martedì 29 dicembre 2020

Flannery O’Connor

Qui dentro c’è  il testamento spirituale, la cassetta degli attrezzi, il canovaccio di Flannery O’Connor. Un ragionevole uso dell’irragionevole condensa in un solo corpo due due volumi, Nel territorio del diavolo e Sola a presidiare la fortezza. Come è noto, il primo è frutto dei “saggi sulla scrittura” ed è un’articolata analisi che affronta le motivazioni, le ambizioni, i sedimenti di una vocazione perché “l’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità”. La seconda metà contiene invece quel nutrito epistolario che rivela gli aspetti più intimi, pungenti, persino divertenti di Flannery O’Connor, a partire dal legame con i suoi famigerati pavoni. Riepilogando, la parte più consistente riguarda l’assiduo confronto con la narrativa in tutti i suoi aspetti: l’elenco delle digressioni comprende “il fatto che sia concreta”, che “è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato ricettivo” dato che “comincia laddove comincia la conoscenza umana, con i sensi” e che, proprio per questo, “è la più impura, la più modesta e la più umana delle arti”. La panoplia dei comandamenti di Flannery O’Connor è vasta e piena di molteplici sollecitazioni: se “il mondo dello scrittore” è “ colmo di materia” e nello stesso tempo anche “del mistero che viene vissuto”, non c’è contraddizione dato che “c’è qualcosa in noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto di redenzione, che richiede se non altro di offrire a chi cade la possibilità di risorgere”. Le considerazioni teoriche di Flannery O’Connor hanno un’alta densità specifica ed è perentoria quando definisce il racconto “un modo per dire qualcosa che non può esser detto in nessun altro modo; per trasmettere il significato, ogni singola parola è indispensabile. Le storie si raccontano perché una dichiarazione risulterebbe inadeguata”. È attorno a questo compattissimo nucleo si proiettano le enunciazioni di Flannery O’Connor finché arriva alla conclusione che i romanzi più interessanti “sono quelli che ancora non sono stati scritti”. È per questo che, pare assicurarsi la O’Connor, “quando parliamo della terra dello scrittore, siamo inclini a dimenticarci che, qualunque terra sia, essa è dentro come fuori di lui. L’arte richiede un delicato adattamento tra il mondo esteriore e quello interiore, in modo che, senza snaturarsi, possano essere l’uno il riflesso dell’altro. Conoscere se stessi è conoscere la propria regione. È anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo”. Dalle profondità della sua solitudine, le lettere sono l’unico collegamento e Sola a presidiare la fortezza offre un ampio spettro della sua vita quotidiana: i dubbi riguardo Il cielo è dei violenti, gli scambi con Elizabeth Bishop, l’incontro con Katherine Ann Porter, le missive a John Hawkes e ai suoi editori, le difficoltà a “collaborare” con il resto del mondo (“Gli allievi di scrittura erano ben pochi e alla lettura pubblica il pubblico non c’era. E il tempo faceva schifo”) fino alle confessioni riguardo alla malattia. Così assemblata la ricchezza della composizione letteraria di Flannery O’Connor è ancora più evidente (e corposa). Rileggerla e consultarla spesso è un atto dovuto, se non proprio obbligatorio.

lunedì 28 dicembre 2020

Jeff Tweedy

Nei memoir delle rock’n’roll star c’è sempre un fragile equilibrio tra la volontà di aprire scatole piene di ricordi e il timore delle rivelazioni che ne possono uscire. Il più delle volte, i racconti si barcamenano tra l’urgenza della confessione e le nebbie colorate della fiction, ma non è il caso di Let’s Go (So We Can Get Back) perché come dice subito Jeff Tweedy, a scanso di equivoci: “Non è un romanzo, quindi immagino che il mio unico compito sia dire la verità”. L’intenzione è nobile, le precauzioni sono obbligatorie: Jeff Tweedy è una personalità tormentata dai sensi di colpa e da una fragilità, che lui chiama “vulnerabilità”, che ha nascosto a più riprese dietro un sipario di alcol e droghe. L’onestà con cui racconta le fasi complicatissime della tossicodipendenza, una parte consistente di Let’s Go (So We Can Get Back), è senza dubbio una componente meritevole, soprattutto nella lucidità con cui Jeff Tweedy distingue il dolore e la malattia dai processi creativi: “Credo, infatti, che gli artisti creino nonostante la sofferenza, non grazie alla sofferenza. Non me la bevo proprio. Tutti soffrono, a modo loro, e credo che tutti abbiano la capacità di creare; ma penso che trovare nell’arte uno sfogo per il disagio o un modo di reagire alle avversità sia solo questione di fortuna”. Un po’ di casualità va messa in conto anche nell’addentrarsi in Let’s Go (So We Can Get Back): se all’inizio è la passione istintiva per la musica, con London Calling dei Clash e Born To Run di Springsteen a fare da detonatori, poi partono le dinamiche della vita nelle rock’n’roll band, dove Jeff Tweedy si è concesso una certa disinvoltura nel trattare con gli altri, e qui sfilano i contrasti con Jay Farrar negli Uncle Tupelo e poi con Jay Bennett (e non solo) nella prima versione degli Wilco. Va detto che Jeff Tweedy non risparmia le testimonianze sulle pratiche fallimentari dell’industria discografica che attorno a Yankee Hotel Foxtrot ha consumato tutto il repertorio di banalità, errori e idiosincrasie, senza accorgersi di avere di fronte un album destinato a diventare un classico. La cronaca di quel momento (epocale, e non solo per i Wilco) è condizionata dalla natura fluttuante di Let’s Go (So We Can Get Back): alcuni passaggi sono particolarmente toccanti, qualche divagazione è inconsistente e si nota più di una ripetizione, soprattutto quando parla dei genitori, quasi a voler ribadire i contorni di un’identità sfuggenti. È evidente che Jeff Tweedy è molto più spontaneo, quando parla delle sue letture (James Joyce, William Gass, Emily Dickinson, Henry Miller), del songwriting (“Credo che quasi tutti gli autori di canzoni, tranne forse quelli più originali e talentuosi, ci mettano un po’ a trovare la loro voce. In quel caso, la cosa migliore è fingere. Continuare a provarci, finché non ci si riesce per davvero. Ci lavori ancora e ancora, e se tutto va bene alla fine ce la fai”), del lavoro quotidiano (“Cerco di creare qualcosa di nuovo ogni giorno, qualcosa che non esisteva quando mi sono svegliato. Non deve essere lungo o perfetto o gradevole. Basta che sia qualcosa”) e della creatività (“La gente cerca ispirazione e speranza, e se avete una o l’altra dove condividerla. Non per la gloria personale, ma perché è la cosa migliore da fare. Quello che create non è soltanto vostro”). Fuori da questi binari Jeff Tweedy risulta un po’ impacciato persino nel confronto con moglie e figli e, in questo, è probabilmente, sincero anche nella ricostruzione offerta in Let’s Go (So We Can Get Back), a maggior ragione quando, alla fine, deve svelare il suo segreto: “Devi accontentarti del piacere che provi nel farla, la musica, e non puntare sul fatto che ti renda ricco, o che serva a pagare le bollette. Se ti fa stare bene, e quando ti svegli al mattino hai voglia di tornare in studio e creare qualcosa di nuovo, be’, non c’è un cazzo da fare, quello nessuno te lo può togliere”. È l’unica ammissione che conta, ma ci vuole un bel po’ per arrivarci.

