Incendi a Los Angeles, alluvioni a New York, l’acqua alta a Venezia, Washington sotto assedio: in un mondo governato dagli algoritmi, occupato dalle realtà virtuali, popolato di ologrammi e macchine che si guidano da sole, e su cui incombe la minaccia del riscaldamento globale e degli effetti sul clima, dagli uragani alle tempeste di sabbia, un manipolo di personaggi affronta quello che, in prima istanza, appare come “l’ennesimo spasmo di un’infinita saga americana”. Come molecole in cerca di definizione, i protagonisti di Diluvio sono tanti e tutti annodati da percorsi collaterali che si incrociano e convergono, in un arco temporale che va dal 2017 al 2040, quindi con un piede nel passato prossimo e la testa in un futuro, non molto diverso dalla realtà del presente. I cataclismi più o meno naturali e i sommovimenti disumani trovano continue corrispondenze nello sviluppo delle personalità che, in un modo o nell’altro, sono condannate ad affrontare il pantano della politica e dei mass media nella declinazione digitale, un universo informe in cui “ormai è difficile dire cosa è legale e cosa no”. Fin qui ci siamo, ed è chiara l’intenzione di raccontare “la natura effimera del potere” e, come conseguenza diretta e indiretta, “la fragilità delle cose che sembrano così solide e permanenti”, così come è altrettanto evidente che, nella biblica evoluzione di Diluvio (1293 pagine, per la precisione), la responsabilità del caos alla fine va cercata nei palazzi più che nelle “transizioni di fase degli idrati di metano”, e in altre sorprese bio e tecno, che hanno comunque un loro peso. Per dire, a partire dall’incipit, il linguaggio scientifico è soltanto una delle tante e variegate forme di scrittura che formano Diluvio, insieme a quella del giornalismo, delle istituzioni, all’interno di dialoghi diretti e indiretti, senza soluzione di continuità. Un’apocalisse in arrivo e uno tsunami di parole, che senza dubbio Stephen Markley sa organizzare e distribuire in modo compiuto e coinvolgente, ricostruendo con perizia contesti molto diversi, dalle paranoie delle milizie alle burocrazie dei governi, dai sermoni radiofonici fino alle dinamiche famigliari. Succede di tutto in Diluvio, ma, un po’ come già capitava in Ohio e qui proiettato all’ennesima potenza, c’è qualcosa che non va. All’inizio, si tratta soltanto di qualche nota falsa (ce ne saranno parecchie), più di una ripetizione e la sensazione che la trama si sia stata dilatata a dismisura senza averne la necessità. Poi, mentre i personaggi vanno e vengono, amano e tradiscono, uccidono e muoiono, ma sempre con le stesse dinamiche come se fossero incastrati in una catena di montaggio, Diluvio appare per quello che è: una sorta di specchio deformante, che attinge alla cronaca e la proietta altrove con una sua specifica urgenza. In questo è coerente con quello che succede nel suo svolgimento, dove si sostiene che “il paradosso centrale di ogni crisi è che ciò che sembra ingiusto o scorretto spesso è proprio ciò che serve per sconfiggere la crisi”. Vale per lo stesso romanzo, che moltiplica gli sforzi nel tentativo di delineare una narrazione complessiva e riesce soltanto ad accostare tanti frammenti senza che affiori un quadro intellegibile. Cosa c’è in Diluvio che non sappiamo e che non ci venga bombardato addosso tutti i giorni? L’elenco dei danni compiuti e dei capovolgimenti di fronte è all’ordine del giorno e non è ben chiaro cosa voglia dire Stephen Markley, se non aggiungersi a tutte le sensibili e meritevoli sentinelle che ormai da un bel po’ di tempo hanno suonato l’allarme. È giusto così, ma nella sua prolissità, Diluvio è l’equivalente letterario di un film catastrofico in voga qualche anno fa: rombi e boati, colpi di scena e salti mortali, baci, abbracci e addii, finché non emerge una vaga sensazione di noia.
