venerdì 21 novembre 2025

Roman Kozak

Patti Smith, che c’era fin dall’inizio e ci sarebbe stata fino all’ultimo giorno, lo chiamava “la roccaforte dell’ignoto”. Una bella immagine: pur scontrandosi con la rozza realtà del CBGB, la poetica formula rende l’idea dello spirito del luogo, un topaia nel Lower East Side di New York destinata a diventare un ganglio nevralgico della musica popolare nella seconda metà del ventesimo secolo. Secondo l’affidabile percezione di Ira Robbins si trattava di “un tunnel lungo e buio, con un soffitto spoglio, pochi sgabelli al bar, un palco nel retro e pareti fossilizzate da graffette, adesivi e poster”, eppure dalla primavera del 1975 ha visto fiorire rock’n’roll band che hanno cambiato in modo radicale gli scenari sonori. Television, Patti Smith Group, Ramones, Blondie e Talking Heads sono stati tra i primi a usufruire degli angusti spazi del CBGB che è esistito ed è diventato quello che è diventato per via dell’umanità che l’ha popolato. In effetti persino il suo fondatore, proprietario e animatore, Hilly Kristal lo definisce un “incidente”, nato dal classico errore che in tutti gli esperimenti che si rispettino sortisce gli effetti migliori: “Aprii il CBGB perché pensavo che la musica country sarebbe diventata la cosa più importante. E lo divenne, anche se non qui”. Se le prime battute sono state un po’ casuali, e molto pionieristiche, in seguito si è rivelato un approdo inaspettato per realtà alla deriva. È la pop art il convitato di pietra, tutto un modo di intravedere ovunque una possibilità, di cogliere un’opportunità anche dove sembra impossibile, persino attraverso il fascino della decadenza. Più che un vago senso di comunità, l’identità del CBGB è stata quella di un capolinea che ha trasformato le necessità delle rock’n’roll band in altrettante occasioni, prima tra tutte quella di crescere in pubblico, come avrebbe detto Lou Reed, un avventore di tutto rispetto. Al netto delle variazioni di prospettiva e delle cronache più o meno affidabili, il collage di Roman Kozak puzza di verità. È crudo, diretto ed essenziale, in questo in perfetto stile CBGB: nei fatti e nella sostanza Questa non è una discoteca è una storia orale che raccoglie le testimonianze sul campo, compresi gli anni dell’evoluzione dal punk all’hardcore. Da Lenny Kaye a Dee Dee Ramone, da Richard Hell a David Byrne a volte le voci si sovrappongono al racconto di Roman Kozak che limita allo stretto indispensabile gli aneddoti e le leggende, scegliendo piuttosto di assecondare la versione dei protagonisti che a vario titolo hanno affollato il CBGB fino alla sua chiusura, avvenuta nel 2006. Una fine inevitabile perché tutto il quartiere, come gran parte della città, non ha resistito alla gentrification: il gusto tribale della street life ha lasciato spazio a quello glamour della moda e al nuovo ordine del turismo, ma nulla toglie alla magia del CBGB. Il fitto assemblaggio di Roman Kozak è arricchito dalla prefazione di Chris Frantz, dalle fotografie in bianco e nero di Ebet Roberts, dalle locandine e dai flyer raccolti da Matteo Torcinovich, nonché dall’appendice dedicata all’hardcore italiano in trasferta a New York seguita da Luca Frazzi che peraltro ha tradotto e curato l’intero Questa non è una discoteca. La precisazione racchiusa nel titolo merita di essere seguita dall’ulteriore definizione di Patti Smith: “Il CBGB è uno stato d’animo”. È vero ed è importante ricordare come ci si è arrivati, visto che Legs McNeil ha precisato che “Hilly (Kristal) fu abbastanza intelligente da lasciare che i pazzi gestissero il manicomio”. È andata proprio così, e non si poteva dirlo meglio.

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