giovedì 24 dicembre 2020

Ted Gioia

In uno dei passaggi più complessi nell’evoluzione del Delta Blues, per spiegarne le origini, Ted Gioia lascia opportunamente la parola a John Lee Hooker: “Io lo so perché i migliori bluesman vengono dal Mississippi. Perché è lo stato peggiore. Chi sta laggiù nel Mississippi ha il blues dentro per forza”. È un riconoscimento importante, perché il lavoro di Ted Gioia ha il pregio di offrire una visione completa del Delta Blues che si snoda nell’intersezione tra due secoli, e in un contesto storico in profonda evoluzione. Ecco, quest’attenzione è fondamentale nell’identificare le condizioni in cui si è sviluppato il blues, che dipesero “in larga misura, è lecito pensarlo, dalla pervasività della visione del mondo che avevano i neri e dal loro relativo isolamento dalle consuetudini della vita cittadina”. Giusto un secolo fa, Mamie Smith incideva Crazy Blues, considerato un momento di svolta anche da Ted Gioia, essendo il blues, sì, come diceva W.C. Handy, “una musica nata dalla terra”, ma destinata comunque a trovarsi un mercato. Nella ricostruzione dei rapporti, del tessuto economico e sociale, Ted Gioia è puntuale nel raccontare alti (pochi) e bassi (molti) nei rapporti con l’industria discografica, ricordando come “il musicista americano di blues, al contrario, ha sviluppato una musica di espressione personale, riflettendo spesso una mancanza di legame con la maggior parte della società, evocando atmosfere di alienazione e anomia. Fu la schiavitù a creare questa terribile divisione. La schiavitù distrusse in larga parte il tessuto sociale, i valori e i modi comuni, le continuità storiche che aveva reso possibile l’arte del griot. Da molti punti di vista il blues è stato una risposta a questa deprivazione”. Ted Gioia illustra anche l’importanza del lavoro di ricercatori e appassionati nel creare l’aura di mistero e fascino cresciuta attorno al Delta Blues: dal seminale The Country Blues di Samuel Charters al lavoro di John e Alan Lomax, dalla leggendaria ricerca di Mack McCormick fino a John Fahey, a furia di cercare un mito l’hanno creato, come se l’assenza fosse più determinante della realtà. In effetti, quello del Delta Blues è un mondo di ombre, perché “i pionieri del blues hanno esplorato territori musicali ancora sconosciuti, e anzi nemmeno immaginati, dai sinfonisti. Come pittori dalla tavolozze magiche contenenti sfumature dello spettro fino ad allora sconosciute, questi umili musicisti, disprezzati per classe e razza, offrirono ai loro contemporanei un vivido mondo di nuovi timbri, vibranti di scontri e dissonanze, urla e lamenti, una musica che si adattava perfettamente a fare da sfondo alla vita moderna americana, con la sua cacofonia sociale di superficie e la sua profonda anomia, i suoi drammatici contrasti e la sua ritrovata volontà di riflettere su se stessa”. Al centro di Delta Blues, c’è ovviamente Robert Johnson, il primo fra i fantasmi americani, ma anche il più sfuggente, con cui Ted Gioia rispolvera dubbi, diatribe e contrasti nati attorno alle leggende che proliferano quando “il prodigio cattura la nostra immaginazione”. Nello stesso tempo documenta l’evoluzione concreta di vite e carriere di Son House, Kid Bailey, Honeyboy Edwards, Peetie Wheatstraw, Mississippi Sheiks, Big Joe Williams, Johnny Shines, Ma Rainey, Bessie Smith, Tommy Johnson, Charley Patton, Willie Brown, Kokomo Arnold, Tommy McLennan, Robert Nighthawk, Sunnyland Slim o Little Walter. Il tono è preciso e accurato, a rischio di apparire didascalico, ma è fin troppo evidente che Ted Gioia ci tiene a spiegare a fondo, e con precisione, la natura del blues, che non è così semplice. Di sicuro è un valido strumento sia per approfondire e/o ripassare, sia per i neofiti che qui trovano una guida perfetta per inoltrarsi dal Delta Blues  fino al passaggio verso le città, Chicago in primis, sull’onda della grande migrazione raccontata da Isabel Wilkerson con protagonisti Muddy Waters, Jimmy Reed, Howlin’ Wolf e la riscoperta di bluesman come Mississippi John Hurt, Fred McDowell e Bukka White nonché il revival che, tra gli altri, porta Skip James a Newport nel 1964, e da lì poi Ted Gioia arriva fino ai nostri giorni con la Fat Possum e i North Mississippi All Stars. Ottimo e abbondante.

giovedì 17 dicembre 2020

Nelson George

“L’hip hop è iniziato nella verità, si è evoluto nel mito ed è degenerato in una fabbrica di soldi” scrive Dwayne Robinson nelle prime pagine di Il complotto contro l’hip hop. Il manoscritto inedito e il fantasma del suo autore sono il fulcro segreto a cui ruota attorno la trama di Il cuore più buio e il collegamento principale con Funk e morte a L.A., ma la nuova avventura di D Hunter, nel frattempo diventato manager e imprenditore di successo, serve a Nelson George per spiegare come l’avvento di Trump sia frutto di un modello esemplare di reverse engineering dell’hip hop, avendone usato i meccanismi, l’attitudine, gli strumenti. È quello che fa il mercato e Nelson George è esplicito quando scrive che “D riteneva che Trump meritasse un posto speciale all’inferno per aver combinato l’estetica rap con il razzismo”. Ma come è possibile che un grossolano piazzista di amenità, la cui sopravvivenza “era basata sulla falsa onestà e sulle menzogne” sia stato capace di interpretare e riciclare i codici dell’hip hop in modo da stabilizzare “una connessione tra l’imprenditoria e il governo per utilizzare la cultura come uno strumento per il controllo della popolazione”? La tesi che scuote come una scossa elettrica Il cuore più buio ha radici che risalgono agli albori dell’hip hop visto che David Toop, ancora nel 1984, diceva che “la cultura di strada è sempre stata un serbatoio di brividi di seconda mano per il mercato di massa”. Quello era solo l’inizio: seguendo le indaffarate giornate di D Hunter, tra gli interessi di Lil Daye e Mama Daye ad Atlanta, gli ologrammi di R’Kaydia Lelilia Jenkins e il comeback di Night a Los Angeles, si scopre che “il mito è sopravvissuto alla verità (come spesso accade), i dettagli sono diventati confusi (anche per coloro che lo hanno vissuto) e alla fine non sono rimasti che i cliché”. L’hip hop è diventato una vena di un apparato circolatorio in cui scorre una vorticosa corrente di affari, prodotti, gadget, soldi. A confronto, l’intuizione di David Foster Wallace per cui “la vitalità del mondo del rap è fatta di successive sostituzioni, oltre che di varietà, il che permette al genere di restare nuovo anche mentre un gruppo dopo l’altro cede alle lusinghe e fa il suo ingresso nel vero mondo dell’industria musicale”, sembra persino ingenua, ma, per quanto datata, contiene ancora un grumo di verità. Il ritmo sincopato degli eventi, le trame che si sovrappongono, il business che diventa la mercificazione di ogni cosa (legale e non), soprattutto delle singole personalità è il guano in cui sguazza D Hunter. L’appariscenza estrapolata ai massimi livelli, tra il cibo vegetariano, le palestre, un’attitudine salutista e una vita spericolata, l’ambizione a entrare nella televisione, perché anche i più duri voglio una parte in un film (ma Hollywood sembra inarrivabile), fa sì che tutti siano uguali e intercambiabili anche perché “non ci sono veri custodi in America, solo venditori per i quali il modello di quest’anno è materiale da discarica dell’anno prossimo”. Se una volta l’obiettivo era il successo di un album, nell’era di Trump è diventato un posto nel consiglio di amministrazione di una multinazionale. In fondo, D è solo un messaggero e dato che “il passato non muore mai” riallaccia i rapporti con personaggi già visti in azione, e il confine tra nemico e alleato è labile. La più in forma, al momento, è Serene Powers, che si trova a lottare con un traffico di esseri umani (donne, giovani), ma è il ritorno di Ice che permette a D Hunter di saldare i conti ad Atlanta, Los Angeles e persino a New York. Pervaso dai fantasmi di Tupac Shakur e Notorious, il legame tra Ice e D ripercorre gli annali dell’hip hop sulle due diverse coste, e il fitto campionamento delle storie (e delle canzoni) di Nelson George ha trasformato Il cuore più buio in una specie di reality travestito da romanzo, dove, tra un colpo di scena e l’altro lascia emergere, grazie al suo protagonista preferito, un semplice rilievo: “La notte in cui Trump fu eletto, D sapeva che stava per succedere qualcosa. Aveva trascorso troppe notti a tenere d’occhio i bulli nei locali: se percepivano la tua debolezza, ti saltavano addosso”. Colonna sonora (obbligatoria): The Chronic di Dr. Dre.

