giovedì 20 marzo 2014

Chad Harbach

Succede tutto nel perimetro che comprende il campus e nel diamante del campo da baseball del Westish College, nel Michigan, due aree collegate da un invisibile, contorto eppure solidissimo cordone ombelicale. L’arte di vivere in difesa è la specialità di Henry, il protagonista (il cui nome contiene forse un’involontaria citazione dal Gioco di Henry di Robert Coover) che vive per il baseball, nel ruolo specifico di interbase, e attorno al quale si sviluppa una serie di insiemi e sottoinsiemi che sembrano prima delineare e poi smentire il paradigma per cui “l’America è questa: i vincenti vincono, i perdenti vengono buttati fuori a calci”. Il baseball non è soltanto una magnifica ossessione, quella per cui “per tutta la vita aveva desiderato possedere un talento trascendente, un’unica abbagliante qualità che il mondo non avrebbe esitato a definire geniale”. E’ anche l’essenza stessa dell’arte di vivere in difesa  perché, come dirà uno degli onnipresenti scout e osservatori che compulsano le statistiche e scrutano i talenti sul campo: “La parola chiave nel baseball è fallimento, e se non sei capace di gestire il fallimento non durerai a lungo. Nessuno è perfetto”. L’arte di vivere in difesa diventa allora il tentativo di rimandare per sempre, e non soltanto la palla da una base all’altra. E’ l’idea di “fare ogni cosa con più facilità, a poco a poco. Mangiare sempre le stesse cose, svegliarti alla stessa ora, indossare gli stessi vestiti. Intoppi, cattive abitudini, pensieri inutili: tutto ciò che non era necessario svaniva lentamente. Tutto ciò che era semplice e utile, invece, rimaneva. Migliorare a poco a poco, fino al giorno in cui tutto sarebbe stato perfetto, e sarebbe rimasto così. Per sempre”. E’ un antico miraggio, in fondo, “il sogno di giorni tutti uguali. Ognuno uguale a quello precedente, solo un po’ meglio”. Il Westish College diventa così il proscenio dove Chad Harbach costruisce la sua storia agrodolce lasciandola spesso ondeggiare tra il dramma e la commedia come le acque del lago sui cui si affaccia il campus. Un luogo da cui nessuno se ne vuole andare, ma tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro, devono partire.  Nei suoi momenti migliori, Chad Harbach ricorda la leggerezza di Stephen King senza l’elemento fantastico, salvo la spruzzata gotica del finale. I personaggi sono caratterizzati da due, tre note specifiche, da una particolare vocazione e danno il meglio quando sono legati gli uni agli altri. Il concatenarsi degli eventi è la forma stessa della trama: una serie di scene che si incastrano una nell’altra con un tenore cinematografico e con un’impercettibile vena autobiografica. L’arte di vivere in difesa traballa proprio in quei passaggi, quei gangli che dovrebbero pesare di più e invece sono risolti come punti di contatto tra un’inquadratura e l’altra e vengono raccordati con una patina minimalista evanescente. La lettura è sempre gradevole, la sostanza resta sfuggente come una palla giocata con un po’ di effetto, senza troppe ambizioni, giusto salvare la partita.

Nessun commento:

Posta un commento