martedì 31 dicembre 2024
lunedì 23 dicembre 2024
Sam Wasson
C’è una logica nel cominciare Il sentiero per il Paradiso richiamando l’interminabile assillo di Apocalypse Now, un film che è tutto un universo a parte. Lo ammette lo stesso Francis Ford Coppola quando dice: “Siamo tutti prodotti di questa terra primitiva proprio al pari di un albero o di un indigeno che se ne va in giro urlando. L’orrore di cui parla Kurtz non viene mai risolto. Man mano che Willard si addentra nella giungla, si rende conto che la civiltà che l’ha mandato è in un certo senso più selvaggia della giungla. Insomma, quella guerra l’abbiamo creata noi”. Apocalypse Now ritorna a ciclo continuo, è un’esperienza che determina il ritmo di tutta la Storia di Francis Ford Coppola fin dallo script di John Milius, quasi a confermarne il suo fondamentale assioma: “La realtà in cui viviamo va al di là delle nostre percezioni immediate”. Mettere in primo piano lo sviluppo incontrollabile di Apocalypse Now è una scelta che ha senso perché Coppola non è soltanto un regista visionario, capace di realizzare “film/mondo”. È stato un precursore che aveva intuito la necessità di possedere i mezzi di produzione, di comprenderli e di svilupparli. Il ruolo della tecnologia, dalla pellicola al digitale, ha un peso determinante nella costruzione degli Zoetrope, l’utopia possibile di una cinematografia senza limiti, come ben delineato dal regista: “La mia idea di studio perfetto era: fai un film con una reale possibilità di enormi guadagni e poi ne fai un altro con zero possibilità di guadagni, ma uno protegge l’altro”. Non era soltanto quello: c’è il proposito costante di modellare “un mondo da sogno”, ma la vera sfida, come ha visto giusto Sam Wasson, era “creare la vita reale”. Il paradosso è ben spiegato dallo stesso Coppola: “La mia tecnica per fare film consiste nel trasformare l’esperienza fotografica, per quanto possibile, nell’esperienza della finzione (qualsiasi essa sia) di cui ci stiamo occupando”. Gli sforzi economici per garantire questa percezione sono una saga nella saga che viene narrata come un’avventura piratesca. Coppola, sempre in bilico tra successo e bancarotta, nella documentatissima biografia di Sam Wasson non è un corpo estraneo alle logiche di Hollywood, ma Il sentiero per il Paradiso è un vademecum dei rapporti di forza dentro, intorno e dietro alle produzioni californiane. Nonostante gli Oscar e Il Padrino, il rapporto è conflittuale: Coppola insegue un’idea di indipendenza molto pericolosa per lo status quo. Spunta persino uno striscione che dice: “Non scherzare con la Grande Hollywood, sogna come ti viene ordinato”, ed è qui il punto perché per Coppola non è soltanto fare un film, la vera questione è come farlo: “I miei film sono insoliti, in parte perché considero l’arte un’avventura”. Per questo, Apocalypse Now è un’onda che riemerge a cicli regolari, fino alla fine: è stata, sì, un’immersione totale nella guerra del Vietnam e nel “cuore di tenebra” di Conrad, ma è l’espressione più intima, profonda ed esplosiva (in tutti i sensi) della personalità di Francis Ford Coppola. Ed è così che Sam Wasson ne descrive le gesta trasformando la vita e la carriera, trascorse “facendo cinema praticamente alla velocità della propria immaginazione”, quasi in un avvincente romanzo che delimita una bella fetta del cinema e della cultura lungo tutto l’arco del ventesimo secolo e di parte di quello successivo. Trascinante nel racconto, che si inoltra nei dettagli personali, a partire dalla famiglia per finire con le amanti, prodigo di dettagli nei riferimenti cinematografici e letterari, così come nelle vicissitudini finanziarie della Zoetrope, Il sentiero per il Paradiso ci porta nell’atmosfera turbolenta di un grande sognatore, capace di affrontare i momenti più difficili con una festa, un piatto di pasta e la musica ovunque, perseguendo “lo spirito di libertà, anarchia, follia e comunità” che l’ha distinto. Nella testimonianza di un osservatore privilegiato, Vittorio Storaro, diventa evidente che per Coppola “non c’è differenza tra vivere in famiglia, dirigere e girare”. Questo afflato supera il senso dell’arte in sé e diventa una sorta di monito filosofico nelle parole dello stesso regista: “Nel cinema e nella vita ti succedono cose straordinarie e sta a te farle diventare positive, perché la buona notizia è che non esiste l’inferno, ma la quasi buona notizia è che questo è il paradiso. Quindi trasformate lo straordinario in paradiso. Perché dipende da voi. Non sprecate il paradiso. E lo stesso vale per i film”. Anche Kurtz e Willard sarebbero d’accordo, B-52 permettendo.