lunedì 7 dicembre 2020

Edmond G. Addeo

Se il blues si forma nella leggenda tanto vale trattarlo da leggenda, con la certezza che un romanzo merita più di una biografia. La logica di Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin magari non è formalmente corretta, ma calza alla perfezione al personaggio, visto che Leadbelly “amava a tal punto le proprie favolette che di rado le escludeva dalle proprie rievocazioni a uso e consumo degli studiosi del folklore, che le riportavano quasi sempre come se fossero vangelo”. La scelta di una versione romanzata (comunque fondata su una solida e validissima ricerca documentale) contribuisce a restituire per intero la tormentata umanità di Leadbelly, che “preferiva il colore all’esattezza”, e viene riscoperto così in tutti i dettagli di un’esistenza dolorosa e controversa, dove il fatto di essere negro è stata una condanna che gli ha pesato fino alla morte. La sofferenza che si è portato dietro Leadbelly è un peso importante che lo ha attanagliato per tutta la vita ed è uno straziante carico di dolore che emerge in un ritratto completo e ricchissimo, senza gli obblighi della biografia e dei riscontri storiografici. È il motivo per cui la ricostruzione di Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin resterà sempre attuale, pur essendo stata scritta ormai più di cinquant’anni fa. Per Leadbelly l’incontro con il blues arriva prestissimo, all’inizio del ventesimo secolo, nella spiegazione di Sycamore Slim, un musicista conosciuto nei contorni di uno degli episodi più crudeli della sua storia: “È blues, Huddie. Non l’hai mai sentita perché non t’è capitato. Sai, qui in città i neri se la passano brutta. Ci sono bambini per strada, e con un papà che è andato chissà dove a lavorare nei campi. La raccolta del cotone ha bisogno di neri che si chinano e staccano il cotone e fanno le balle. E dopo una giornata hai le mani piagate e la schiena tutta incriccata. Poi torni a casa o dove stai e ti siedi e se hai fortuna trovi un goccio di whisky e una donna che ti fa da mangiare e pensi a cosa farai domani. La stessa cosa tutti i giorni. E ti cala addosso il blues”. Qualche anno più tardi, sarà Blind Lemon Jefferson a mostrargli il senso delle parole nel blues, oltre a guidarlo verso  la chitarra a dodici corde, che resterà il suo marchio di fabbrica. La lezione di Blind Lemon Jefferson lo introduce a “storie strazianti di sofferenze, malattie, siccità, storie di donne nei campi le cui dita sanguinanti macchiavano il cotone, di fruste messe in mano ai sadici e di bambini che tutti i giorni morivano per i morsi dei ratti, immagini di ossa che spuntavano dalla carne e occhi mancanti, di vecchi storpi e neonati morti e madri che vendevano il proprio latte”. Questo è il blues, e poi quello che Leadbelly sperimenta sulla propria pelle frequentando le peggiori galere americane, essendo piuttosto lesto nell’estrarre coltelli e pistole: da Huntsville in Texas ad Angola, in Loosiana (come è chiamata la Louisiana) dove viene registrato da John e Alan Lomax mentre suona per i suoi compagni di sventura, perché “certe volte quando ascoltano il blues dimenticano i guai. Non so perché, ma è così”. Se la parte più dura dovrebbe essere quella della prigionia (ed eccome se lo è: a rischio di apparire truculenti, Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin non risparmiano alcun particolare) quella più lacerante è nell’incontro con lo show business e i suoi meccanismi, e qui il romanzo arriva dove nessuna analisi critica si sarebbe potuta permettere. L’incontro con i Lomax, tra il 1933 e il 1934, lo conduce a Philadelphia, Washington, New York e poi a Hollywood e a Parigi, ma nonostante tutto Leadbelly è sempre un corpo estraneo. Troppo grosso e forte, troppo nero e ingombrante da passare inosservato è una figura imponente e scomoda, anche al cospetto di ammiratori e sostenitori dichiarati come Woody Guthrie e Pete Seeger. Alla loro presenza viene riportata una rissa con un altro bluesman, Josh White, ma è la combattuta identità dell’artista e dell’uomo che esplode, soprattutto a New York, e ancora di più nelle strade di Harlem. La storia è brutale, senza censure e senza correzioni, come è la realtà, puro e semplice blues. Il linguaggio è quello che è e non c’è niente di politically correct: i negri sono negri, gli sbirri sono sbirri, la violenza è la violenza, l’America è l’America e il blues è il blues.

domenica 6 dicembre 2020

Harold Bloom

È un’antologia definitiva delle letture di Harold Bloom, ormai consapevole di essere giunto al capolinea, e nello stesso tempo una selezione di ricordi che vanno a formare una sorta di testamento spirituale, molto informale nella composizione, estremamente articolato nella sostanza. La prima parte è dedicata alle scritture sacre, ed è piuttosto criptica. È un percorso labirintico, trattandosi di argomentazioni teologiche, ma Harold Bloom pare assecondarlo con uno spirito cabalistico. Le sue esegesi sono però eccentriche, frutto di una libera interpretazione letteraria che affronta molti dei temi biblici con una verve creativa e allusiva. Quando arriva a proclamare che “qualunque istituzionalizzazione della profezia è un tradimento”, si capisce che il suo rapporto con la fede è molto elastico e che la benedizione che è andato cercando era essenzialmente laica. In effetti, Harold Bloom dice che “la mia religione è l’apprezzamento della letteratura alta. Shakespeare è il suo vertice. Per me, la rivelazione è shakespeariana o niente”, e con Shakespeare gioca in casa. Trattando il “sublime shakespeariano”, si dedica ai risvolti filosofici, nella parte più veemente di Posseduto dalla memoria. Shakespeare è riletto per l’ennesima volta, come se fosse una galassia da esplorare all’infinito: Harold Bloom affronta i suoi personaggi e a partire dall’amato Falstaff fino a Cleopatra rispolverando le letture con ampie citazioni delle opere shakespeariane. Le digressioni sono costanti e qui il critico lascia spesso il posto all’appassionato ben sapendo che “l’essenza dell’attrazione è l’ambivalenza, oltre a una sorta di ambiguità che si nutre di segretezza”. La terza sezione è dedicata a John Milton e nella quarta parte tocca a Walt Whitman e al “sublime americano”, che ha nel suo nucleo il self-otherseeing, ovvero “il legame tra la sorprendente esperienza di ascoltare noi stessi come se stesse parlando qualcun altro e la volontà di cambiare. Assai più impercettibile è il rapporto tra il vivere qualcosa che sembra accadere a un’altra persona e gli effettivi cambiamenti che hanno luogo in occasioni emotivamente intense”. È un po’ quello il cardine essenziale di Posseduto dalla memoria, ma i quattro quarti sono incastrati uno nell’altro da una raffinata coesione: le scritture sacre, Shakespeare, John Milton e Walt Whitman sono le pietre angolari che delimitano il campo dentro un gioco di diagonali che mettono in comunicazione e intersecano le figure inamovibili di Harold Bloom, che rispondono all’imperativo per cui “occorre spezzare la misura e l’equilibrio per ripristinare l’immagine dell’uomo completo”. Ed è così che il commiato di Harold Bloom rivela che esiste un legame in grado di unire la composizione di una poesia, le illusioni del ricordo e la vaga speranza di udire nuovamente, in qualche modo, la voce che precedette l’instaurazione di un cosmo abbandonato ed errabondo, in cui vaghiamo alla cieca, incapaci di distinguere cosa è stato e cosa desideriamo ritrovare”. L’epifania ha un nobile precedente quando Samuel Johnson diceva che “la poesia è l’arte di unire il piacere alla verità, chiamando l’immaginazione in soccorso della ragione”. Allora, avanzando tra i capitoli, il linguaggio si fa meno ostico: dalla contorta esegesi della prima parte all’inevitabile ridondanza dei capitoli shakespeariani, nella seconda metà Posseduto dalla memoria diventa più malleabile per arrivare ai toni confidenziali della fase finale, dove Harold Bloom ricorda amici, poeti e scrittori scomparsi, con un’accorata coda proustiana, introdotta da un puntuale accenno a Sant’Agostino e alla sua concezione del tempo. Il tono è quello, dichiarato, dell’elegia, l’atmosfera si fa crepuscolare e Harold Bloom più che “posseduto dalla memoria” pare prigioniero dei ricordi. Alla fine quello che può dire “la luce interiore della critica” è che “il terrore della vita può superare la paura della morte. Il silenzio, essendo innocente, non è in grado di dare risposte comprensibili”, e, in fondo, che la letteratura è l’unico e l’ultimo miracolo. C’è spazio per il ricordo dell’incontro con Weldon Kees a un concerto di Bud Powell con Curley Russell al basso e Max Roach alla batteria, nonché un aneddoto curioso con l’avvistamento di un alligatore propiziato da Richard Eberhart, un episodio che Harold Bloom non ha mai digerito del tutto, e si può ben capire. 

