lunedì 17 marzo 2014

George Saunders

Sempre caustico e irriverente, George Saunders prende i clichè della civiltà occidentale (la famiglia, prima di tutto, e senza pietà) e li viviseziona in parti irregolari, buttandole per aria per poi restare a guardare come si combinano. Il risultato è una specie di cut-up & fold-in elaborato e raffinato sul piano narrativo, non sempre agevole nella lettura, che ha un elevato  tasso di provocazione nel suo DNA. E’ la parte più riuscita, del resto di Dieci dicembre, dove l’impianto fondamentale dei racconti assume toni psichedelici ed esprime una satira sociale affilata, con una lingua ironica, sincopata, immaginifica. La percezione non è mai immediata, perché c’è un’analisi complessa dietro ogni singola short story di Dieci dicembre e la grande capacità di George Saunders è quella di tradurla in cornici ristrette, ben focalizzate, anche in contesti che appaiono surreali a prima vista. A volte le storie di Dieci dicembre sono brevissime come Croci, giusto due pagine, una cartolina spedita da un’estrema desolazione, che sembra essere soltanto l’introduzione di Il cagnolino, un’altra short story cruda e durissima. La rilettura dei luoghi comuni, come succede anche in Esortazione, e il riciclo di frasi fatte e consunte, di nomi e di modi levigati dall’abitudine è l’elemento che George Saunders usa per illustrare le dimensioni di rapporti alterati, distorti, fugaci. Se, a tratti e in superficie, i racconti sono impenetrabili è perché la vis polemica di George Saunders non cede di un millimetro ed è paradossale e iperbolica, come succede con Le ragazze Simplica, che è insieme l’espressione migliore e estrema di Dieci dicembre, compreso lo slogan finale: “Uscito fuori tema, causa stanchezza, causa zuffa gatti”. Più efficace il singolare, fantastico carattere di  Fuga dall’aracnotesta che ricorda Kurt Vonnegut nell’evocare la dipendenza farmacologica e i sentimenti di uomini e donne trattati come cavie. Tutto è fiction e surreale eppure molto pertinente alla stramba realtà dei nostri tempi, così come conferma uno dei suoi personaggi: “Ci vedo solo un normale sentimento di umanità”.  Non è un caso che proprio dietro le quinte teatrali di Fiasco cavalleresco si celi una specie di confessione: “Pensai che in fondo era una sua scelta. In base alla mia esperienza, che non è niente di straordinario, tendenzialmente concordo con il detto: se non è rotto, non aggiustarlo. Dirò di più: pure se è rotto, lascia perdere, facile che fai peggio”. Si adatta alla perfezione allo stile di George Saunders perché gioca di rimessa con le convenzioni, tende a ribaltarle e a riscriverle e così il lessico è caleidoscopico, incontrollabile. E’ ancora William Burroughs, il linguaggio come un virus: “Sto dicendo: cerchiamo di non analizzare ogni nostra singola azione in termini di sommo bene/male/né bene né male, a livello etico. Ormai certe cose sono acqua passata. Mi auguro che ognuno di noi questo discorso se lo sia già fatto quasi un anno fa, quando è partito tutto l’ambaradan”. Visionario, da usare con cautela.

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