Nel 1970, con i massacri della Kent State University e del Jackson State College nell’aria, Joan Didion, parte per un viaggio alla scoperta delle radici americane, con un’ambizione tutta sua: “Avevo una teoria: se fossi riuscita a capire il Sud, avrei capito anche qualcosa della California, perché molti dei pionieri californiani venivano dal confine meridionale”. L’idea è farne un articolo per Rolling Stone che nel frattempo gliene commissiona un altro sul processo a Patti Hearst. Non concluderà nessuno dei due pezzi, ma, come scrive Nathaniel Rich, “gli appunti di Didion, superiori per eleganza e chiarezza alla prosa pubblicata dalla maggioranza degli scrittori, offrono un ritratto affascinante di quell’epoca. Ma anche profondamente disturbante”. Gli estremi delle pagine di un diario sono ricordi in movimento, note a margine di una sosta, impressioni dal bordo di una piscina, riflessioni a cena scrutando tra una portata e l’altra e pensieri alla guida sulle highway. Il Sud è complicato e l’Ovest è soltanto un’appendice enigmatica. È il collegamento creato da Joan Didion a tessere un purissimo filo americano. Il viaggio nel Sud è una “sensazione di mocassini acquatici” (i serpenti sono onnipresenti fino alla fine, anche se in California assumeranno le sembianze dei crotali) con lo sguardo che cerca di individuare le forme ricoperte dal kudzu, il rampicante selvatico che nello stesso tempo distingue e nasconde il paesaggio e notando puntualmente che “a New Orleans la wilderness è percepita come molto vicina, non è la wilderness dell’immaginario dell’Ovest che redime, ma qualcosa di volgare, antico, maligno, non è la wilderness concepita come fuga dalla civiltà e dai suoi disagi ma come minaccia mortale a una comunità precaria coloniale nel profondo”. È “il tempo alla rovescia” a caratterizzare le osservazioni di Joan Didion (“A Sud ci si accorge dei treni. Davvero si vive in un’epoca anteriore”) e quegli attimi, tra un condizionatore che non funziona (“Tutto sembra guastarsi sul Golfo”) e la ricerca della lapide di Faulkner (missione fallita) la accompagnano a scoprire dal vivo quello che C. Vann Woodward declinava in The Search for Southern Identity: “Ogni gruppo, di qualsiasi misura, che rifletta su di sé, fabbrica miti sul proprio passato: sulle proprie origini, sulla propria missione, sulla propria rettitudine, sulla propria benevolenza e generale superiorità”. Joan Didion resta scettica rispetto al Sud confessando che “in un certo senso sono rimasta sott’acqua, tutto il mese” e, di conseguenza, ammette con un certo candore che “forse non ci siamo capiti, o forse sì”. Il paradosso è che la lucidissima visione del Sud di Joan Didion prende forma una volta tornata sulla West Coast: “Al centro di questa storia c’è un segreto terribile, un nucleo in cianuro, e il segreto è che la storia non conta, non fa differenza alcuna, non risulta. La neve cade ancora sulla Sierra. Il Pacifico trema ancora nella propria fossa. Le grandi placche tettoniche sfregano l’una contro l’altra, quando dormiamo e quando ci svegliamo. Serpenti a sonagli nell’erba secca. Squali sotto il Golden State. Nel Sud sono convinti di aver insanguinato la propria terra con la storia. Nell’Ovest pensiamo che nulla di ciò che facciamo possa insanguinare la terra, cambiarla, o toccarla”. Una rappresentazione netta, approfondita e tagliente che porta Nathaniel Rich a concludere così la sua scrupolosa introduzione per A Sud e a Ovest: “Eppure, anche nella sua manifestazione più informale, la voce di Didion, così sensibile al grottesco, alle vanità che danzano sotto la superficie delle nostre esperienze quotidiane, resta inconfondibile”. Impeccabile.
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