mercoledì 2 dicembre 2020

Tom Robbins

In Breve storia dell’ubriachezza, una stringata e ironica analisi sulle vicende dell’euforia alcolica, Mark Forsyth attribuisce alla birra attributi e potenzialità ancora più complessi di quelli descritti da Tom Robbins, con un grado di incidenza significativo negli annali storici  “Prima ancora di essere umani, siamo stati dei bevitori. L’alcol esiste in natura ed è sempre esistito. Quando la vita è cominciata, quattro miliardi e rotti di anni fa, c’erano microbi unicellulari che sguazzavano felicemente nel brodo primordiale, nutrendosi di zuccheri semplici ed espellendo etanolo e anidride carbonica. Pisciavano birra, in sostanza”. È una definizione che poteva stare benissimo nel racconto di Tom Robbins e va ricordato che, al pari del vino, la birra serve per evocare “lo spirito di cose assenti”, come diceva Roger Scruton in Bevo dunque sono, e resta un diversivo notevole, che serve a moltiplicare le congetture dell’esistenza degli uomini e delle donne. Più che il rapporto con l’infanzia, impersonato dalla curiosissima Gracie, che riesce a sollevare una lunga serie di quesiti sull’essenza stessa della birra, è la sua voglia di andare alla scoperta del mondo a determinare l’andamento della favola di Tom Robbins. La birra resta un piccolo (ma diffusissimo) espediente per raccontare come gli adulti bramino “l’alternativa alla realtà insoddisfacente che gli uomini si sono costruiti da soli, nella quale si sentono rinchiusi come in un segreta”. La birra è il viatico e la chiave che apre quella porta e la colorita fiaba, completa di cattivi che spuntano nella selva, è divertente e aggraziata, per niente imperdibile, ma ha un suo gusto, diciamo come la schiuma sopra il bordo del boccale, giusto per restare in tema. Nel descrivere la composizione chimica della bevanda, la sua intima natura, Tom Robbins sa essere esilarante, ma anche esaustivo e nell’insieme la favola morale sugli usi (e abusi) e costumi della birra è un po’ naïf, ma è pur sempre divertente, e non priva di alcuni specifici riferimenti scientifici e storici. Anche la fata della birra ha dei fondamenti nel folklore popolare (una figura leggendaria non dissimile volteggiava sopra la nobiltà egizia, per dire), soprattutto nel guidare verso quel mistero che è “tutto. E niente. Allo stesso tempo. A cosa assomiglia l’elettricità all’interno dei tuoi atomi? Qual è l’aspetto del per sempre e del riso e della libertà? È la faccia che tutti condividevano prima di nascere, è la barzelletta che tutti capiranno dopo essere morti. È il significato del significato, l’altro senza altro ancora, il chi di cui non esiste chi più grande”. Nel suo procedere, la saga della birra trova una concessione alla poetica di Tom Robbins che, anche in un contesto vagamente inconcludente, riesce a piazzare la sua zampata, dando forma a un’osservazione sognante: “Quando guardi nella nebbia e nella pioggia, fuori dalla tua finestra, non ti senti a volte come se nella vita ci fosse qualcosa di più di quello che rappresentano la televisione, il centro commerciale, l’asilo o perfino la tua famiglia? Come se ci fosse qualcosa di più grande e più strano, più vivo, libero e reale di quanto può offrire la normalità? Qualcosa che si trova oltre? E che sembra chiamarti, chiamarti anche se non conosce il tuo nome, il tuo indirizzo, se non sa quanti anni hai, senza dare importanza al fatto che tu ti sia lavata le orecchie o abbia finito i piselli?”, e la domanda è rivolta a Gracie che deve vedersela con lo zio Moe e Madeleine Proust, gli elfi dello zucchero, la differenza tra stout e pilsner alla ricerca di un senso che resta delizioso e impalpabile come il primo sorso di birra.

martedì 1 dicembre 2020

David Foster Wallace

Le interviste raccolte in Un antidoto contro le solitudine vanno dal 1987 al 2008 ed è impressionante notare come la densissima filigrana dei pensieri di DFW tenda via via a sfilacciarsi. Certo, la sua visione resta costante e coerente nell’arco di tutte le conversazioni, con una percezione della letteratura e della scrittura in generale che rimane acutissima, partendo dalla consapevolezza delle sue mutazioni: “In passato il compito della letteratura era rendere familiare ciò che era strano, portarti in un posto e fartelo apparire familiare. Ma mi sembra che una caratteristica della vita di oggi sia che tutto si presenta come familiare, quindi una delle cose che l’artista deve fare è prendere molta di questa familiarità e ricordare alla gente che è strana”. Alcune definizioni sono destinate a formare dei punti di riferimento classici, e così la sua prospettiva sulla realtà della comunicazione, a partire dal suo mezzo più ingombrante: “Una cosa che fa la televisione è aiutarci a negare la nostra solitudine. Attraverso le immagini televisive, possiamo avere un facsimile di relazione senza la fatica di una relazione vera. È un’anestesia della forma”. L’attitudine verso i suoi interlocutori è guardinga, sul piano personale, ma quando si tratta di discutere di letteratura, filosofia, linguaggio, DFW non si nasconde e usa l’intervista come uno strumento per esprimersi né più né meno della scrittura. È scrupoloso nelle risposte, mantiene intatto l’entusiasmo e intervista dopo intervista non manca di ribadire alcuni concetti fondamentali: i suoi autori di riferimento (a partire da Don DeLillo), la conoscenza della cultura pop, un’attitudine istintiva alla lettura, ma anche molto elaborata verso la scrittura che prevedeva un rapporto intenso, univoco. Aveva un rispetto singolare e, ancora prima della pratica quotidiana (“Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando”), ne riconosceva il senso a partire dalla musicalità (“E per me, molta della bellezza della scrittura ha a che fare con il suono e il ritmo”), sapeva confessare i suoi rituali (“Ammucchio un sacco di metafore, cerco di rendere la scrittura più graziosa che mai, tento continuamente i colpi più ambiziosi”) e infine non nascondeva i suoi limiti: “E se c’è una cosa che continuamente mi infastidisce, rispetto alla scrittura, è che davvero non mi sembra di raccapezzarmi dentro il linguaggio: non mi sembra mai di raggiungere la chiarezza e la concisione che desidero”. Anche nella forma delle interviste, comunque limitate nello spazio e, come sappiamo, la brevità non era tra i pregi di David Foster Wallace, è riuscito a mostrare di distinguere a fondo il valore di un’opera letteraria perché “ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente”. È stato anche sincero riguardo i meccanismi dell’editoria e del marketing, sperimentato in prima persona con l’hype sorto attorno a Infinite Jest, con tutti i giochi e i ruoli del caso, che sono pure una parte dell’insieme, anche se poi resta solo la convinzione che “la letteratura o smuove le montagne o è noiosa; o smuove le montagne o sta col culo piantato per terra”. La differenza è tutta lì e la ricerca di quel “clic”, come lo chiama DFW, è un’altra delle costanti, perché “c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale”. È per quello che, alla fin fine, la letteratura è qualcosa di più di Un antidoto contro la solitudine dato che “si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano”. DFW lo era in modo un po’ speciale, o, per dirla con l’amico scrittore ed editore Colin Harrison, “era come una cometa che passava rasoterra”. Sì, proprio così.

domenica 22 novembre 2020

Sam Shepard

Dentro, fuori. Prima, dopo. Inizio, fine. Spiare la prima persona è un ultimo saluto, un testamento, una breve pièce e tutto insieme per confezionare un addio: due uomini si osservano, ma forse sono soltanto due metà della stessa persona, perché “qualche volta la gente appare così, dal nulla. Appaiono e scompaiono. Molto in fretta. Come una foto emerge da un bagno chimico”. Va messo in conto. Uno sta in una veranda accudito dalla famiglia, adagiato su una sedia a dondolo o incastrato in una sedia a rotelle. Sam Shepard non fa eccezioni, neanche per se stesso: “Un anno più o meno giusto fa poteva camminare a testa alta. Vedere attraverso l’aria. Poteva pulirsi il sedere”. Ogni riferimento non è proprio casuale, anzi. L’altro è a distanza di sicurezza nei cespugli, con un binocolo, molto potente. Per entrambi, l’immobilità, è una condizione inderogabile e Sam Shepard riassume i loro pensieri chiedendosi “cos’è che ti trascina in basso, che ti fa sentire che non ce la farai mai, non ce la farai mai a superare qualcosa. Io non so cosa sia. La monotonia. La ripetizione”. È necessario tenere d’occhio i dettagli. Al crepuscolo, Sam Shepard è più rarefatto che mai: ogni parola pesa come una pietra nel deserto, ogni frase è un concentrato denso e asciutto nello stesso tempo, i ricordi rimbalzano nella memoria e “a un certo punto nel passato, a un certo punto nel passato, andava tutto bene. Non c’era disperazione. Funzionava tutto. Quindi qual è la cura. C’è qualche modo per curare il presente? Possiamo fare qualcosa di semplice, tipo un bagno caldo nelle acque termali. O dobbiamo ricominciare tutto da capo. Dev’esserci una cura. Siamo figli dei miracoli. Lunga pausa. Pausa. Nessuno si sofferma sulle sue parole. Nessuno si sofferma nel momento. Nessuno si sofferma per nessuno”. Il richiamo del passato è guarnito da una sottile sensazione di nostalgia, compresa l’impressione che andasse tutto bene, o almeno meglio di adesso, ma non era proprio così: c’erano la guerra in Vietnam, Nixon, il Watergate, e direi che bastano e avanzano. È Sam Shepard che prova a rielaborare i ricordi, ma sono soltanto piccoli appunti rubati alla memoria. Alcatraz, Pancho Villa, il Messico e il confine sono echi che arrivano da lontano, e che si ritrovano spiazzati nelle istantanee di oggi, quando si domanda se “li capiamo, gli uomini sull’angolo che parlano una lingua straniera? Capiamo da dove potrebbero essere venuti? Forse è il vento che li ha portati qui”. Eccoci qui. Il presente è laconico: “Noti la natura progressiva delle cose. Le cose decadono. Noti come sono diverse. Non vuoi crederci”, e allora le due figure si misurano, si tengono d’occhio, si scrutano nell’aria tersa della prateria, ma non si incontrano e rimangono agli estremi della prospettiva almeno finché non appare un serpente a sonagli verde del Mojave e, quasi come un segnale ancestrale nell’aria, la vena autobiografica li fa collimare. A quel punto i due contorni si sovrappongono in una sola ombra, quella di Sam Shepard, che prende il sopravvento e che commenta: “C’è questo fatto, nel dopo. Che non sai cosa verrà. Non sia come andranno a posto tutti i sospesi. Qualcosa succederà di certo, ma non sai cosa. Per esempio, io sono fuori, per esempio”. Resta il tempo di un’accorata dedica ai figli: “Ho fatto degli errori ma non ho idea di quali siano stati. E non ho mai desiderato ricominciare da capo. Non ho il desiderio di eliminare delle parti di me stesso. Non ho desiderio. Forse dovremmo incontrarci come completi estranei e parlare fino a notte fonda come se non ci fossimo mai visti prima. Sappiamo solo che c’è reminiscenza, c’è qualche misteriosa connessione. A volte”. Spiare la prima persona è l’apoteosi finale di Sam Shepard, osservatore e osservato che “in altre parole, non sempre, ma a volte”, confeziona il memoriale definitivo di un fuggitivo costretto a guardare l’orizzonte con gli occhi di qualcun altro.

