Il mistero della scrittura, il potere della distrazione: sono questi gli estremi verso cui rimbalzano le riflessioni e i suggerimenti di Saul Bellow nell’arco di mezzo secolo. Una continuità che, se da una parte riflette il rigore nell’applicazione, dall’altra evidenzia la statura di Bellow quando afferma che “se non ci importa veramente di quel che scriviamo o facciamo, che muoiano pure tutti i libri, vecchi e nuovi, i romanzieri e i governi. Se invece ci importa, se crediamo nell’esistenza degli altri, allora quel che scriviamo continuerà a essere necessario”. Questa predisposizione lo porta a confrontarsi spesso con temi filosofici che enuncia senza perdersi in digressioni fuori luogo, ma restando saldamente attaccato alle possibilità di interpretazione offerte dalla scrittura. Una modalità che, nel corso del tempo, gli permette di esprimere valutazioni molto precise sul rapporto con la modernità, con analisi che riflettono un pensiero di un’elasticità e una chiarezza inequivocabili: “Le società localizzate dei nostri tempi sono state sorpassate dal mondo. Le grandi città le hanno divorate e ora è l’universo a imporsi su di noi; lo spazio, con le sue stelle incombe sopra le nostre teste, nel cuore delle metropoli. Ci ritroviamo dunque a dover affrontare direttamente l’universo, senza una comunità a confortarci, senza certezze metafisiche, senza la capacità di distinguere gli uomini virtuosi dai malvagi, circondati da realtà dubbie e costretti a scoprire altrettanti dubbi nelle nostre stesse identità”. Una visione lucidissima: senza sminuire una sola volta il valore della letteratura, riesce a collocarla in un contesto in cui, con estrema sincerità Saul Bellow, ammette che “non siamo in grado di modellare la storia, o la cultura. Semplicemente appariamo sulla scena, senza averlo scelto, e cerchiamo di trarre il meglio dalla nostra condizione, con ogni mezzo disponibile. Dobbiamo accettare il miscuglio nel quale ci troviamo, in tutta la sua impurità, tragicità e speranza”. Bellow è pungente, eppure sa essere convincente quando nell’arco di tutti i suoi Saggi 1951-2000 ribadisce l’indispensabile indipendenza di pensiero, un elemento che lo porta a concludere come “il grande caos del mondo esterno ci induce a cercare rifugio dentro noi stessi, ed è in questo reame più intimo che cediamo alle nostre distrazioni preferite”. È in quella terra di nessuno che “l’uomo è costretto a condurre un’esistenza segreta, ed è in quell’esistenza che lo scrittore si deve immergere, se vuole ritrovarlo”. La scrittura si mostra allora come un’arma a doppio taglio e Saul Bellow è prodigo di indicazioni perché se la sfida “è sempre stata quella di stabilire una misura, una visione della natura umana: di solito, seppur non sempre, la visione più ampia che l’immaginazione e la fede permettessero di ricavare dai fatti osservabili”, pare quasi una conseguenza naturale che “il compito di uno scrittore, a mio parere, consiste ancora nel fissare un ordine di importanza e preservare un valore umano originale, proteggendolo dagli stili, i linguaggi, le forme, le astrazioni, come anche dall’assalto e dalla distrazione dei fattori sociali in tutta la loro varietà”. Da Joyce a Hemingway, Bellow sa che “lo scrittore, allora, deve spingersi al di là di questo sistema (o meglio, di questi sistemi, perché in un pubblico composto da un milione di persone ce ne saranno in abbondanza), e restituire al lettore una duratura intuizione di ciò che è davvero reale e importante. È questo il suo vero compito, perché solo attraverso tale duratura intuizione è possibile riconoscere, nonostante mille distorsioni e offuscamenti, le vere occasioni di sofferenza, o di felicità”. In questo c’è una solidissima forma di fiducia nel ruolo dello scrittore, che “cercando di individuare cosa tutti gli uomini dovrebbero essere in grado di capire e di condividere, crea una sorta di umanità, o una sua versione composta di speranze e dati di fatto in una proporzione che varierà a seconda del suo grado di ottimismo”. Questa disposizione si trasmette per vie naturali al romanzo: Saul Bellow non crede nemmeno un momento ai reiterati annunci funebri, consapevole che “la forma stessa del romanzo coincide con l’esperienza. Tutto dev’essere mostrato come se fosse la prima volta che ci appare davanti agli occhi. È imperativo rappresentare le cose, perché nella vita dell’uomo moderno le cose sono importanti. E sono importanti perché è considerata importante la carriera dell’uomo su questa terra. La letteratura si dedica da tempo immemore ad affermare tale importanza”. L’assiduità con cui Saul Bellow promuove la forza intrinseca della narrativa, supera tutti gli ostacoli, la solitudine in primis, perché comunque “c’è un grande potere, nelle storie. Testimoniano i meriti e l’importanza di un individuo. Per un breve lasso di tempo, tutta la forza e la radiosità del mondo si concentrano su poche figure umane”. L’attenzione maniacale alla scrittura tiene conto di questo preambolo e si manifesta in vere e proprie lezioni di stile e di forma, che forse si possono riassumere nel fatto che “un vero simbolo è sostanziale, non accidentale” e ricordando ancora che la missione dello scrittore “consiste nel far percepire al lettore il peso di ogni azione”. Anche se il fine è un passo ancora più avanti: “Per vivere, respirare ed esistere, dobbiamo liberarci della paccottiglia, e dei cliché”. Tra le Troppe cose a cui pensare, questa è la più importante.
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