mercoledì 18 dicembre 2024
Derek Walcott
Per quanto l’origine delle poesie che costituiscono la Mappa del nuovo mondo sia una parziale ed eterogenea selezione che va dal 1948 al 1984, qui viene rappresentata una bella porzione della scrittura di Derek Walcott. Il mare è protagonista in ogni pagina e i versi ondeggiano gioiosi come succede già in Un canto di marinai: “La musica si dispiega con le morbide vocali delle insenature, il battesimo dei vascelli, i documenti di viaggio, i colori delle uve marine, l’asprezza dei mandorli marini, l’alfabeto delle campane, la pace di bianchi cavalli, i pascoli dei porti, la litania delle isole, il rosario degli arcipelaghi”. La vita nell’oceano ha molte variabili (“Nel film delle 12.30 è meglio che i proiettori non si guastino o vedreste la rivoluzione) che vanno dalle condizioni climatiche (“C’è una luce dannatamente strana, in questa stagione il cielo dovrebbe essere chiaro come un campo”) alle necessità della cambusa fino a legami superiori e incredibili (“Se ascolto posso udire il polipo al lavoro, il silenzio infranto da due onde del mare”). Come scrive Iosif Brodskij nell’introduzione di Mappa del nuovo mondo: “L’atto di conferire a un luogo lo status di realtà lirica comporta più immaginazione e più generosità che non l’atto di scoprire o sfruttare qualcosa che era già stato creato”. Schiuma, riflessi, isole, barche, promontori, leviatani: nei versi di Derek Walcott scorre una visione panoramica fluttuante e rigogliosa, ricca della consapevolezza che “l’arte è profana e pagana” ed è l’ultima spiaggia prima della dissoluzione, come precisa ancora Iosif Brodskij: “Poiché le civiltà sono qualcosa di finito, nella vita di ognuna viene un momento in cui il centro non tiene più. Ciò che allora le salva dalla disintegrazione non è la forza delle legioni, ma quella della lingua”. Per Derek Walcott, figlio di una colonia, significa trovare un’identità all’interno di frangenti storici e geografici mutevoli, sfuggenti e sorprendenti. In un verso che ha colpito lo stesso Brodskij, La goletta Flight declama: “Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, sono nessuno, o sono una nazione”. Questa definizione assume un ruolo particolare nelle circostanze in cui si profila all’orizzonte “la morte di un grande impero”, quando Derek Walcott riflette: “Un tempo pensavo che bastasse l’amore per il proprio paese, ora, anche a scegliere, non c’è posto al trogolo”. Ritrovare il senso di un habitat è difficile perché “questo ci hanno lasciato quei bastardi: parole” e “ora non avremo altra nazione che l’immaginazione”. Il successivo disorientamento è palese in Preludio: “Noi perduti; trovati solo in opuscoli turistici, dietro ardenti binocoli; trovati nel riflesso blu di occhi che hanno conosciuto metropoli e ci credono felici, qui”. Una cruda distinzione: la Mappa del nuovo mondo è una fioritura continua che, nelle fratture, nelle ferite (“C’è troppo nulla qui”) e nelle contraddizioni, trova un orizzonte ineludibile, quando in Codicillo afferma che “per cambiar lingua devi cambiare vita”. È solo il preludio all’ultima e precisa definizione di Concludendo: “Ora, non chiedo nulla poesia, se non vero sentire”, ed è tutto lì, molto chiaro e molto semplice. Finché, “artigiano e naufrago tutto il paradiso nella testa”, Derek Walcott si confessa dicendo: “Io che ho per sole armi la poesia e le lance delle palme e lo scudo splendente del mare”. Poi, seguendo l’onda che lui stesso ha generato ammette che deve “leggere più attentamente” con l’ambizione proclamata in grande stile in Vulcano: “Si potrebbe anche smettere di scrivere per seguire i segnali dei grandi, un lento fuoco, e diventare, invece, il loro lettore ideale, ruminante, vorace, che antepone l’amore per i capolavori al tentativo di ripeterli oppure superarli, e diventare il più grande lettore al mondo”. Ottima idea.