lunedì 16 novembre 2020

Jessica Bruder

Pur contenendo i germogli di una critica alla società americana così come è diventata, con un divario economico e sociale che è ormai un abisso, e una fonte continua di ingiustizie, Nomadland è soprattutto la constatazione dell’esistenza di un’America fuori dai radar. L’attitudine a levare le tende, a cercare nel movimento e in un possibile altrove le soluzioni ideali a una nuova esistenza è un riflesso condizionato degli americani e Nomadland lo fotografa in un momento di ripiegamenti drastici, seguiti alla crisi del 2008. L’elemento sociologico è ricorrente perché i protagonisti di Nomadland lottano in cerca di un’identità e di una libertà rarefatte dall’aria del deserto, dove il viaggio è anche una forma di avventura e adrenalina perché “vivere in nessun luogo, pare, significa poter vivere ovunque, almeno sulla carta”. Nei tre anni che ha seguito quest’esodo senza meta, l’immedesimarsi di Jessica Bruder l’ha portata ad adeguarsi con un suo van, chiamato Halen in onore della rock’n’roll band e dei calembour amati dai nomadi del ventunesimo secolo. Hanno alle spalle storie di separazioni, alcolismo, disperazione, ma soprattutto conti che non riuscivano più a saldare, a partire dai mutui immobiliari. Si ritrovano in cerca di una “famiglia logica”, visto che quella naturale l’hanno persa per strada, fanno i campeggiatori o si adeguano a lavori stagionali da Amazon o nella raccolta delle barbabietole da zucchero, descritta da Jessica Bruder come un girone dantesco. L’esperienza della solitudine condivisa nelle comunità viaggianti di Nomadland passa attraverso città fantasma dove il processo di deindustrializzazione si è fatto particolarmente cruento. Le storie personali sono tante, ma tendono a somigliarsi. Sono piuttosto i limiti del decantato sogno americano, ovvero di un modello economico che vede in Amazon la sua massima espressione a diventare evidenti, una volta di più, nelle testimonianze raccolte da Jessica Bruder, che identifica così l’essenza di Nomadland: “Complessivamente erano una subcultura: costruivano il proprio insieme di convenzioni, sperimentavano strategie di sopravvivenza e diffondevano le migliori, formulavano dei piani per vivere sull’altra faccia dell’economia”. I mezzi vengono riscattati a poco prezzo, rattoppati e sistemati quel tanto che basta da poterli mettere in strada. Come li descrive la canzone dei Bottle Rockets, sono 1000 Dollar Car alla seconda o terza vita, le cui disavventure sono garantite. Ma gli abitanti girovaghi di Nomadland non possono permettersi di più. Quando partono, si accorgono di quante cianfrusaglie hanno accumulato, e quanto hanno pesato nelle loro vite e sulle loro finanze. Paradossalmente, si ritrovano a lavorare nei magazzini di Amazon, che dispensano in gran parte gli stessi ammennicoli. Diventano workamper e come dice David Roderick (settantasette anni): “Amano noi pensionati perché siamo affidabili. Ci presentiamo, sgobbiamo, e siamo fondamentalmente degli schiavi”. Un sistema che procede a senso unico: lavorano con i diritti ridotti al minimo, scontrandosi con il futuro, ovvero i robot, viaggiano in riserva (la benzina serve anche per scaldarsi), lottano con pensioni e sussidi miserevoli e con un’assistenza sanitaria limitata. Non solo: devono stare attenti a dove parcheggiare per evitare la polizia perché spesso non sono i benvenuti. Eppure, anche nella vastità degli spazi americani sembrano non avere altra alternativa se non continuare a muoversi e a ritrovarsi. Il reportage di Jessica Bruder è asciutto, concreto, limitato all’essenziale ed evidentemente non serviva altro perché il fondo di amarezza di Nomadland è come la ruggine sui furgoni o la stanchezza dopo un turno di lavoro ad Amazon: non se ne va più.

giovedì 12 novembre 2020

Ta-Nehisi Coates

Hiram Walker è figlio un rapporto “oltraggioso” tra il signore della piantagione di Lockless, un nome ambiguo, ma significativo, e la madre Rose, poi venduta all’asta degli schiavi. Fin da piccolo, Hiram possiede “il portentoso potere della memoria, sapendo come possa aprire una porta azzurra fra un mondo e l’altro, come possa spostarci dalle montagne ai prati, dai boschi verdi ai campi coperti di neve, sapendo che la memoria può piegare la terra come un panno”, che è parallelo all’elemento soprannaturale e spiritico a cui fanno appello uomini e donne costretti incatene. Se “nella schiavitù non c’era pace, perché ogni giorno sotto il dominio di un altro è un giorno di guerra”, la rivelazione ha luogo quando Hiram finisce nel fiume con il giovane fratellastro Maynard Walker: si salva nei contorni di un miracolo, mentre l’erede diventa ben presto “un rimpianto”. L’incidente apre uno squarcio in più direzioni nella realtà di Lockless: Il danzatore dell’acqua riconosce la schiavitù come un continuo e sistematico saccheggio e non solo nello sfruttamento del lavoro su cui è stata edificata la ricchezza di un’intera nazione, ma anche nella devastazione dei legami, degli affetti, dei sentimenti. Come dice Robert Ross parlandone con Hiram: “C’è sempre qualcosa non va. Quelle storie di cavalieri e donzelle… Non è roba per noi. Noi non possiamo permetterci la purezza. Non possiamo permetterci la pulizia”. Il possesso delle persone, e delle donne in particolare attraverso la sordida pratica degli stupri (per chiamare le cose con il loro nome), è uno degli argomenti che toccano le famiglie, ed è al centro di un dialogo tra Hiram e l’amata Sophie, uno dei passaggi più lirici e intensi che offre Il danzatore dell’acqua. Il ricordo diventa funzionale, quando, essendo depredati i corpi, diventa imperativo “conservare le storie. Tenere pulito il sangue” ed è solo così che in “una notte interminabile” si intravede una luce, e una prospettiva. Hiram resta combattuto tra la fuga e i vincoli e questo è evidente nei suoi rapporti, con Thena (che l’ha adottato), con Corrine Quinn (che lo guida), con Sophia, ma quando diventa agente della Sotterranea, ovvero la rete segreta che spingeva gli schiavi all’emancipazione, qui rivista in modo più realistico e articolato che nel romanzo di Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea, capisce il suo ruolo, anche se non risolve il suo intimo conflitto, su cui pesa “la natura grave ed escrementizia del vero mondo in cui tutti viviamo”. L’unica certezza di Hiram è che “dimenticare significa diventare davvero schiavi” e che è adatto alla Conduzione verso la libertà. Nasce con “l’evocazione di una storia, l’acqua, e un oggetto che rendesse il ricordo reale come un mattone” ed è grazie al racconto, e a una visione, se sui fiumi si aprono ponti e passaggi. Un compito che passa attraverso la consapevolezza di “avere tutta quella bellezza e non trasmetterla”, ed è per quello che Il danzatore dell’acqua si avvale dei canti e delle danze e, sottinteso, del blues, ovvero, per estensione, di “una biblioteca non scritta piena zeppa di conoscenze su questo tragico mondo, conoscenze che il linguaggio verbale non riesce a esprimere”. È uno dei tratti persistenti visto che Ta-Nehisi Coates impegna il lettore a un duello con le parole, perché si sovrappongono molte correnti sotto Il danzatore dell’acqua. Comprese le maiuscole usate come simboli identificativi per distinguere la Servitù (alias la schiavitù), la Qualità, ovvero i padroni, la Conduzione, i Segugi e la Feccia, la Sotterranea. Ogni nome è ambivalente, e merita di essere indagato, in proprio, prima che i movimenti di Hiram aprano il sipario finale. Nella decadenza di Lockess, perché “il suo mondo, il mondo della Virginia, era un castello di menzogne” e al suo signore è rimasto soltanto “un miscuglio di futilità e nostalgia, una vecchia ferita che con l’umidità ricomincia a dolere, il fantasma di una passione ormai ridotta alla vaga reminiscenza di quella che ormai sembra un’altra vita”. Quando la coltivazione del tabacco non rende più, perché la terra è stata prosciugata, non meno di chi l’ha lavorata, il commercio degli schiavi è l’ultima alternativa economica, ma è anche il segnale che un’epoca è giunta alla fine. L’arrivo della Sotterranea, che ha diffuso agenti su tutto il territorio della Elm County, l’area in cui si trova Lockless, lascia intravedere, nel passaggio conclusivo, e almeno a livello simbolico e in forma narrativa, quello che Ta-Nehisi Coates ha ribadito spesso nei suoi saggi: la necessità di una riparazione della ferita della schiavitù passa necessariamente attraverso un risarcimento. 

