domenica 6 dicembre 2020

Harold Bloom

È un’antologia definitiva delle letture di Harold Bloom, ormai consapevole di essere giunto al capolinea, e nello stesso tempo una selezione di ricordi che vanno a formare una sorta di testamento spirituale, molto informale nella composizione, estremamente articolato nella sostanza. La prima parte è dedicata alle scritture sacre, ed è piuttosto criptica. È un percorso labirintico, trattandosi di argomentazioni teologiche, ma Harold Bloom pare assecondarlo con uno spirito cabalistico. Le sue esegesi sono però eccentriche, frutto di una libera interpretazione letteraria che affronta molti dei temi biblici con una verve creativa e allusiva. Quando arriva a proclamare che “qualunque istituzionalizzazione della profezia è un tradimento”, si capisce che il suo rapporto con la fede è molto elastico e che la benedizione che è andato cercando era essenzialmente laica. In effetti, Harold Bloom dice che “la mia religione è l’apprezzamento della letteratura alta. Shakespeare è il suo vertice. Per me, la rivelazione è shakespeariana o niente”, e con Shakespeare gioca in casa. Trattando il “sublime shakespeariano”, si dedica ai risvolti filosofici, nella parte più veemente di Posseduto dalla memoria. Shakespeare è riletto per l’ennesima volta, come se fosse una galassia da esplorare all’infinito: Harold Bloom affronta i suoi personaggi e a partire dall’amato Falstaff fino a Cleopatra rispolverando le letture con ampie citazioni delle opere shakespeariane. Le digressioni sono costanti e qui il critico lascia spesso il posto all’appassionato ben sapendo che “l’essenza dell’attrazione è l’ambivalenza, oltre a una sorta di ambiguità che si nutre di segretezza”. La terza sezione è dedicata a John Milton e nella quarta parte tocca a Walt Whitman e al “sublime americano”, che ha nel suo nucleo il self-otherseeing, ovvero “il legame tra la sorprendente esperienza di ascoltare noi stessi come se stesse parlando qualcun altro e la volontà di cambiare. Assai più impercettibile è il rapporto tra il vivere qualcosa che sembra accadere a un’altra persona e gli effettivi cambiamenti che hanno luogo in occasioni emotivamente intense”. È un po’ quello il cardine essenziale di Posseduto dalla memoria, ma i quattro quarti sono incastrati uno nell’altro da una raffinata coesione: le scritture sacre, Shakespeare, John Milton e Walt Whitman sono le pietre angolari che delimitano il campo dentro un gioco di diagonali che mettono in comunicazione e intersecano le figure inamovibili di Harold Bloom, che rispondono all’imperativo per cui “occorre spezzare la misura e l’equilibrio per ripristinare l’immagine dell’uomo completo”. Ed è così che il commiato di Harold Bloom rivela che esiste un legame in grado di unire la composizione di una poesia, le illusioni del ricordo e la vaga speranza di udire nuovamente, in qualche modo, la voce che precedette l’instaurazione di un cosmo abbandonato ed errabondo, in cui vaghiamo alla cieca, incapaci di distinguere cosa è stato e cosa desideriamo ritrovare”. L’epifania ha un nobile precedente quando Samuel Johnson diceva che “la poesia è l’arte di unire il piacere alla verità, chiamando l’immaginazione in soccorso della ragione”. Allora, avanzando tra i capitoli, il linguaggio si fa meno ostico: dalla contorta esegesi della prima parte all’inevitabile ridondanza dei capitoli shakespeariani, nella seconda metà Posseduto dalla memoria diventa più malleabile per arrivare ai toni confidenziali della fase finale, dove Harold Bloom ricorda amici, poeti e scrittori scomparsi, con un’accorata coda proustiana, introdotta da un puntuale accenno a Sant’Agostino e alla sua concezione del tempo. Il tono è quello, dichiarato, dell’elegia, l’atmosfera si fa crepuscolare e Harold Bloom più che “posseduto dalla memoria” pare prigioniero dei ricordi. Alla fine quello che può dire “la luce interiore della critica” è che “il terrore della vita può superare la paura della morte. Il silenzio, essendo innocente, non è in grado di dare risposte comprensibili”, e, in fondo, che la letteratura è l’unico e l’ultimo miracolo. C’è spazio per il ricordo dell’incontro con Weldon Kees a un concerto di Bud Powell con Curley Russell al basso e Max Roach alla batteria, nonché un aneddoto curioso con l’avvistamento di un alligatore propiziato da Richard Eberhart, un episodio che Harold Bloom non ha mai digerito del tutto, e si può ben capire. 

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