Aveva ragione Tom Petty: quella roba lì “non la buttano via, è ancora là, si tramanda di padre in figlio”. Si tratta proprio dei “southern accents” che pervadono Holy City, notevole esordio di Henry Wise (nella traduzione di Olimpia Ellero) che ci porta dritti laggiù. La cornice iniziale è già in qualche modo definitiva: un incendio, un morto, un uomo sulla scena del crimine, l’inseguimento, l’arresto. Le prime prove sono molto pesanti e lo sceriffo pensa di aver risolto il caso. Will Seems, giovane vice che nel nome e nel cognome contiene tutta la storia è convinto della sua innocenza e segue “un film che aveva senso solo per lui”. A quel punto l’omicidio alla fonte della trama di Holy City pare quasi relativo, così come la caccia al colpevole. Tutti hanno qualcosa da nascondere: un rimpianto, un rimorso, il senso di colpa, un sospetto che si allunga nello spazio e nel tempo. Dalle contee di Euphoria ed Emporia fino a Richmond, la Virginia appare popolata da “un’unica grande famiglia” ma è come se fossero tutti sconosciuti e le strade che percorrono non portino da nessuna parte, delimitando “una terra dura e ondeggiante che aveva finito per plasmare tutti loro, i loro corpi, i loro sogni”. Henry Wise si prodiga con una scrittura lucida ed elegante per far notare che “da quella pressione si veniva schiacciati o spinti ad andarsene per rifarsi una vita altro”. Lo stesso Will Seems “aveva l’impressione di aver vissuto un’intera vita a cercare qualcuno e di essersi ritrovato alla fine al punto di partenza, solo che quel punto di partenza era cambiato, e lui no. Non c’era nessun posto a cui tornare”. In effetti, il suo rientro è dovuto al ricordo di un’aggressione a sfondo razzista nel suo passato e a una sensazione urgente, come se tutti “potessero tornare indietro nel tempo, solo per rivivere tutto”. La memoria incide almeno quanto le apparenze ingannano e ben presto alla prima linea maschile subentra una compagine femminile che determinerà le sorti di Holy City, a partire da Bennico Watts, un’investigatrice privata che riuscirà a smuovere una situazione intricata. Il ruolo delle donne e della fede è celebrato da Henry Wise persino nel cibo quando “una grande cena” viene confezionata con il pane fatto in casa, il pesce gatto fritto “l’okra raccolta nell’orto, lessando il mais con tutta la pannocchia, e bollendo le cime di rapa con cipolla e bacon nel brodo di pollo”. Nel menù c’è tutto il Sud e nell’identità c’è un tempo che non passa, divisioni che rimangono come ferite, fratture che spaccano le persone non meno del territorio mentre Will Seems si prodiga nel “catturare, o meglio cercare di catturare, la luce cruda e arroventata di mezzogiorno. Intravedeva delle possibilità, aveva delle visioni, delle forme di estasi. Andava sempre così. A volte, ciò poteva rappresentare una fonte di pace: prendere le cose per come erano, per come sarebbero sempre state”. Nella Virginia di Holy City, i contrasti tra uomini/donne, bianchi/neri, legge/giustizia si sovrappongono agli intrecci famigliari. È lì che gli “accenti sudisti” si fanno sentire: “Guarda l’esempio offerto da questo posto: non ha mai superato la Guerra Civile, e perché? Perché il Sud ha perso. Noi pensiamo di odiare quella ferita, eppure non riusciamo a separarcene”. La soluzione non sarà indolore, ma questo, con un minimo di dimestichezza, lo si può intuire fin da subito, e del resto Henry Wise la lascia emergere già a metà della storia. Restano le distanze tra le contee e Richmond, la città dove finisce tutto, e persino all’interno dei quartieri tra Southside e Promised Land. Anche la scelta dei nomi (non casuali) porta a capire che con Holy City abbia voluto rendere “qualcosa di magnetico, di triste, di bello” che aleggia sul Sud degli Stati Uniti e che in gran parte resta ancora inafferrabile.
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