lunedì 9 novembre 2020

Ernest J. Gaines

L’ombra di Angola, il più terribile tra i penitenziari americani, è lo sfondo cupo su cui prende forma La tragedia di Brady Sims. Lo storico Adam Jay Hirsch citato da Angela Davis in Aboliamo le prigioni? diceva che “si avvertono nel penitenziario molti riflessi della schiavitù così com’era praticata al Sud”. Sorto sul terreno di una piantagione ad Angola c’era qualcosa di peggio, un microcosmo spietato, violento e atroce, che andava ben oltre l’esecuzione della pena. Lavoratore instancabile e rispettato, Brady Sims conosce a fondo quella presenza spettrale e non esista a usare la frusta o metodi educativi anche più drastici, con l’idea che qualsiasi dolore è meglio che finire ad Angola. La tragedia di Brady Sims, che si colloca in un momento indefinito del ventesimo secolo a Bayonne, in Louisiana, è che il suo senso della giustizia lo porta alle estreme conseguenze, a sparare al figlio in un’aula del tribunale, decidendo la condanna per lui e, in fondo, per sé stesso. Ma è solo l’inizio: la travagliata esistenza di Brady Sims è ricomposta dallo storytelling popolano e popolare degli ospiti del barbiere. Sul muro ci sono le fotografie di Martin Luter King, Mahalia Jackson, Malcolm X e Duke Ellington e soltanto i nomi dei personaggi (Sweet Sidney, Lucas Felix, Joe Celestin, Jean Lebouef, Sam Herbert, Oscar Gray alias Tato, Frank Jamison, Louis Guerin,  Lloyd Zeno e Will Ferdinand) formano una litania ipnotica, ma è proprio attraverso le loro chiacchiere che prende forma La tragedia di Brady Sims. In effetti potrebbe essere una pièce teatrale, tutta concentrata nella cornice del negozio, solo che Ernest J. Gaines è uno di quegli scrittori che, parafrasando gli oratori lì parcheggiati, “ti buttano l’esca, cominciano a raccontarti una storia e sanno che non te ne andrai finché non sentirai la fine”. Nel ruolo di testimone e narratore, Jack Burnet, un giovane reporter incaricato di scrivere un pezzo di “vita vissuta”, come si dice in gergo, non deve far altro che ascoltare, in questo riflettendo uno spunto autobiografico dello stesso Ernest J. Gaines che diceva: “Credo di essere più un ascoltatore che un narratore, in realtà. Ascolto. Mi piace ascoltare il modo di parlare della gente e le loro storie. Poi appena posso, vado alla mia scrivania e cerco di buttare giù qualcosa. Ma non sono uno storyteller, sono uno che ascolta”. La tragedia di Brady Sims viene ricostruita proprio come una somma di racconti orali: è un uomo che si è guadagnato il suo posto sulla terra, e un angolo tutto suo dove vivere ed “era un uomo che alcune persone avrebbero definito troppo difficile. Ha vissuto in tempi difficili.... E il fardello che gli abbiamo messo addosso non era leggero. Sì, noi. Tutti, incluso me. Se avessimo fatto di più, il suo carico non sarebbe stato così pesante”. Sono parole dello sceriffo Mapes che è il contraltare di Brady Simes e a cui tocca definirne l’epilogo: “Il cielo è blu, il fiume è calmo. Guarda come si salutano l’un l’altro, mentre fanno sci d’acqua. Liberi, liberi, senza preoccupazioni al mondo. È un bella giornata, soleggiata e luminosa, tranne nel mio cuore. Nel mio cuore c’è buio. La sua pelle è nera, la mia è bianca e lui è mio amico. Non ho mai conosciuto un uomo, bianco o nero che fosse, migliore di lui. Perché? Perché l’hai fatto? Al diavolo, so perché. Lo so maledettamente bene perché”. Diceva ancora Ernest J. Gaines che “la buona arte non deve essere arrabbiata o militante per essere politica, ma semplicemente creativa, accurata e precisa” e la riprova è La tragedia di Brady Sims dove la densità della sua scrittura, risponde alla concreta idea che “l’artista è il solo uomo libero rimasto. Non deve nulla a nessuno, nemmeno a se stesso. Dovrebbe scrivere quello che vuole, quando vuole e come vuole. E se è sincero, le persone rivedranno loro stesse nei suoi libri”. Ben detto, ed è molto probabile che succeda anche con La tragedia di Brady Sims.

lunedì 2 novembre 2020

David James Poissant

Il lago è uno specchio implacabile e per la famiglia Starling è l’ultimo week-end in North Carolina. Ci hanno passato una vita, lì, nella wilderness dove  sta arrivando la speculazione edilizia, ma Lisa e Richard hanno deciso di ritirarsi (lui è già in pensione da un mese) e di vendere la casa. Si ritrovano insieme ai figli Michael (e la moglie Diane), e Thad (con il fidanzato Jake). Ben presto le apparenze vengono turbate da una tragedia e scostate bruscamente come un vecchio sipario, rivelano “un caleidoscopio di sofferenza” che si propaga con le vibrazioni di una subdola corrente sotterranea tra genitori e figli. È interessante notare come il processo di trasformazione nello scenario ideale che offre La casa sul lago parta dalla generazione più anziana, che continua a progettare l’avvenire, mentre Michael e Thad sono imprigionati in vicoli ciechi conditi da alcol, erba, pillole, terapie. Non sono abbastanza sereni da “contrapporre la logica alla nostalgia ai ricordi, agli addii”, e paradossalmente sono più intimoriti da quello che gli può riservare il domani. La vendita della casa di villeggiatura, una libera scelta di Lisa e Richard, è l’elemento che accende una reazione a catena. La tensione cresce partendo da piccole, irrilevanti questioni, per poi deflagrare secondo un meccanismo atavico che David James Poissant riconosce alla perfezione perché “è così che funzionano le famiglie: l’insignificante elevato a imperativo”. Invece di ospitare gli ultimi scampoli dell’estate, La casa sul lago diventa il capolinea di una nevrosi strisciante, un’angoscia che non cede nemmeno per sbaglio: la famiglia  si impantana in una gabbia di scelte, di rimpianti, di errori e di segreti, di timori e di speranze. Il nesso tra promesse e rimpianti, ambizioni e prospettive è sfuggente quanto le trote che sfrecciano nella corrente. Nell’incomunicabilità maturano le ansie e le paure che restano nascoste come i serpenti  nell’erba e lungo le rive del lago. Non si vedono, ma sono lì, un pericolo imponderabile e velenoso. David James Poissant non lascia via di scampo ai suoi personaggi: li incolla alle frustrazioni, a quell’ipersensibilità che li vede sempre sull’orlo di una crisi di nervi, anche nella loro natura colta, liberal, tollerante e, in definitiva, borghese. La scrittura è tesa come la superficie del lago: non c’è un vezzo, uno svolazzo, un abbellimento, niente che non sia strettamente necessario. Ci sono sei personaggi che non hanno bisogno di trovare un autore: si distinguono nettamente, anche se sono tutti coinvolti da una tristezza profonda, irrisolta, che scava solchi tra le vite e che David James affronta con partecipazione, ma anche con rispetto. Un osservatore molto esperto nel mimetizzarsi, capace di restare vicinissimo, senza farsi notare. Gli eventi attraversano il week-end degli Starling (e Jake e Diane) come folate di vento sulla superficie del lago che David James Poissant riesce a catturare grazie a un’esplorazione scrupolosa e un tatto singolare nel saper decifrare momenti delicati, fragili, eppure, nello stesso tempo, brutali. Gli episodi toccano un po’ tutti, anche i personaggi sullo sfondo, e non è un caso che siano gli estremi della famiglia Starling, Diane e Jake, a occuparsi di pittura, visto che i colori si mischiano come le vite, con le stesse gradazioni di caos e di bellezza. Non essendoci via di fuga, La casa sul lago è un laboratorio di sentimenti e di emozioni, di riflessi condizionati e compromessi necessari, pesche miracolose e X-Men, ma non ci sono supereroi, persino la fede e la politica (o quello che ne resta) sono travolte dall’attrito quotidiano con la realtà. Con notevole lucidità, David James Poissant non risolve nulla, li lascia lì ancora incerti, sulle sponde del lago, e se “il futuro è davanti a loro, sconosciuto, invisibile. E forse non sapere è un dono”, la famiglia resta un’equazione con tante incognite, poche soluzioni, molti silenzi, ma, in fondo a tutto, è ancora l’ultima spiaggia.

