venerdì 27 febbraio 2015

Bill Bryson

Bill Bryson torna in America ripartendo dal paradigma di Tzevan Todorov, che evidenziava la casualità della scoperta originaria. Come quello di Cristoforo Colombo, anche il suo comeback è un po’ da rabdomante, come se cercasse qualcosa, senza sapere bene cos’è: l’America perduta di Bill Bryson, che ha una sua grazia e tutto un suo sense of humor (l’accezione britannica l’ha guadagnata sul campo) nel raccontarla, è sopratutto una questione personale perché non appena è stato capace di pensare che “doveva esserci altro nella vita” oltre a Des Moines, Iowa, è partito assecondando l’urgenza di trasferirsi in Europa. Non tanto nella versione standard dell’anno sabbatico alla ricerca delle proprie radici, quando inseguendo il sogno di “vivere in un appartamento che si affacciava su un parco nel cuore della metropoli, e vedere dalla mia stanza una miriade di colline e tetti”. Al suo rientro, una decina d’anni dopo, l’America che ha lasciato non c’è più e il suo pellegrinaggio on the road è una specie di risarcimento, a se stesso, in primis. Des Moines è il nodo di un tracciato, sulla mappa una specie di otto rovesciato, un infinito piuttosto irregolare attorno alla costa atlantica, che Bill Bryson segue attraversando le periferie e inanellando una smalltown dopo l’altra, cercando una città ideale e incrociando un inedito panorama. Pur rimanendo sulla superficie, la parziale ricognizione ha il pregio di disporre sulla carta molti coriandoli della cultura e (in particolare) della sottocultura  americana: le insegne, le tavole calde, i cartelloni pubblicitari, i cartelli stradali, i bizzarri nomi delle cittadine “in the middle of nowhere” e tutti gli ammennicoli ben noti ai turisti per caso. Bill Bryson non è sfiorato dal tentativo di un’interpretazione più approfondita e il suo, per quanto lungo e articolato è un viaggio monco, anche da un semplice punto di vista geografico, perché manca il Texas e New Orleans, una parte non relativa dell’America, vecchia o nuova che sia. E’ più la cronaca della “sua” America perduta e in questo Bill Bryson non perde un colpo uno: la lettura può essere anche molto piacevole, presa così, con una certa leggerezza e adeguandosi alla nostalgia di un’America destinata a svanire sullo sfondo. Per comprendere i motivi serve qualcosa in più, perché come diceva Joan Didion: “Un luogo appartiene per sempre a chi lo reclama con più forza, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, gli dà forma lo interpreta in modo così radicale da ricrearlo a sua immagine”. E’ solo così che si può spiegare la discrepanza tra il viaggio di Bill Bryson e l’America perduta, come una sottile distanza tra una mappa imprecisa e la geografia reale. Più di tutto, è nell’incongruenza tra storia, passato e memoria dove l’America si perde e qui Bill Bryson ha visto giusto quando scrive che, “in generale, anche se generalizzare è cosa sempre pericolosa, gli americani venerano il passato fintanto che sia fonte di denaro e non manchi di aria condizionata, di parcheggio gratuito e di altre comodità essenziali. Conservare il passato per il passato non è un concetto molto diffuso. Al sentimento viene lasciato poco spazio”. America perduta si riflette proprio in queste parole, a metà strada tra la malinconia e il sarcasmo, senza arrivare alla meta.

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