Reporter a bordo della Quaker City, una nave che nell’estate del 1867 anticipava le crociere oceaniche, Mark Twain colleziona 62 capitoli attraverso una quindicina di differenti nazioni, dal Marocco alla Siria (e una buona parte dell’Europa nel mezzo) e li raduna, un paio d’anni dopo, in Gli innocenti all’estero, di cui Finalmente Parigi rappresenta la prima, spumeggiante parte. Scritto con molto trasporto, il diario di viaggio di Mark Twain è immediato, divertente, caustico, e comincia ben prima di arrivare a Parigi. I fuochi d’artificio brillano già alla partenza. Quando sulla nave, per ingannare il tempo della traversata atlantica, va in scena un finto processo, Mark Twain lo illustra così: “I testimoni erano stupidi, inaffidabili e contraddittori, come sono sempre i testimoni. La pubblica accusa e il difensore erano eloquenti, polemici e vendicativamente prepotenti l’uno contro l’altro, così come avviene sempre ed è giusto che sia. Alla fine, il caso è stato discusso, e debitamente concluso dal giudice con una sentenza assurda e un verdetto ridicolo”. È un osservatore sornione e sardonico: non gli sfugge nulla, né delle relazioni tra i passeggeri né dei contorni e delle storie dei luoghi che di volta in volta affrontano. Memorabile la descrizione di Gibilterra, che “ha resistito a diversi lunghi assedi, uno dei quali è durato quasi quattro anni (ma fallì), e solo gli inglesi riuscirono a conquistarla grazie a uno stratagemma. La cosa stupefacente è che una persona sana di mente non dovrebbe mai nemmeno sognarsi di tentare un’impresa così impossibile come catturare la rocca assaltandola, eppure hanno tentato più di una volta di farlo”. Il tenore dei commenti non cambia, una volta trovata Finalmente Parigi. Anzi, per Mark Twain la Ville Lumière è uno spettacolo en plein air a cui concede con generosità spunti sfavillanti e adatti a ogni occasione, come la scoperta del ballo più chiacchierato dell’epoca: “Dunque, questo è il can-can. Il concetto alla base di questo ballo: danzare nel modo più selvaggio, chiassoso e furioso possibile; esporsi il più possibile se si è donna; e tirare calci più in alto possibile, e questo a prescindere a quale sesso si appartenga. E in quello che ho detto non c’è nemmeno una sillaba d’esagerazione. Qualsiasi persona posata, rispettabile e non più giovanissima presente lì quella sera può testimoniare sulla veridicità della mia dichiarazione. Erano presenti numerose persone del genere che ho appena descritto. Suppongo che la morale francese non sia affatto così puritana da lasciarsi turbare davanti a simili sciocchezze”. Mark Twain riesce a divagare partendo da piccole differenze (le candele, invece del gas, che in camera gli impediscono di leggere) o da ricostruzioni più elaborate come la parata con Napoleone III e Abdul Aziz o la visita al cimitero monumentale del Pére-Lachaise fino alla conclusione della visita parigina. Il commiato è un sentito arabesco: “Dunque, abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere, e domani andremo a Versailles. Vedremo ancora qualcosa di Parigi ma solo per poco, allorché torneremo indietro per riprendere la nostra linea di marcia in direzione della nave, per cui potrò riservare a questa meravigliosa città un addio condito di rimpianti. Percorreremo molte migliaia di miglia, una volta partiti da qui, e visiteremo molte altre grandi città, ma non ne troveremo nessuna così incantevole come Parigi”. Subito dopo, l’ammirazione per Versailles dove “nulla è piccolo, nulla è economico” traspare da ogni singola riga con l’evidente intento di renderne lo splendore, almeno quanto l’intenzione di Mark Twain è rivelata nella sua conclusione: “Ah, ora finalmente mi sento come un individuo che si sia riscattato da una cattiva reputazione e che abbia dato lustro a un emblema prima offuscato, mediante una sola azione buona e giusta fatta all’ultimo momento”. En passant, la tappa parigina per Gli innocenti all’estero, così come la riporta Mark Twain, è un tassello non indifferente della lunga e capricciosa liaison degli americani con la capitale francese, foriera di uno stuolo di narratori e testimoni che rimangono in debito (e non poco) con queste pagine.
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