sabato 31 ottobre 2020

Barry Gifford

Nelle Notti del Sud c’è sempre un jukebox o una radio che trasmette Hank Williams, Lightnin’ Hopkins, Clyde McPhatter, Sam Cooke, Percy Sledge, Bobby Womack, i Valentinos, Guitar Slim, Stevie Ray Vaughan, Sonny Boy Williamson, Jerry Lee Lewis, Patsy Cline, Rolling Stones, Aretha Franklin, Muddy Waters e Aaron Neville. Nei momenti più taglienti spuntano anche Thelonious Monk con Johnny Griffin, nonché Ornette Coleman. Del resto, il titolo in origine coincide con quello di una canzone di Allen Toussaint, che è uno dei principi di New Orleans, la città dove si concentrano le storie di questa trilogia che comprende tre romanzi: Gente di notte, Alzati e cammina e Baby Cat-Face, usciti rispettivamente nel 1992, 1994 e 1995. L’assemblaggio in un corpo solo rende merito a quella che si presenta come un’opera sorprendente e travolgente dove Barry Gifford riesce a ricordare che “nonostante il comportamento spesso violento e l’apparente follia o la fin troppo scontata depravazione rappresentata nei romanzi esistevano, ed esistono, anche la bellezza, la generosità, la genuina tenerezza e lo sforzo eroico di fronte alla pazzia. La vita reale, così come si svolge in ogni luogo del pianeta”. Attenzione al “tocco femminile”: già il ritmo sincopato e inarrestabile di Gente di notte che vede le donne protagoniste assolute delle turbolenze sudiste, delinea e determina la forma, il tono, la direzione che sarà poi seguita anche da Alzati e cammina e Baby Cat-Face. Un raffica di personaggi che si accodano uno dopo l’altro senza soluzione di continuità in un vortice visionario e selvaggio, partendo dove “accadeva qualcosa che mai uno si sarebbe immaginato, e poi il mondo sembrava un altro”. I nomi variopinti dei protagonisti si incastrano alla perfezione e scorrono incatenati da bizzarri eventi che si estendono tra sesso, rapine, fughe, vendette. La rappresaglia delle donne sugli uomini è il leitmotiv che distingue la trilogia per intero e che si esprime al suo meglio nel milieu sudista. Con tutti gli addentellati con i Caraibi, l’atmosfera burrascosa e mutabile della Louisiana e del Mississippi, e in particolare della zona paludosa al confine tra i due stati, rende l’idea degli Stati Uniti d’America come un “un curioso esperimento molto probabilmente condannato al fallimento”. Tra predicatori, delinquenti seriali, tossici e alcolizzati, outsider e disperati di varia forma e natura, “sembra che tutto finisca in merda” e quella generale follia condivisa spicca in Alzati e cammina. I racconti sono tumultuosi, la trama non serve e nelle Notti del Sud il gioco è lasciarsi trasportare, facendosi trascinare dalle visioni di Barry Gifford, senza cercare spiegazioni o motivazioni. Le storie che costituiscono i singoli capitoli sono tutte fatte di dialoghi e di situazioni surreali, almeno quanto è diventato surreale il nostro mondo. Strambe congregazioni e comunità dissolute, l’imperversare senza meta sulle strade americane, ogni modello di auto con un curriculum alle spalle, le donne che si tramandano da una generazione all’altra sofferenze e rivalse, la televisione onnipresente che è un gas di parole, le camere dei motel disadorne e cornici ideali per i tormenti degli ospiti: viene tutto convogliato nel forsennato tour de force linguistico di Barry Gifford. Mantenere il ritmo è già un successo, ma bisogna resistere e annusare “la puzza della sconfitta” che aleggia nelle Notti del Sud fino a  Baby Cat-Face dove dominano tutti “gli abitatori del lato sordido della vita” ed è il tripudio finale di donne libere, selvatiche e giustamente pericolose e versi dell’Antico Testamento nella versione apocrifa di Barry Gifford. L’apocalisse viene dispensata toccando con mano la metamorfosi al ribasso del verbo, che è la soluzione infiammabile che alimenta e nello stesso tempo consuma le Notti del Sud. Per i più scafati, il messaggio era già chiaro in un verso di Bob Dylan, una citazione di Knockin’ On Heaven’s Door nascosta tra le righe delle prime pagine. Si sta facendo buio, mamma, ed è proprio  quello il momento che a New Orleans cominciano le danze. Straordinario.

mercoledì 28 ottobre 2020

Jeanine Cummins

In un mondo diviso e ferito, come dice Jeanine Cummins, i migranti “nella peggiore delle ipotesi li percepiamo come una massa di invasori e criminali che prosciugano le nostre risorse; nella migliore, come una folla di poveri senza colto con la carnagione scura, che chiedono aiuto a gran voce bussando alle nostre porte. Di rado pensiamo a loro come a esseri umani uguali a noi. Persone capaci di prendere decisioni, persone in grado di costruire un futuro luminoso non solo per sé ma anche per noi, come hanno fatto prima di loro tante generazioni di immigrati spesso disprezzati”. Ma “quelle persone sono persone”, e con Il sale della terra Jeanine Cummins riesce a scandagliarne a fondo l’essenza, che è sempre la ricerca di un confine da superare, un anelito indomabile verso la speranza, anche quando non c’è più. Trovato l’escamotage e la soluzione per legare Lydia, di professione libraia, al capo di un cartello di Acapulco, che sterminerà tutta la  sua famiglia, senza esitare, quando ne avrà la necessità, Jeanine Cummins si concentra sull’essenzialità che l’imminente pericolo impone. Unici sopravvissuti al massacro, la fuga rappresenta una vera e propria iniziazione per il figlio Luca e un’ordalia per Lydia che deve affrontare una lunga serie di prove bibliche per immaginare un futuro. Il punto di vista è costante e lineare, perché Lydia e Luca non hanno altra opzione se non lasciarsi alle spalle Acapulco e il Messico dilaniato da una violenza assurda e feroce. Con Gabriel García Márquez come guida, perché nei suoi Scritti costieri diceva che “anche se si sarà dimenticato tutto, si ricorderà il paese”, soprattutto i suoi fantasmi. Il viaggio è fatto di incontri, a volte fortunati, a volte no, con la consapevolezza che vivere è il minimo. Nella folla grigia che cammina del deserto, si arrampica sui treni, vaga in cerca di una via d’uscita e si nasconde nelle ombre, vige perlopiù il silenzio, ma “altri migranti sono come granate esplose, manifestano complessivamente la loro angoscia a tutti quelli che incontrano, spargono sofferenze quasi fossero schegge di una bomba, con la speranza di svegliarsi un giorno e scoprire che il fardello è diventato più leggero”. La dimensione letteraria le permette così di affrontare la dimensione disintegrata delle migrazioni moderne e, quasi cogliendo una delle scintille che La  strada di Cormac McCarthy continua a produttre, ci ricorda che solo l’amore filiale può salvarci, o redimerci. Il sale della terra porta tutte le cicatrici della realtà, ma lascia intravedere un barlume di luce, non tanto nella destinazione finale, che poi sono sempre gli Stati Uniti, quanto nella diffusa solidarietà disseminata lungo le rotte dei migranti. Senza quei piccoli e spesso insperati aiuti, cibo, acqua, riparo, ogni minimo gesto quotidiano diventano una sfida impossibile, se non proprio l’ennesima una tortura, anche quando la salvezza è a un passo, ed è facile identificarsi in Lydia che, giunta ala limite delle possibilità, “come uno di quei serpenti a sonagli del deserto, sperava cambiare pelle, di abbandonare l’angoscia sul suolo messicano. E invece il momento è già passato, e lei non se n’è nemmeno accorta. Non si è guardata indietro, non ha compiuto una piccola cerimonia per iniziare la sua nuova vita dall’altra parte. Quel che è fatto è fatto”. Nessuno ha un’alternativa, se non quella di imbarcarsi in un’odissea che prevede di pagare un pedaggio insopportabile, soprattutto per le donne. È a loro, in particolare che è rivolto Il sale della terra, come specifica Jeanine Cummins nell’utilissima nota conclusiva: “Ho intravisto uno spiraglio per un romanzo che indagasse un po’ di più il lato intimo di quelle storie, che immaginasse le persone sull’altra faccia della medaglia della narrazione prevalente. Persone normali, come me. Che avrei fatto, se il mio mondo avesse cominciato a crollare? Se le mie figlie fossero state in pericolo, fin dove mi sarei spinta per salvarle? Volevo scrivere delle donne e delle loro storie, che spesso vengono trascurate”. Una generosità rara, che merita davvero di essere ascoltata.

