Il confine è punteggiato dallo slogan Adán vive, nei corrido, nelle voci, nelle storie che vengono tramandate (tutto è basato sulle voci e sulle storie), ma la scomparsa di Adán Barrera, primus inter pares tra i narcotrafficanti, ha diviso il Messico come uno specchio infranto perché “non tutti i fantasmi sono morti”. Le famiglie Esparza e Tapia, gli Ascensión e i Núñez, la sorella di Barrera e quello che resta del cartello di Sinaloa, con i figli d’arte, Los Hijos, che si consumano tra una festa e l’altra, sono pronti a darsi battaglia. Tutti si proteggono con schieramenti di guardie del corpo, ma c’è sempre una falla, un traditore, un rovescio improvviso: in Messico ricomincia un’orgia di violenza per il controllo del territorio e per la vendetta, che, in ogni caso, resta l’elemento dominante. Tanto è vero che “solo i morti hanno visto la fine della guerra” come dice l’epigrafe scelta da Don Winslow attribuendola ancora a Platone e perpetrando così la svista (come a suo tempo Ridley Scott in Black Hawk Down), dato che l’aforisma è di George Santayana. Su, al Norte, Art Keller sa che Adán Barrera è solo un ricordo (gli ha sparato in faccia due colpi, in Guatemala, in una missione segreta) e che per sua natura “la guerra alla droga tende a diventare un fatto personale”, ma c’è un passato che non passa mai. Anche lui è prigioniero degli spettri che ha creato, è l’esca e il ragno in una tela troppo fitta che Il confine divide e nello stesso tempo unisce. Quando gli viene offerto il posto di direttore della DEA, Art Keller capisce che avrà un altro ruolo nella sua storia, e altri nemici, molto più infidi, lo aspettano al varco oltre alle ombre che riemergono insieme agli incubi. Riflette, più che sparare, seguendo il corso di gente che esce dal carcere o ci rientra, uccide e viene ammazzata. I suoi interlocutori non sono più agenti sotto copertura, informatori o forze speciali di un paese o dell’altro pronte a intervenire al suo comando. Deve confrontarsi, in giacca e cravatta, con senatori, governatori, procuratori, funzionari e segretarie, ambizioni ed elezioni e tutti gli intrighi tra Washington e New York City. È così che il Messico e gli Stati Uniti appaiono come le due facce della stessa moneta, così lontani e così vicini: l’esercizio del potere si staglia su entrambi i lati che Il confine delimita. Se da una parte c’è Art Keller, con i suoi dubbi e i suoi tormenti, dall’altra Rafael Caro, un narcotrafficante che, dopo trent’anni di carcere, vive come un monaco e cerca di gestire la diaspora delle famiglie, indirizzando una faida dentro l’altra, nella logica del divide et impera e con lo scopo recondito di diventare il nuovo e assoluto patrón. Niente che non abbia già spiegato a suo tempo il Macchiavelli quando diceva che “se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenzia pervengono, o con frode o con forza esservi pervenuti”, ma l’alternarsi di “denaro, rabbia, paura, droga, sesso” trova nuovi e antichi protagonisti della saga di Don Winslow. Da Belinda (o la Fósfora), una psicopatica che inventa modi sempre più aberranti per combattere e distruggere i nemici, ai ritrovati Nora Hayden e Sean Callan fino a Hugo Hidalgo, figlio di Ernie (il partner di Art Keller all’inizio di tutto), Il confine è un labirinto shakespeariano nell’affastellarsi delle sue trame e Don Winslow è soltanto una guida, un anfitrione in questa discesa negli inferi dove l’avidità, l’ingordigia, la crudeltà e qualcosa che va molto, molto oltre il cinismo dominano i rapporti scarnificandoli al punto di non lasciare più nulla di umano. Attraverso Art Keller, guarda nell’America di oggi dei muri e delle polarizzazioni e infiltra nella fiction la triste cronaca, compresi quarantanove studenti spariti nel nulla e così Il confine è insieme un romanzo che avvolge, ipnotizza e tiene incollati alle sue novecento pagine, ma anche una cruda percezione dello “stato dell’unione”. È davvero un libro importante, come ha detto Stephen King, perché non fa sconti. Lo stile di Don Winslow si fa ancora più compatto e tagliente nel seguire Art Keller nell’insolita veste di burocrate. Nella sua nuova posizione, deve manovrare, deve intravedere attraverso le pieghe dell’intreccio tra potere politico, giudiziario, finanziario e mediatico seguendo il flusso della corruzione che può assumere forme molteplici: è ambivalente, viaggia dal basso all’alto e può essere via via sempre più subdola. Il rischio (concreto) che i proventi del narcotraffico possano influenzare il governo americano o (basterebbe quello) avere un orecchio vicino negli ambienti che contano, è qualcosa che va oltre la dimensione di un romanzo. È quello Il confine di cui parla Don Winslow che è stato oltrepassato e da cui non c’è ritorno.
Capolavoro assoluto come i precedenti
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