mercoledì 18 febbraio 2015

Herman Melville

C’è un mistero nell’inseguimento di Moby Dick che hanno tentato in molti di afferrare, come se il senso stesso del romanzo fosse a sua volta un’irraggiungibile balena bianca. Nei suoi Classici americani D. H. Lawrence proponeva una prima idea, poco allineata e per questo molto interessante: “Come racconto simbolico dell’itinerario di un’anima è irritante, come storia marina è una meraviglia: c’è sempre qualcosa di irreale nelle storie marine, ed è naturale”. Sul particolareggiato excursus biologico era d’accordo anche Cesare Pavese, che però lo vedeva come una partenza, “un prodigio di costruzione per cui via via l’atmosfera gioconda e puritanesca dell’inizio e poi quella scientifica delle lunghe spiegazioni centrali, si vengono a fondere nell’ultima parte in uno spirito di lucida e gagliarda temerità quasi mitica”. Su questo c’è unanimità ed è Melville stesso a spiegare che “l’evento più meraviglioso di questo libro non soltanto è appoggiato da chiari fatti del tempo presente, ma che queste meraviglie (com’è di tutte le meraviglie) sono mere ripetizioni dei secoli”. Il carattere classico sottolineato da Harold Bloom nei suoi legami con Cervantes e Shakespeare (più di tutti) e ripreso dall’allieva prediletta di Pavese, Fernanda Pivano, che ne ha raccolto “un senso cosmico di dramma sacro”, è innegabile perché Moby Dick contiene tutti gli elementi di ogni storia umana, la vendetta, il viaggio, l’ossessione, i “miraggi” di quella che ancora D. H. Lawrence ha definito “una folle impresa”. Il carattere maniacale del capitano Achab, “pronto a sacrificare tutti gli interessi umani a quella sua sola passione”, interpreta in modo inequivocabile una ben strana solitudine. La sua caccia a Moby Dick è la stessa di tutti quelli che “immobili, come silenziose sentinelle, tutt’intorno alla città, stanno migliaia e migliaia di mortali perduti in fantasticherie oceaniche”. La forma letteraria e metaforica è autosufficiente: Moby Dick non aspetta e, una volta immersi nella lettura, ci si accorge in fretta che “ormai siamo lanciati audacemente sull’abisso, ma presto saremo perduti nelle sue immensità senza rive e senza porti”. La contraddizione è soltanto apparente e fugace, si distingue quello che Cesare Pavese chiamava un “senso continuo dell’enorme, del sovrumano” e nello stesso tempo umano troppo umano quando Melville sentenzia: “Nel giro di un istante, i grandi cuori condensano qualche volta, in una sola fitta acutissima, la somma di tutte quelle scialbe sofferenze benevolmente disperse lungo tutta la vita di uomini più deboli. E così simili cuori, benché sommari in ciascun patimento, pure, se gli dèi così vogliono, ammassano nell’esistenza un secolo intero di dolore, tutto fatto delle intensità di singoli istanti: poiché, anche nel loro centro senza punto, queste nobili creature contengono tutta la circonferenza delle anime inferiori”. Ecco, Moby Dick si spiega da solo, e in fondo l’ha capito anche D. H. Lawrence quando ha visto in Moby Dick “la nostra civiltà in fuga da tutti porti” per “l’ultima fantomatica caccia”. Resta la parola ai balenieri, perché “dicon loro, quando s’incrocia con una nave vuota, se il mondo non può dar nulla di meglio, vi dia almeno un buon pranzo. E questo finisce il boccale”. Può bastare, restando immutabile il paradosso di Moby Dick, l’eterna illusione, da cui ci divide un oceano chiamato vita, o realtà, è lo stesso.

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