lunedì 26 ottobre 2020

Stephen Markley

Non è un caso che lo sport di rilievo in Ohio sia il football, dove il contatto è indispensabile, per quanto rude e non risolutivo. Nel paesaggio suburbano di New Canaan, una cittadina nell’Ohio attraversata dalle ombre delle industrie abbandonate, quattro personaggi, che poi sono i  principali protagonisti dei relativi capitoli, si incontrano in una notte. Bill Ashcraft, Stacey Moore, Dan Eaton e Tina Ross sono stati compagni di liceo, che resta una specie di bolla fantastica (e orribile) destinata a svanire al primo impatto con la realtà. Siamo nei primi dieci anni del ventunesimo secolo, l’Ohio è un caso patologico, e l’America sullo sfondo è un relitto aggrappato alla fede e alle buone intenzioni, ma che non ha speranze. Le guerre in Iraq, in Afghanistan e in tutto il mondo hanno generato una nazione di reduci che espandono le loro sofferenze all’infinito. Dan Eaton, che ha perso un occhio in missione, è uno di loro e, in effetti è il funerale di un altro compagno di scuola, Rick Brinklan, caduto a sua volta, ad aprire le danze di Ohio. C’è tutta la città a rendergli omaggio in un tripudio di stars and stripes e stridente dolore, ma New Canaan, “sclerotica in ogni sua manifestazione”, resta una smalltown di provincia dove tutti sanno tutto, ma c’è sempre un segreto ben nascosto. Bill, Dan, Stacey e Tina (e bisogna aggiungere anche Kaylynn e 56, alias Todd Beaufort) si incrociano nella notte americana di New Canaan e “qualunque sia il modo in cui affrontano la tempesta” sono pedine che scorrono sulla scacchiera di una disarmante desolazione. Dietro ogni angolo c’è un fantasma che li aspetta: non soltanto quello di Rick Brinklan, ma anche quelli di Curtis Moretti, morto di overdose, e quello di Ben Harrington, diventato songwriter, con un solo album Slow River. Le sue influenze principali sono Josh Ritter e Amos Lee, le cui canzoni hanno più di una connessione con le atmosfere di Ohio e nel suo suicidio si porta dietro altre due vite, un disastro. L’intreccio tra i personaggi è ambivalente: i loro legami del passato (sia quelli alla luce del sole che quelli sotterranei) mettono in risalto anche le figure dei genitori e dei professori Clifton e Bingham. Il mondo degli adulti resta a distanza di sicurezza e la meritevole caratterizzazione dei protagonisti li vede in un limbo, dove la dimensione notturna e le distorsioni dell’alcol e delle droghe (onnipresenti) spiegano che “la storia era già stata scritta. Cos’è la storia, se non una scelta della memoria. E cos’è la memoria, se non una resa infedele di sesso, morte, giustizia, assassinio, preghiera, avidità, speranza e amore. La memoria è duttile come l’anima”. Nelle diverse prospettive dei personaggi, che sono la creazione migliore di Ohio, Stephen Markley riesce a districarsi con agilità tra l’impressione che le loro vite fossero “tutte parte di un grande gioco di prestigio, un sapiente illusionismo” e la constatazione che non è rimasto “più niente a cui tornare”. Alcuni passaggi sono toccanti, altri transitori: se Stacey Moore “aveva lasciato che New Canaan occupasse uno spazio psicologico così immane da dimenticare che era un posto come tanti, e che la vinta lì andava avanti come ovunque”, Bill Ashcraft ammette che “a volte non mi capacito di quante cose abbiamo perso. Magari è solo l’assaggio di quello che ci resta ancora da perdere”. Ci siamo tutti noi, nell’alternarsi del passato e del presente nel corso del racconto e delle rievocazioni: tutta la storia di Ohio è costruita benissimo ed è “come osservare un bellissimo, spaventoso pianeta alieno dall’interno di una scatolina di vetro”. Però Stephen Markley resta sempre in superficie e sembra chiedersi in continuazione come spiegare al lettore “la tristezza, le tragedie di quel posto”. Insomma, c’è molto lavoro, fin troppo ma nei suoi eccessi, manca qualcosa: Ohio è ben articolato, anche se il meccanismo dei flashback con lo scorrere dei capitoli diventa prevedibile, rende le coincidenze nottambule un po’ forzate, compreso il finale che resta ingarbugliato. Per essere un esordio (notevole), basta e avanza, ma i limiti sono piuttosto palesi: forse sarebbe bastato un po’ meno per ricordarci che “ci presentiamo tutti a questa festa senza invito e senza un apparente padrone di casa e che possiamo andarcene da un momento all’altro senza motivo”. Su questo, tutto sommato, non c’è dubbio, in Ohio come altrove.

giovedì 22 ottobre 2020

Dennis Cooper

Nelle cupe ossessioni di Dennis Cooper, Ziggy rappresenta una piccola crepa, per quanto instabile e sfuocata nel contesto di “un luogo da qualche parte, bizzarro in modo realistico”. I confini sono sempre quelli di un’indefinita terra di nessuno tra i sogni, gli incubi, le deviazioni oppiacee e la desolazione della realtà. En passant, anche se tra le righe è molto chiaro, viene riproposto il concetto burroughsiano per cui “gli essere umani sono un virus”, e il corpo è visto come un territorio da conquistare, da violare, da razziare, una fortezza da espugnare e da spolpare, una forma da ridisegnare dall’inizio. Pare che non ci sia nulla in grado di fermare questa primitiva bramosia, che il più delle volte si traduce in privazioni, limitazioni e assurdità di una ferocia indicibile. Dentro questa coltre di angoscia, le parole paiono l’unica possibilità di uscirne, magari non indenni, ma almeno con una vaga prospettiva di poter affrontare ancora il “mondo convenzionale”. In questo senso, Ziggy è un protagonista assoluto: è stato vittima di molestie ed è diventato a sua volta carnefice, come se fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina molto più grande che non si ferma mai. Qualcosa, dentro di lui, lo avverte e infatti si dedica a una fanzine, I Apologize, dedicata agli abusi sessuali, che prende il titolo da una canzone degli Hüsker Dü, “una simpatica dichiarazione, rauca, feroce, un po’ confusa, contro il modo in cui va il mondo”. In più, sente che, a sprazzi, a fatica e scontrandosi con i limiti della dipendenza, il legame dell’amicizia con Calhoun rappresenta una svolta e una possibilità imprevista. Ma intanto è coinvolto in un viavai di approcci sessuali, consumi, depravazioni, visioni distorte e dialoghi schizofrenici. Il racconto di Ziggy procede a ondate eterogenee e vede apparire in pose crudeli adolescenti che si chiamano di volta in volta Robin, Nicole, Osamu, Annie, Cricket, Josie e si confondono una nebbia senza appigli, tribale, cruda e acida. I particolari anatomici ed erotici non devono trarre in inganno, nemmeno quando sono portati alle estreme conseguenze: la disperazione che racconta Dennis Cooper è palpabile e si riflette in una scrittura scarna, a partire dall’idea che “la vita è sempre fuori garanzia” per arrivare a decifrare un sottobosco incastrato in un vicolo cieco e giunto al termine della notte. La sensazione è malsana e claustrofobica. Anche la relazione tra Ziggy e Calhoun che potrebbe rappresentare uno sprazzo edificante in tanta miseria resta indefinita e traballante. È ostacolata dalla ferite del primo e dall’abuso di stupefacenti del secondo, dato che “uno dei doni che l’eroina fa a chi la usa è come rende astratto e quasi sparpaglia tutto quello che non è completamente a fuoco, e rapidamente lo allontana. Allo stesso tempo, purtroppo o per fortuna, più le cose seducono più fanno paura”.  Per questo, Calhoun “ritiene che l’amore umano sia un concetto antiquato” ed “è quasi imperscrutabile, anche per quei pochi eletti che scoprono, dietro un’iniziale freddezza, quanto sia gentile e dotato. Comunque, gente, vuole soltanto essere felice con l’eroina. E se i suoi amici si sentono trascurati, pazienza”. Quando Ziggy gli scrive una canzone dedicata al suo amico, Calhoun’s Song, con “l’idea di piazzarci dentro una marea di chitarre” (chissà, forse come gli Hüsker Dü o gli Slayer, che sono l’altro estremo della colonna sonora) lasciando filtrare un dubbio, nella coda finale, dicendo che “questa storia non è vera, è un messaggio per qualcuno che conoscono che non vuol ascoltare i suoi amici, la verità, e neppure se stesso”. E se Ziggy è brutale, scomodo, maleodorante e urticante, è perché Dennis Cooper tocca con mano il dolore e ci affonda dentro.