martedì 29 dicembre 2020

Flannery O’Connor

Qui dentro c’è  il testamento spirituale, la cassetta degli attrezzi, il canovaccio di Flannery O’Connor. Un ragionevole uso dell’irragionevole condensa in un solo corpo due due volumi, Nel territorio del diavolo e Sola a presidiare la fortezza. Come è noto, il primo è frutto dei “saggi sulla scrittura” ed è un’articolata analisi che affronta le motivazioni, le ambizioni, i sedimenti di una vocazione perché “l’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità”. La seconda metà contiene invece quel nutrito epistolario che rivela gli aspetti più intimi, pungenti, persino divertenti di Flannery O’Connor, a partire dal legame con i suoi famigerati pavoni. Riepilogando, la parte più consistente riguarda l’assiduo confronto con la narrativa in tutti i suoi aspetti: l’elenco delle digressioni comprende “il fatto che sia concreta”, che “è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato ricettivo” dato che “comincia laddove comincia la conoscenza umana, con i sensi” e che, proprio per questo, “è la più impura, la più modesta e la più umana delle arti”. La panoplia dei comandamenti di Flannery O’Connor è vasta e piena di molteplici sollecitazioni: se “il mondo dello scrittore” è “ colmo di materia” e nello stesso tempo anche “del mistero che viene vissuto”, non c’è contraddizione dato che “c’è qualcosa in noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto di redenzione, che richiede se non altro di offrire a chi cade la possibilità di risorgere”. Le considerazioni teoriche di Flannery O’Connor hanno un’alta densità specifica ed è perentoria quando definisce il racconto “un modo per dire qualcosa che non può esser detto in nessun altro modo; per trasmettere il significato, ogni singola parola è indispensabile. Le storie si raccontano perché una dichiarazione risulterebbe inadeguata”. È attorno a questo compattissimo nucleo si proiettano le enunciazioni di Flannery O’Connor finché arriva alla conclusione che i romanzi più interessanti “sono quelli che ancora non sono stati scritti”. È per questo che, pare assicurarsi la O’Connor, “quando parliamo della terra dello scrittore, siamo inclini a dimenticarci che, qualunque terra sia, essa è dentro come fuori di lui. L’arte richiede un delicato adattamento tra il mondo esteriore e quello interiore, in modo che, senza snaturarsi, possano essere l’uno il riflesso dell’altro. Conoscere se stessi è conoscere la propria regione. È anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo”. Dalle profondità della sua solitudine, le lettere sono l’unico collegamento e Sola a presidiare la fortezza offre un ampio spettro della sua vita quotidiana: i dubbi riguardo Il cielo è dei violenti, gli scambi con Elizabeth Bishop, l’incontro con Katherine Ann Porter, le missive a John Hawkes e ai suoi editori, le difficoltà a “collaborare” con il resto del mondo (“Gli allievi di scrittura erano ben pochi e alla lettura pubblica il pubblico non c’era. E il tempo faceva schifo”) fino alle confessioni riguardo alla malattia. Così assemblata la ricchezza della composizione letteraria di Flannery O’Connor è ancora più evidente (e corposa). Rileggerla e consultarla spesso è un atto dovuto, se non proprio obbligatorio.

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