giovedì 12 dicembre 2024
Wendell Berry
Per le vacanze natalizie, a cavallo tra il 1943 e il 1944, Andy Catlett si trasferisce in campagna dai nonni materni e paterni. La trasferta non è poi così epica: la distanza è relativa, la geografia non cambia. Però è il suo primo viaggio da solo ed è l’occasione per sviluppare un punto di vista singolare. All’arrivo, l’osservazione è puntuale ed eloquente: “Era un mondo collocato fermamente dentro le stagioni sotto la piena luce del giorno e l’oscurità assoluta. Pensavo che fosse sempre stato così e che sarebbe rimasto così per sempre”. Il breve percorso è un grande salto che suggerisce una visione più ampia, pur partendo dalle ridotte dimensioni del villaggio, anche perché “viaggiare, specialmente da soli, esprime sempre un potere metaforico”. Quando scende dall’autobus, riscopre un’atmosfera di un altro secolo e lì parte il confronto tra due epoche diverse: quella a trazione animale e quella dei motori a combustione interna, una distinzione che si identifica anche nella differenza tra i due rami dell’albero genealogico. Una dolcezza inusitata pervade le scoperte di Andy Catlett che è un ragazzino educato, ma abbastanza curioso da sviluppare un’intera cosmogonia in un piccolo villaggio agricolo, legato allo scorrere delle stagioni e ai ritmi naturali del clima e degli animali. Wendell Berry è accurato nel mostrare i valori della semplicità e della frugalità che si intravedono nella descrizione dei pasti, della convivialità e del rapporto degli adulti, ormai anziani, nei confronti di Andy. Si premura di notare che nell’insieme “era un’economia basata direttamente sulla terra, sull’energia del sole, sulla perizia individuale e sulla parsimonia, e sulla capacità delle persone di prendersi cura di sé stesse”. È un’annotazione specifica, tra le tante: Wendell Berry ha una grazia particolare nell’interpretare la percezione del piccolo Andy che si identifica in un “viaggiatore solitario” capace di entusiasmarsi per poco e di coltivare una sua collocazione tra stalle, cortili, laboratori e negozi occupati dagli adulti. Contando anche un bel po’ di riferimenti autobiografici, la constatazione di Andy risulta sincera e convincente: “Il mondo che ho conosciuto da bambino, non c’è dubbio, aveva i suoi difetti, ma era concreto e autentico”. Con i suoi occhi con la sua voce Wendell Berry trasmette la sensazione di un’era che sta sfumando dentro un’altra con l’ombra della guerra che incombe ed evidenzia tutta la fragilità di una small town nella prima metà del ventesimo secolo. Non dimentica il “massacro”, le persone che se ne sono andate, quelle che sono tornate mutilate e tutte le restrizioni dovute allo sforzo bellico, come viene puntualmente notato: “A quei tempi c’erano limiti di ogni tipo, sufficienti a ricordare anche a un bambino che al di là del mare c’erano persone che combattevano e venivano ferite e uccise a qualunque ora del giorno e della notte”. Grazie ad Andy le differenze tra i secoli emergono in una lunga teoria di dettagli (le stufe economiche e la luce elettrica, il carro trainato dai muli e le automobili e l’autobus) che vengono ben distinti con l’osservazione e con arguzia. Quel passaggio storico coincide con la scoperta della perdita e un grado di crescita che riserva una sorpresa dietro l’altra. Nella semplicità della scrittura di Wendell Berry, che ha una rude eleganza, le contrapposizioni sono vitali: come si capirà inoltrandosi nella trama, Andy è già adulto mentre dispiega la sua esperienza rurale, finché ricorda: “Eravamo entrati nel silenzio più profondo di tutti: il silenzio di ciò che deve ancora venire, di chi aspetta ciò che deve ancora venire”. Un racconto incantevole che riesce a cogliere le sfumature dei colori, gli odori e i profumi del cibo, e nello stesso tempo, i limiti, i conflitti e le contraddizioni di un futuro spietato.
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