Quando si raggiunge Il punto più a Sud restano dei punti interrogativi che toccano l’interpretazione del ruolo di genitore, il peso della fede e delle religioni, l’intervento delle istituzioni e degli strumenti di comunicazione moderni nei rapporti affettivi. Un sacco di domande che Silas House lascia scorrere nella storia degli Sharp, Archer (padre, professione: pastore evangelista) e Justin (figlio) uniti in una fuga imprevista e precipitosa. Partono da una piccola realtà rurale del Tennessee sconvolta da un’alluvione. La famiglia Sharp si è salvata e si è prodigata per i vicini. All’appello manca soltanto il cane, Roscoe, e Justin, che è un bambino piccolo per la sua età, ma particolarmente sensibile, è andato cercarlo ma dal diluvio sono emersi, Stephen e Jimmy, bisognosi di un approdo asciutto. Salvo i primi soccorsi, la moglie Lydia, molto osservante, non li ha voluti ospitare perché sono gay. Da lì si rompe qualcosa, la fede diventa una costrizione e il pastore Sharp in rapida successione lascia il gregge e la famiglia. A partire dal suo discorso di commiato dalla congregazione, volto alla tolleranza, alla comprensione e alla condivisione, subito ripreso dai social, ma l’eloquio non è gradito né dalla consorte, né dalla congregazione e Archer sceglie di andarsene, ma con la paura che Justin possa diventare “come chiunque altro in questo mondo cinico e noioso, che si perde la meraviglia di ogni cosa”, decide di portarlo con sé. La meta è Miami in cerca del fratello Luke, anche lui a suo tempo vittima del pregiudizio e dell’indifferenza. Da padre a “ladro di bambini”, è un attimo: i tribunali, gli avvocati, la chiesa non considerano le emozioni, Asher è consapevole che la sua dimostrazione d’amore sarà condannata e derubricata a reato penale, ma ormai si sono avviati lungo “una strada senza uscita o a un inizio tutto nuovo”. L’affetto filiale nelle lunghe tappe on the road suggerisce una riflessione sullo stesso legame tra padre e figlio che animava La strada di Cormac McCarthy. La differenza (anzi, proprio il contrario) è che da una parte era una forma di protezione dal caos, mentre in Il punto più a Sud è una difesa dalla cosiddetta normalità e dalla burocrazia dei palazzi di giustizia e delle chiese. Mentre scorrono le canzoni di Patty Griffin, My Morning Jacket, Sinead O’Connor e Justin canticchia ritornelli di Tom Petty, la differenza tra il Tennessee e la Florida emerge non soltanto nei contrasti ambientali che Silas House tratteggia con scrupolo e con un’attenzione fuori dal comune. Non sfugge il capovolgimento simbolico dell’acqua, da spaventosa ferita nella terra, nell’esondazione del fiume, agli spazi infiniti e alla luce del mare. La parte più consistente del romanzo si svolge proprio davanti all’oceano, dove Asher e Justin infine trovano un modus vivendi e un faticoso equilibrio. Si accontentano dell’ospitalità di Bell, che canta le canzoni di Joni Mitchell, offrendo in cambio quel poco che riescono a fare e accudiscono Shady, un randagio adottato lungo la strada. Il nucleo che si crea, comprensivo di Evona, pur in tutta la sua fragilità somiglia molto di più a una famiglia, in particolare quando ricordano che “a volte si ride e a volte si piange, e finché siamo vivi possiamo affrontare tutto il resto”. A quel punto, e siamo alla fine, Silas House è stato troppo preciso e dettagliato per concedere un happy end, ma se non altro nella logica conclusione che spetta ad Archer (soprattutto) e a Justin lascia intuire la speranza che, pur con tutti gli errori e le penalità, qualcuno in fondo abbia fatto la cosa giusta. Le questioni restano tutte aperte: Il punto più a Sud ha pure il merito di non collocare risposte preconfezionate, lasciandoci intendere non tanto che bisogna scegliere da che parte stare, ma che una possibilità di ritrovarsi c’è sempre. Toccante.
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