Nell’enorme lascito di Philip Roth, Perché scrivere? è una porzione non trascurabile a partire dall’istanza che riassume e amplifica una moltitudine di interrogativi e, di riflesso, altrettanti tentativi di risposta. Se nella sezione centrale (già nota come Chiacchiere di bottega) Philip Roth si confronta, tra gli altri, con Primo Levi, Milan Kundera ed Edna O’Brien e rilegge Saul Bellow e Bernard Malamud, altrove si concede con generosità, svelando molto delle passioni, delle trasformazioni e delle idiosincrasie degli alter ego, dei personaggi e sue personali. Uno slalom piuttosto articolato, per quanto non insolito, trattandosi di Philip Roth: l’assunzione di responsabilità nasce dall’accettare il quesito in sé, Perché scrivere?, a cui dedica una ristretta selezione di convinzioni, che ritornano puntuali, quale che sia la forma e l’occasione. A partire da una prima, eloquente confessione: “Per me scrivere non è una cosa naturale che faccio e basta, come un pesce nuota o un uccello vola. È qualcosa che mi viene da fare per reagire a un certo tipo di impulso, a un particolare senso di urgenza. È la metamorfosi, attraverso una complessa personificazione, di un’emergenza personale in una pubblica messinscena. Accogliere dentro di te caratteristiche lontane dalle tue propensioni morali può essere un esercizio spirituale molto logorante, tanto per lo scrittore quanto per il lettore. Puoi finire per sentirti più un mangiaspade che un ventriloquo o un imitatore. A volte tratti te stesso molto male allo scopo di raggiungere quello che, dal punto di vista letterario, non sarebbe altrimenti alla tua portata. L’imitatore non può permettersi di assecondare i normali istinti umani che guidano le persone nel decidere quel che vogliono mostrare e quel che vogliono nascondere”. Philip Roth offre un’impressione laboriosa e ponderosa della letteratura, ma che conserva uno spirito entusiasta nel ribadire la consapevolezza che “il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell’arte è permettere tanto allo scrittore quanto al lettore di reagire all’esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità; o, se pure contemplabili, non sempre possibili, o gestibili, o legali, o consigliabili, o anche solo utili alla sopravvivenza. Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e reazioni più ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all’operato della narrativa”. Tutto quello che viene dopo il punto di domanda di Perché scrivere? è un assiduo confronto con la materia, considerando alla pari il ruolo della lettura, sia in termini privati (“Io leggo narrativa per liberarmi della mia prospettiva angusta e terribilmente noiosa sulla vita e per lasciarmi tentare dall’identificarmi con un punto di vista narrativo a tutto tondo che non è il mio. E scrivo per lo stesso motivo”) che pubblici (“I lettori migliori si rivolgono alla narrativa per trovare scampo da tutto quel rumore, per lasciar vagare a briglia sciolta la loro coscienza, che quanto al resto viene condizionata e assediata da tutto ciò che non è narrativa”). Un’elaborazione che porta Philip Roth a riconsiderare con ogni scrupolo i suoi romanzi (valgano, in questo senso, le lunghe dissertazioni dedicate al Lamento di Portnoy), offrendone di volta in volta una diversa prospettiva, proseguita anche dopo la sua decisione di non scrivere più. Questo perché “ogni libro è una carica esplosiva, che apre un varco verso quello successivo, e comunque tutto quello che scrivi fa parte di un unico libro. Una notte fai sei sogni diversi. Ma sono davvero sei sogni diversi? Un sogno prefigura o anticipa il successivo, o in qualche moto conclude quel che non era stato ancora interamente sognato. Poi arriva il sogno successivo, ovvero il correttivo del sogno precedente, il sogno alternativo, il sogno antidoto, che lo sviluppa, o lo deride, o lo contraddice, o cerca di aggiustarlo. Puoi continuare a provarci tutta la notte”. Se il filtro onirico è ricorrente (“L’idea è percepire la tua invenzione come una realtà che può essere come un sogno”), Philip Roth ammette i limiti e le fatiche del lavoro in sé: “Scriviamo di continuo versioni fittizie della nostra vita, storie contraddittorie ma intrecciate l’una all’altra, e queste storie, che siano falsificate in modo raffinato oppure grossolano, costituiscono la nostra presa sulla realtà e la cosa più vicina che abbiamo alla verità”. Questo vale, a maggior ragione, nella specifica declinazione americana, che Philip Roth si premura di ricordare sia nella sua intrinseca natura (“In una prospettiva storica, eravamo diventati, sospinti da un ancestrale istinto americano, nuovi esseri umani irriconoscibili, ricostruiti da zero praticamente da un giorno all’altro. È così che funziona, al livello più elementare, il dramma in rapido svolgimento della nostra storia, che trasforma ciò che è in ciò che non è, e chiarisce il mistero di come facciamo a diventare noi stessi”) sia nella parabola della sua evoluzione (“Lo scrittore americano a metà del ventesimo secolo incontra grandi difficoltà a comprendere, descrivere e poi rendere credibile la realtà americana. È una realtà che sconcerta, disgusta, manda in bestia, ed è anche motivo di imbarazzo per la nostra scarsa immaginazione. L’attualità si fa beffe del nostro talento, e ogni giorno saltano fuori figure che sarebbero l’invidia di qualunque romanziere”). Tutto ciò non risponde al dubbio insinuato dal titolo, né suggerisce alternative, ma la somma di Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013 delinea l’architettura di un immaginario che, compresa la sua complessità, resta unico. I punti fermi somigliano da vicino ad avvertimenti prima di inoltrarsi in un territorio sconosciuto: prima Philip Roth sostiene che “uno scrittore ha bisogno dei suoi veleni, perché spesso l’antidoto al veleno è un libro”, che poi è l’elemento che, in qualche modo, in molti modi, attrae e contiene tutto, le crepe e le spaccature, le ferite e i nostri tentativi di nasconderle.
Nessun commento:
Posta un commento