo un libro (enorme). Ed è così che Mixing Up The Medicine rispecchia quello che sostiene uno ben informato, Terry Gans, ovvero che “non esiste un Sacro Graal che sveli il mistero di Bob Dylan”. Giusto. Ci sono intere moltitudini di prospettive e quella strana sensazione, riportata alla perfezione da Allison Moorer: “Non sapevamo di averne bisogno finché non ci è stato dato, finché non l’abbiamo ricevuto”. Tra le tante annotazioni firmate poteva starcene una molto interessante di Mary Shelley, peraltro citata in più di un passaggio. L’autrice di Frankenstein diceva che “lo ieri dell’uomo non può mai essere come il suo domani; non v’è niente che duri, tranne la mutevolezza” e lì si capisce come Mixing Up The Medicine diventi il riassunto definitivo di Dylan (forse).
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